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OLTRECONFINE (17): RYAN REYNOLDS: E’ UNO DEI DIVI PIU’ ECLETTICI DEL MOMENTO, PECCATO CHE IN ITALIA NON CE NE POSSIAMO ANCORA ACCORGERE. LENA SMEMORATA IN CERCA DI SODDISFAZIONE; LUI+LUI+ L’ALTRA IN UN MENAGE CHE ODORA DI MORTE; L’ODISSEA DI ESSERE MADRE
di alan smithee ultimo aggiornamento
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"Appunti veloci e primo impatto sul cinema che ci precede, su quello che ci sfiora, o addirittura ci evita; film che attendiamo da tempo, quelli che speriamo di riuscire a vedere presto, ma pure quelli che, temiamo, non riusciremo mai a goderci, almeno in sala." 

 

 

Ryan Reynolds ovvero la bellezza e la forma fisica che non limitano, condizionano, impoveriscono - una volta tanto - le potenzialità espressive o recitative; un discorso unisex che rivolgo in questo caso all'attore in virtù di una sua diffusa presenza ultimamente sul grande schermo, almeno oltreconfine.

Non che si tratti dell’unico divo in ascesa, ci mancherebbe, a cui capita questa favorevole alchimia: l’omonimo Gosling lo tallona da vicino e il lanciatissimo Gylleanhall probabilmente lo supera pure.

Fatto sta che il biondo canadese Reynolds, classe 1976, dopo tanta televisione e comparse in serials, dopo il falso esordio cinematografico col triviale Maial College, si è costruito negli anni una carriera che gli ha permesso di percorrere e distinguersi in generi più disparati, non rinunciando per questo a titoli commerciali, tanto meno rinunciando alla lusinga (ed ai soldoni) di interpretare un supereroe (non Marvel, bensì della scuderia DC Comics, nello specifico impersonando Lanterna Verde in una trasposizione non proprio memorabile, ma in cui egli di certo non sfigura.

Film magari non campioni d'incasso assoluti, ma di qualità medio-buona, anche quando si è trattato di sequel (Blade 3), di horror o remake di horror famosi come Amityville, riuscito invero piuttosto bene e sopra la media degli abituali e spesso scontati ed inerti aggiornamenti.

Senza volere addentrarci nella sfera privata del divo, che lo ha visto spesso al centro di cronache rosa per le belle e famose donne di cui si è circondato, spesso sposandole, altrettanto divorziandole, o semplicemente abbandonandole, veniamo rapidamente a parlare della stagione 2014/2015, annata piuttosto fruttuosa, da vino buono, in cui il divo ha dato sfogo a tutta una serie di partecipazioni estremamente variegate ed eterogenee, forse non proprio da grosso pubblico, non successoni interplanetari, ma certamente scelte per nulla scontate, frutto di valutazioni di tipo autoriale che hanno permesso al volitivo Ryan di dimostrare un certo non comune eclettismo espressivo, una certa scaltrezza nelle scelte intraprese (merito suo o di un suo bravo agente, vai a sapere...) che gli fa certamente onore, e lo rende qualcosa di molto più che un bisteccone tutto muscoli da action movie, circostanza per la quale detiene peraltro il fisico perfetto, ma anche destino fin troppo delineato a cui pareva inevitabilmente destinato Reynolds nei primi anni di esperienza cinematografica.

E dunque prima di poterlo vedere in Ariel Vromen, impegnato con l’inossidabile (nonostante il tonno italico contribuisca non poco ad annacquargli la classe un tempo indiscussa) Kevin Costner, e ancor dopo, già nel 2016, in Deadpool di Tim Miller, chi si trovava in Francia nei mesi scorsi ha potuto apprezzare l’attore statunitense innanzi tutto nella penultima, fosca e inquietante opera del rinato autore canadese Atom Egoyan, da tempo effettivamente un po’ sottotono, e tornato (quasi completamente) in forma con il thriller teso ed inquietante THE CAPTIVE di cui vi ho già parlato i mesi scorsi.

Ancor più originale ed interessante è la partecipazione dell’attore in un altro thriller, dai risvolti horror-comico-splatter: sto alludendo allo scatenato THE VOICES,

in cui il bel Reynolds è un assassino psicopatico che uccide donne bellissime (una è l'opulenta e tutta curve Gemma Arterton, l’altra è la secca e ma anche secchiona, ma non per questo meno interessante Anna Kendrick), seguendo i maldestri suggerimenti provenienti dalle voci di due esilaranti animali domestici parlanti (cane e gatto=bene e male) nella bizzarra ma riuscita e spassosissima commedia noir della fumettista, disegnatrice e cineasta iraniana Marjane Satrapi, definitivamente passata dall’animazione (Persepolis) alla fiction prima con il deludente Pollo alle prugne, ora con ben altri risultati con questo suo primo film dal budget e cast internazionale. Cliccando sui titoli qui sopra, potrete accedere alla recensione che è seguita al post a suo tempo predisposto in un precedente Oltreconfine.

Senza volermi troppo concentrare o limitare su un post monografico dedicato ad un autore, ma ricollegandomi al fine principale con cui tendo a concepire questa un po’ rudimentale ma cocciuta rubrica di anticipazioni post visione in sala, tendente come sapete a segnalare nuove pellicole catturate all’interno della lussureggiante boscaglia cinefila francofona, segnalo qui di seguito tracce ed impressioni sui altri due film appena usciti che vedono coinvolta la star di cui sopra.

LA FEMME AU TABLEAU (titolo internazionale WOMAN IN GOLD), è il primo: produzione anglosassone che porta la firma innocua di Simon Curtis e vede coinvolta quella piccola grande donna di Helen Mirren ad impersonare Maria Altman, tenace settantenne che non si arrende di fronte al sistema artificioso e ingannevole che le ha visto sottrarre da decenni, dopo le tormentate vicende dell’invasione e della ritirata nazista da mezza Europa, una delle più apprezzate opere del noto pittore Klimt,di cui il museo austriaco più noto si è, a suo dire, indebitamente impossessato.

Dopo aver convinto a difenderla un giovane avvocato di Los Angeles (proprio il nostro Ryan, pallido e smagrito in modo eccezionale rispetto alla generale perfetta forma fisica in cui mediamente ci appare), un po’ complessato e sul cui curriculum acerbo pesano parentele per lui troppo scomode ed imbarazzanti con illustri ma castranti familiari.

Fatto sta che questo inedito ed un po’ bizzarro duo si farà carico di portare a termine un processo per la rivendicazione del torto subito che porterà l’anziana irremovibile donna a spuntarla su potenti lobbies e pressioni dalle sfere più alte del governo austriaco, fortemente intenzionato a non farsi scappare un tesoro prezioso ed imprescindibile come il capolavoro di Gustav Klimt.

Storia vera, cinema medio che sa farsi apprezzare disponendo strategicamente tutte le sue carte vincenti secondo un ritmo che incontra il favore del pubblico.

Come quasi sempre, l’istrionismo controllato della Mirren vince su ogni cosa, divenendo nel contempo il punto forte, ma anche la limitazione del film. Per Reynold, qui un po’ costretto a spalla del primo attore (o meglio attrice in questo caso), una prova dignitosa e controllata che tuttavia non accende nuovi riflessi degni di nota. (molto meglio l’assassino seriale in tuta rosa shocking del film della Sartrapi citato poco sopra)

VOTO **1/2

RENAISSANCE (SELFLESS)

Scritto da David ed Alex Pastor, e diretto dal Tarsem Singh che aveva creato illusioni di alta levatura col visionario accattivante The Cell, franando col troppo ambizioso ma mortalmente noioso The Fall, rimanendo inerte con lo storico e retorico Immortals, riprendendosi solo di poco col curioso Biancaneve, SELFLESS è uno sci-fi accattivante che ci parla di morte e risurrezione in corpi diversi, ossia di uno strumento per soli ricchi per vincere la caducità e l’imperfezione dell’organismo umano, sostituendolo con un altro, più sano e giovane, in cui proseguire a vivere. E’ ciò che gira in testa ad un potente miliardario, magnate della finanza (Ben Kingsley quando fa l’avido e il potente è spesso, come in questo caso, perfetto), minato da un cancro che non gli lascia alcuna speranza di sopravvivenza.

Per questo motivo cede alle lusinghe di una misteriosa equipe di medici d’avanguardia, che gli propongono di trasferire la sua personalità, la sua anima, in un corpo nuovo, perfetto: un ammasso di carne che, gli assicura il capo dell’equipe, è un vero e proprio organismo di cellule creato artificialmente, come guscio perfetto per custodire una personalità preziosa come quella del morente.

Ovviamente l’esperimento riesce, ma si porta dietro strascichi inquietanti, dove il nuovo corpo comincia ad avere visioni o ricordi di fatti e situazioni che si ispirano a ricordi di vita vissuta in precedenza, facendo avanzare dunque al nuovo essere dubbi sul fatto che il corpo utilizzato fosse in realtà qualcosa di creato in laboratorio, e non di vite umane estorte e piegate a sostituirne altre di clientela facoltosa con mire di immortalità.

Ryan Reynolds, nel ruolo del guscio umano che tale non è, ruba a Kingsley oltre ¾ di pellicola e il film si dispiega ed organizza come un thriller dai risvolti sentimentali che si lascia seguire con un minimo di attenzione.

Nulla di particolarmente travolgente, a conferma della medietà di un regista a suo tempo eccessivamente montato.

VOTO ***

LENA (LOSE MY SELF)

L’epopea tragicomica di una donna quarantacinquenne felicemente sposata, con una cattedra in materie letterarie ed un lavoro prestigioso, che improvvisamente ad una festa in cui partecipava col marito, perde improvvisamente tutti i ricordi personali e si ritrova davanti solo sconosciuti a cui non sa più dare un volto od un natale.

Fedele ai ritmi solenni e alla fredda interpretazione e lettura di fatti, cose o persone, secondo uno stile che ricorda, almeno vagamente e senza necessità di scomodarlo, meravigliose e maliziosamente intime certe storie fassbinderiane di metà Settanta, certi personaggi femminili divenuti immensi grazie al grande regista (Petra Von Kant, Maria Braun, Martha, e molte altre) “Lena” si affida al bel volto perso nel vuoto, con gli occhi pittati di un nero gocciolante ed umido e al corpo esile che sa ancora sedurre  e piacere, della piuttosto nota attrice Maria Schrader, per sfoderare la sua grinta, così nascosta tra le pieghe di convezioni sociali e atteggiamenti benpensanti che abbandonano la protagonista facendola finalmente vivere esperienze uniche e sentimentalmente vive e vitali. Al suo fianco Ronald Zehrfeld, recentemente visto ne “Il segreto se suo volto” con Nina Hoss, nel ruolo dell’amante occasionale piovuto dal cielo, mentre la parte del marito cortesemente rifiutato è riservata all’attore Johannes Krisch, pure lui visto di recente al cinema ne Labyrinth of lies, film tedesco di Giulio Ricciarelli.

Gli interpreti, più che la direzione diligente ma un po’ impersonale e quasi fredda di Jan Schomburg, che tuttavia non lesina falsi moralismi o pudori mostrando nudi integrali in primi piani quasi spiazzanti, risultano il fattore vincente, assieme a tocchi ironici fino al sarcasmo, di una tragicommedia quasi pirandelliana nello stile avvitato su se stesso ed accattivante di cui si caratterizza la singolare pellicola, ritratto a suo modo appassionato e sincero di una donna perduta nel caos della propria memoria, ma proprio per questo integra, in grado di scegliere le opportunità più genuine che la vita le mette dinanzi, senza proteggersi da remore o rimorsi, né tanto meno facendosi condizionare da falsi pudori o timori riverenziali.

Resta spiazzante il volto atono di Lena, i suoi occhi enormi impiastricciati di colore che cola fondendosi con l'umidità di una lacrima che stenta a scendere giù quasi per pudore, o forse perché neppure lei sa, al pari della protagonista, più dove andare; i suoi baffetti posticci e dipinti, tanto incongruenti quanto naturali, specchio di una eccentricità che comunica la più genuina ricerca di se stessi e del percorso incognito verso cui avviarsi senza più condizionamenti esterni e travianti.

VOTO ***1/2

UNE MERE (A MOTHER)

E' possibile arrivare al punto di detestare il proprio figlio? Di non riuscire più a reggere a tutti i batticuori che egli, indolente e violento, procura da decenni ad una donna sola e certo tenace, ma ormai provata e sconfitta, pressoché arresa all'idea di vederlo maturare e divenire quel tanto che basta saggio per consentirgli di vivere senza arrecare danni irreparabili a lui e a chi lo circonda?

Prendendo visione di questo intenso film della regista Christine Carrière, viene istintivo mettersi dalla parte della madre: donna bizzarra e testarda, che ora paga con una sostanziale solitudine e un certo isolamento scelte avventate compiute nell'irrequietezza ora placata di una gioventù che ora accoglie, come in un beffardo e maldestro passaggio di testimone, l'esistenza senza regole di un figlio sedicenne perduto nella sua indolenza irrefrenabile, eroso da un istinto di vita e sopravvivenza che lo rende adolescente ingovernabile, incontenibile e violento.

Vent'anni esatti dal suo esordio cinematografico con “Rosine” assieme alla stessa regista, Mathilde Seigner, sorella fisicamente più burrosa e casalinga della soave e perfetta Emmanuelle polanskiana, passa da madre amorevole ed adorata a madre detestata che non riesce più essa stessa a sopportare il suo figliolo incontrollabile, arrivando a detestarlo; ma in questo incontro scontro, l'amore e l'odio diventano sentimenti che si abbinano in modo perfetto e per nulla antitetico, lasciando spazio a crisi ma anche a incontri in cui la tensione si smorza in un affetto improvviso e palpabile che dà i brividi.

In qusto senso Mathlide Seigner è perfetta, con i suoi stivaletti che la rendono goffa ma pur sempre attraente, col suo volto attraente e solare, sempre in corsa a riparare danni e a ricucire tensioni.

Ben meglio del parallelo e piuttosto simile, ma più controllato e convenzionale “La tete haute” della Bercot che ha aperto Cannes quest'anno, Une Mère trova impegnato nel ruolo del difficile adolescente quel Kacey Mottet Klein che qualcuno ricorderà nel bellissimo film di Ursula Meier “Sister”, anche qui in un ruolo di adolescente difficile e dalla vita travagliata, ed in Gemma Bovery; nei panni nel cupo ma assennato ex marito della protagonista, un valido Pierfrancesco Favino si destreggia in lingua francofona in modo più che convincente. Sullo sfondo il panorama e la luce pallida ma seducente di una costa francese del mare della costa nordica, che diviene sempre un qualcosa di più che una semplice cornice.

VOTO ***1/2

ONE DEEP BREATH

L'opera seconda del regista inglese ma trapiantato in Francia Anthony Hicling, fa seguito al controverso ed interessantissimo Little Gay Boy, una sorta di trilogia di corti incentrati sulla figura oppressa e funestata di un giovane ragazzino, vittima quasi compiaciuta di genitori sadici o snaturati, e di una società che lo fagocita, lo spolpa, lasciandolo nudo e sfinito, ma non per questo senza emozioni o intime soddisfazioni che sfociano nel sadomaso.

Con questo mediometraggio l'interessante e originale regista riprende il suo attore preferito, Manuel Blanc (quello che esordì ventenne con tanto di menzione a Cannes nell'imprescindibile ed intrigante“Niente baci sulla bocca” di Techiné), per inoltrarsi tra le pieghe intime di un rapporto contrastato che fu, ora interrotto dalla orte di uno di essi, e dalla scoperta, da parte dell'altro, che il suicida aveva un'amante donna. Ecco che nell'amante in lutto questa notizia finisce per divenire una spina più aguzza e dolorosa di quella rappresentata da una scomparsa tragica e tutt'altro che prevedibile. Una sorpresa che si tramuta in rabbia, in incapacità di credere ad un eventualità del genere, in un tentativo di capire, di immedesimarsi, anche fisicamente, tra le pieghe fisico-caratteriali di un'amante donna di cui si diventa gelosi anche quando le circostanze non ne rendono più necessaria la manifestazione.

Ecco allora che una metamorfosi tende a rendere i due opposti sfidanti di un amore comunque perduto per sempre, come due entità che finiscono per emularsi: i tratti maschili del protagonista si ammorbidiscono dove quelli della donna divengono più mascolini, e di due contendenti finiscono per identificarsi in un unico ideale di persona: la perfezione che non esiste, quella impossibile da raggiungere, quella che ha probabilmente giustificato un gesto fatale e tragico che ha spento ogni speranza di appagamento e di serenità.

Trasformismi, riprese complesse e metafore non sempre chiaramente intuibili ma senz'altro visivamente seducenti, continuano a rendere il cinema di Hickling piuttosto interessante e molto ambizioso. Speriamo che col tempo il regista si arricchisca di tessuto narrativo per rendere più concreto questo suo percorso un po' troppo filosofico sulle tormentate sofferenze del vivere e del riuscire ad appagarsi con i piccoli grandi dolori e le molteplici sofferenze di una vita che sembra sempre di più una via crucis blasfema ma visivamente molto potente.

VOTO ***

 

Segnalo infine, non senza una certa amarezza, che l'ultimo bel film del russo Andrej Konchalowskij, premiato a Venezia 2014 (meritatamente!) con il Leone D'Argento e tutt'ora desaparecido presso la nostra distribuzione, in Francia è appena uscito e, in terra nizzarda, incontra un suo seguito costante di spettatori nella sala del cinema Rialto in cui viene proiettato da due settimane.

In Francia il titolo è: LES NUITS BLANCHES D'UN PORTEUR DU FACTEUR, quello internazionale The postman white night.

 

Prossimamente nei prossimi Oltreconfine:

e altri ancora.....Festival di Locarno permettendo.....

 

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