Ma si dai...mettiamoci la faccia...o tutto il corpo per una volta....sullo sfondo opportunamente giallo-panterato che ormai come ogni anno ricopre tutta la cittadina di Locarno, tra allegria e kitch contagiosi e pertinenti ad una festa cominciata all'insegna della cinefilia più pura ed appassionante.
Oggi è il giorno dell'italiano in concorso e comunque, campanilismo a parte, Il film di Pietro Marcello, anche questa volta commistione suggestiva di dcumentario e fiction, è un film potente e commovente che lascia il segno, e odora già di Pardo d'oro o comunque di un premio fra quelli previsti qui al Concorso.
BELLA E PERDUTA
Il cinema di Pietro Marcello, sempre in bilico tra narrativa e documentario, si concentra sulle figure degli umili, anzi degli ultimi, quelli che a volte rivendicano con orgoglio e coraggio la propria condizione ponendosi coraggiosamente a baluardo del proprio operato e della propria intransigente, eroica presa di posizione.
Dopo la Liguria dei carruggi genovesi, teatro d'azione di una coppia impossibile e per questo perfetta de La bocca del lupo, il regista casertano resta nella sua terra campana per raccontarci di un eroe piccolo e silenzioso: un pastore di bufali che sacrifica la sua vita per mantenere in piedi un bellissimo casale-reggia che giace abbandonato a se stesso, all'incuria e alle razzie dei saccheggiatori, tra le lande desolate e fertili di una periferia casertana devastata dai rifiuti e popolata da mandrie di bufale da latte. BELLA E PERDUTA è appunto la Reggia di Carditello, gioiello dell'epoca borbonica risalente al 1700, da troppo tempo in stato di abbandono nonostante l'eroica iniziativa di un privato cittadino e pastore, divenuto custode a tempo perso e in modo assolutamente volontario e gratuito, spinto da un amore viscerale per quella meravigliosa struttura architettonica in pericolo di degrado irreversibile.
La volontà di Tommaso, questo il nome dell'umile operoso ed illuminato dai bellissimi occhi cerulei e buoni (quasi quanto quelli corvini ed umidi del piccolo bufalo destinato come tanti al sacrificio, al servizio di una umanità vorace e distruttiva), è quella di tenere in piedi una location preziosa di cui lo stato e la burocrazia si sono dimenticati o hanno sepolto tra le pratiche impossibili destinate all'indifferenza. L'unica cosa che l'uomo chiede in cambio è che un piccolo bufalo maschio, chiamato Sarchiapone, in quanto tale destinato alla macellazione ancora infante, venga tenuto in vita. Per questo un allegro e un po' disorganizzato Pulcinella si materializza per salvare l'animale e portarlo al sicuro, tra pastori ignoranti ma citazionisti di una poesia dannunziana bucolica assolutamente pertinente e doverosa.
Le sorti dell'animale sono segnate già dalle prime scene iniziali, e la sconfitta e il disgusto per il trionfo dell'ingiustizia divengono il tratto comune di una storia di piccoli eroi soffocati dalla corruzione e dall'indifferenza generale.
Tommaso morirà (per davvero!!! a volte le storie vere superano la fantasia o l'irrazionalità emozionale della narrativa) in circostanze misteriose o non chiarite la notte di un Natale passato da poco, ufficialmente per infarto. Ma la sua figura, scomoda, per la malavita locale, ma pure per le amministrazioni del posto che col loro non fare, non reagire, alimentano ed incoraggiano la clandestinità ed il malaffare, diviene sempre più evocativa di un cittadino solo, apparentemente impotente e fragile come un fuscello che si oppone al colosso della corruzione e del malaffare, da sempre simbolo della forza prevaricatrice della camorra, che si alimenta come un vampiro della linfa vitale dei piccoli innocenti, come i mammiferi impotenti destinati al macello.
Tra le vittime designate inesorabilmente dalla condizione che li delinea, il bufalo cucciolo, con i suoi occhi umidi ed umani, lo sguardo buono e pacifico che lo rende parte integrante di una natura benevola e bucolica solo a sprazzi, tra cuccioli di cane e altre specie innocue e pacifiche, personifica l'onestà che finisce sempre per soccombere, nonostante la mobilitazione tardiva di una macchina dell'informazione sempre troppo superficiale o generalista.
Marcello fa un film forte, potente, emozionante ed intenso che si innesta ed interseca nel carattere e nei tratti dei personaggi e delle maschere popolari italiane proprie della più antica tradizione popolare, che altro non sono, già dalla loro genesi, se non la personificazione dei tratti, vuoi dominanti vuoi oppressi, vuoi servitori arrivisti, vuoi vittime designate, del prototipo di personalità variegata che da sempre riempie la sfaccettata massa sociale, sempre divisa tra oppressori (pochi e potenti) ed oppressi, ovvero una massa diffusa e soccombente.
Un meritato plausibile Pardo D'oro di questa prima metà festivaliera, tra i film in Concorso visti sino ad oggi.
VOTO ****
Sempre in Concorso, MA DAR BEHESHT (titolo internazionale PARADISE), è il primo film di fiction del regista iraniano SINA ATAEIAN DENA, e il primo di una trilogia pensata dal cineasta come una celebrazione ed una rappresentazione della violenza nel mondo che ci circonda.
Senza alcun permesso ufficiale, e quindi clandestinamente alla maniera di Panahi o comunque con lo stesso schema coraggioso ed intransigente di lavoro, il regista ci presenta la storia di una giovane maestra venticinquenne a cui hanno appena assegnato una cattedra in un quartiere popolare e povero molto distante dalla sua dimora: circostanza che la costringe ad un lungo sfiancante pellegrinaggio quotidiano, stressandola e facendole accumulare tristezza che la riduce ad uno stato esistenziale precario, piegato per di più, o ancora succube, di un grave lutto familiare: ella infatti ha di recente perso entrambi i genitori, circostanza drammatica che le ha impedito pure di convolare a nozze, mettendola nella situazione imbarazzante di zitella in un'età in cui tutte le sue coetanee si trovano già parte di una famiglia nascente o in via di definizione.
Le richieste di trasferimento rimangono bloccate dalla immobile macchina burocratica che muove l'organizzazione statale iraniana, e la frustrazione della giovane Hanieh (questo il suo nome) diviene quasi un incubo, che le disegna sul volto un'espressione di perenne delusione e per nulla velata tristezza.
Ma quando nella scuola elementare in cui la maestra insegna, un numero sempre più alto di ragazzine svanisce nel nulla, la giovane capisce che il suo è in realtà solo un capriccio in confronto alle drammatiche incognite che si celano dietro queste misteriose sparizioni, attribuibili probabilmente all'azione di un insospettabile maniaco attratto morbosamente dal candore delle giovani creature.
Il film ha il pregio di intrattenerci con scorci metropolitani ed inquadrature proiettate sul volto della protagonista che risultano molto efficaci e sin accattivanti, come la ripresa del viso grazioso ed occhialuto di Hanieh visto attraverso l'acquario esposto nella vetrina di un negozio di fronte al quale la ragazza passa ogni giorno, intrattenendosi in quel paesaggio marino limitato ma dall'atmosfera protettiva che le produce probabilmente un effetto protettivo e rivitalizzante, come a catapultarla per qualche sereno istante in un altro pianeta, utile a dimenticare affanni e piccole grandi tragedie quotidiane.
Manca un po' lo sviluppo inerente le sparizioni, che dovrebbe essere coerentemente il traino portante del film, che invece risulta risucchiato troppo ossessivamente nella quotidianità grigia e oppressa di una protagonista involontariamente e sommessamente troppo invadente.
VOTO ***
Incomprensibilmente ed imperdonabilmente In Concorso, troviamo subito dopo NO HOME MOVIE della nota regista belga Chantal Akerman, impegnata a mostrarci un ritratto personale e sin troppo intimo, omaggio verso l'anziana madre, ormai scomparsa da poco tempo.
L'esigenza di molti o almeno alcuni registi di aprirsi a raccontare vicende personali come l'attaccamento al proprio genitore, è un passo certamente meditato e sentito nel profondo. Nanni Moretti, con il recente intenso Mia madre, non rinuncia alla storia e al suo cinema, trasfigurando i ruoli e lasciando tracce personali ad intersecarsi su una vicenda più complessa che non rimane confinata all'intimo privato. La cineasta giapponese Naomi Kawase lo fece con la medesima amorevole cura e con la stessa forma documentaristica della Akerman nel suo intimo e riuscito Trace, in cui l'oggetto dell'interesse non fu in quella occasione la madre, né tantomeno il padre, genitori che la abbandonarono da bambina per farla accudire dalla amorevole nonna: ella invece diviene il fulcro di una vicenda di complicità, ricordi ed intima riconoscenza.
La Akerman filma la quotidianità più banalmente reale, ci lascia attendere minuti estenuanti su inquadrature fisse dirette su muri e scaffali, pareti e suppellettili di casa, a sentire ciabattare incerta l'anziana genitrice, per poi trasferirci incomprensibilmente in un qualche deserto dove un vento sferzante ci lascia in sospeso per alcuni altri minuti eterni senza farci capire o darci indizi su qualcosa di così personale che dovrebbe rimanere tale.
Imbarazzo inevitabile, la pur drammatica storia di una famiglia polacca riparata prima della guerra in Belgio per fuggire alla persecuzione ebraica: una storia forte ci sarebbe dunque, ma alla regista, e possiamo concederglielo, interessa il singolo movimento della quotidianità, quello che le farà rivedere per sempre una madre che ha, inevitabilmente i giorni contati.
Non sarebbe allora più opportuno e pudico fare un film tutto per sé oppure un prodotto destinato ad una rassegna più sperimentale? Che senso ha includere nel Concorso un diario intimo così personale che non possiamo proprio intercettare perché nessuno di noi è Chantal Akerman?
Nessuna risposta per un film fuori posto, messo li apposta per essere massacrato.
VOTO *
Nella sezione Concorso cineasti del presente, troviamo un buon film dal titolo OLMO & THE SEAGULL: una occasione opportuna ed imperdibile per la bravissima attrice Olivia Corsini per mettere in luce le fasi di una maternità che condivide e rivive assieme alla protagonista del suo ruolo, una gravidanza da gestire in concomitanza alla professione di attrice: le difficoltà di essere donna incinta mentre si lavora e non si può o meglio potrebbe interrompere un progetto importante proprio quando l'agognato successo sembra ormai affacciarsi alle porte.
Olivia e Serge sono loro stessi anche nella finzione, attori che affrontano la notizia di una gravidanza non proprio cercata con affanno, ma percepita come un lieto evento, condividendo i dubbi e le tensioni che si creano poco dopo quando all'uomo viene comunicato che la loro turné de Il gabbiano di Cechov, è stata venduta per diversi mesi tra molti teatri anche all'estero.
I problemi e i micro o grandi drammi di una donna che come tante lavora e non può buttare al vento gli investimenti ed i progressi conquistati con mesi e mesi di sacrifici, si concentrano nel volto e nel corpo in metamorfosi della donna ed attrice vera; ma anche nelle problematiche spesso concrete e spicce che dividono o creano contrasti tra una coppia invero affiatata ed affettuosa, ed il film, recitato molto bene e diretto con accurata pertinenza dal tocco femminile e quasi materno delle due registe Pedra Costa e Lea Glob, si sdoppia attraverso le due personalità che la donna, attrice ed essere umano, deve interpretare, cercando con mille sforzi di far convergere interessi opposti e spesso difficili da compendiare. L'intimità e il realismo che non diventano mai piatta sciatteria quotidiana, ma che si innalzano anzi a punti forti di una pellicola sincera recitata con intimità e desiderio di raccontare qualcosa di vero, concreto e reale.
VOTO ***
Torniamo al Concorso, dato che non c'è tempo da perdere, perché il film che ci occupa è di origine cingalese, quindi raro o impossibile (quando mai poterlo affrontare in sala? in Italia oppure anche in Francia?), e poi perché si rivela uno dei più belli visti sino ad ora nella sezione principale.
SULAGA GINI ARAN lascia spazio al bellissimo ed evocativo titolo internazionale che suona col suggestivo e apparentemente impossibile miscuglio cromatico di DARK IN THE WHITE LIGHT.
Storie di ordinaria violenza si alternano ed intrecciano a quelle contemplative di un monaco buddhista alla ricerca della pace interiore e della spiegazione suprema dello stare al mondo.
Tutto il resto è malvagità, corruzione e violenza che vede in azione un venditore di organi, un medico molto esperto incapace di trattenere i suoi istinti violenti e sessualmente incontenibili, e uno studente che non riesce a controllare le proprie emozioni per testare e rendersi conto di essere veramente adatto a quella professione.
Atmosfere magiche che rendono efficacemente l'aura lugubre e malata di morte che affiora dalla realtà cittadina e spesso notturna della metropoli cingalese; riprese meravigliose, quadri incantevoli mai fini a se stessi e molto seducenti che coreografano tratti accattivanti anche quando il macabro e la morte si insinuano prepotenti ad influenzare il trascorrere di esistenze strappate alla quotidianità dal dolore e dalla sopraffazione.
Dark in the white light è un film d'atmosfera sulla cattiveria che riesce a soffocare la naturale bontà umana, inghiottita in una spirale di sopraffazione che costringe il bene a ritirarsi in oasi isolate e a cercare riparo dalla folla ormai perduta per sempre.
Un film non facile, contmplativo e buio, oscuro come la malvagità che opprime la positività e che non racconta narrativamente ma manifesta, rappresenta, non concede sconti o pietà a chi se la merita e ci lascia spiazzati di fronte alla meraviglia ingannevole del peccato, a alla insistita violenta rappresentazione della brutalità umana come una inguaribile spirale che aiuta a sopravvivere come belve ai danni delle vittime che ci circondano.
VOTO ****
Riuscire a vedere finalmente un film grazie a Locarno: in concorso a Berlino 2015 come unico film italiano, il primo lungometraggio di Laura Bispuri, VERGINE GIURATA, tratto dal romanzo di Elvira Dones, ha avuto in Italia una distribuzione vergognosa: un film di cui si è parlato e scritto molto, ma che nessuno è riuscito a vedere, soprattutto per il fatto che non è stato proiettato quasi da nessuna parte.
Tristezza del discorso di fondo a parte, la vicenda di Hana, la sua odissea che la vede femmina sacrificata alla verginità per riuscire a sfuggire ad un matrimonio combinato inconcepibile ed insoddisfacente, trova la sua soluzione o la speranza di una svolta quando la ragazza, nei celati panni di un uomo, si rifugia in Italia a casa della sorella, che da anni vive a Bolzano.
Dopo la diffidenza da parte della sua stessa famiglia e incontri più o meno accidentati con una umanità affamata di sesso e di soddisfazione, la giovane riuscirà finalmente a definire una propria condotta di vita, trovando un posto nel mondo precario e livido della quotidianità di tutti i giorni.
Laura Bispuri ieri sera a L'altra sala in Locarno
Scandito da un via vai temporale che getta un po' di confusione nell'andamento narrativo di una vicenda troppo poco spiegata e molto lasciata alla singola interpretazione, Vergine Giurata si fa forte di una grande protagonista come Alba Rohrwacher in grado di emozionare con l'aderenza fisica del proprio corpo androgino al personaggio controverso che deve impersonare e rimane un esordio importante che fa ben sperare su una nuova giovane regista che ci piace davvero tanto.
VOTO ***1/2
La giornata impegnativa e piena termina con l'autore più atteso, ma anche col film più enigmatico e complesso tra tutti quelli visti sino ad ora. Torna dopo quindici anni di assenza dalla regia Andrzej Zulawski, e lo fa spiazzando chi in qualche modo ha tentato di trovare un filo conduttore tra la sua complessa filmografia, tra le ossessioni sessuali e le mutazioni horror che hanno contrassegnato la sua avventura cinematografica.
Tratto dall'omonima opera di Witold Gombrowicz, COSMOS vede arrivare in una casa adibita a bed & breakfast, due giovani con qualche problema od incertezza esistenziale: Witold (pure lui) è uno studente con qualche problema di esami non superati all'università, mentre Fichs è un giovane vivace e ribelle che si è appena licenziato da una società di moda. La bella casa accogliente li aspetta offrendogli una camera confortevole ed il calore di una famiglia eccentrica che non si limita a fornire loro una dimora impersonale, ma invece finisce per dar loro quell'appoggio e un bizzarro calore familiare che finisce per costituire un valore aggiunto in qualche modo impagabile.
Peccato che nel parco della villa, ombroso e cinto di mura ricoperte di muschi verdi e di vegetazione lussureggiante, qualcuno si diverta ad uccidere piccoli uccelli e poi mammiferi e ad impiccarli lungo un sentiero tortuoso che collega la dimora al bosco. C'è anche una cameriera impacciata ma buona, con un vistoso problema al labbro e una avvenente figlia di una eccentrica madre (Sabine Azema) e di un padre canterino e maldestro. La giovane diviene l'ossessione di Witold, il bello del duo di nuovi ospiti, ma la ragazza si è appena sposata con un giovane altrettanto avvenente.
Per Witold è un vero problema che potrà risolversi solo con lo stesso strumento con cui vengono eliminati gli animali che si aggirano attorno a casa.
Un film inclassificabile e bizzarro, che va dalla commedia scatenata e canterina al giallo macabro che vira poi alla satira noir. Più che un film di Zulawski, complice anche la presenza di Sabine Azema, sembra di trovarsi in una delle opere mature ed ultime del grande Alain Resnais: esperimenti curiosi e pazzerelli, inclassificabili ed imprevedibili come la follia di una mente matura che può permettersi il lusso di osare e dire quello che vuole, esprimendosi come meglio crede.
Si abbandona la sala con un certo turbamento, senza saper come intendere questo scherzo crudele beffardo e insistito, canterino e maldestro che ti salta addosso senza lasciarti mai un attimo senza tregua, sbalestrato e stordito alla ricerca di spiegazioni che non arriveranno mai.
VOTO ***
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