"Appunti veloci e primo impatto sul cinema che ci precede, su quello che ci sfiora, o addirittura ci evita; film che attendiamo da tempo, quelli che speriamo di riuscire a vedere presto, ma pure quelli che, temiamo, non riusciremo mai a goderci, almeno in sala."
La “Fete du cinema” è la strategia, spesso vincente, con cui la Francia cerca di riportare al cinema un pubblico che, specialmente d’estate, anche in questo paese si trova distolto da molteplici alternative a volte, almeno apparentemente, più allettanti che quella di rinchiudersi tra le tenebre di una sala per lasciarsi trasportare da storie e vicende in grado di catapultarci in ogni punto del globo o - perché no? - dell’universo.
Tre giorni col prezzo imposto a 4 euro (ex 3,50 euro delle precedenti edizioni) per un appuntamento che da qualche anno assume ricorrenza pressoché semestrale.
Cinema Rialto . Nice
Nonostante l’aumento del prezzo ridotto, la tariffa rimane allettante, se si pensa che in Francia il cinema costa più caro che da noi (ma anche andare a mangiare fuori costa di più, un semplice gelato da asporto costa una volta e mezza rispetto a consumarlo in Italia) e che nelle sale del gruppo Pathé il prezzo singolo, senza sconti o abbonamenti, arriva a 11,40 euro.
Ma l’aspetto veramente bello è che le proposte cinematografiche estive sono sempre dello stesso tenore e qualità di quelle invernali: blockbuster inevitabili e sin necessari che si alternano ad un cinema d’autore che non avrà certo copertura capillare, ma che comunque vede la sua apparizione nelle città più grandi del paese.
Indipendentemente dalla ricorrenza sopra accennata, frequentare il cinema Mercury, piccolo multisala in Place Garibaldi a Nizza del quale vi ho già parlato od accennato, con la sua programmazione a pioggia di un film diverso ogni paio d’ore in ognuna delle tre sale, permette allo spettatore “incallito” di trovarsi in una atmosfera “festivaliera” dove è possibile scoprire cinematografie da tempo dimenticate o tralasciate, piccoli capolavori di autori che altrimenti non potremmo mai incrociare, gemme premiate in molteplici occasioni festivaliere sparse per il mondo, e tuttavia invisibili ai nostri occhi di fruitori assoggettati ad una scrematura impostaci dall’alto o da chi non può fare a meno di ragionare col principio del puro tornaconto e non della cultura alla portata di tutti.
Detto (e ripetuto per la millesima volta) ciò, vi racconterò qualcosa delle prime cinque pellicole che ho visionato in queste ultime giornate (o nottate); seguirà un secondo post dedicato alle altre cinque opere che ho fatto mie a ritmi concitati e pressoché festivalieri, come utile (ma forse non proprio necessario) allenamento al prossimo non troppo lontano Festival di Locarno.
Il gran regista cinese nato ad Hong Kong conosciuto come Tsui Hark, uno specialista del fantasy, dell'action e del cappa e spada in stile wuxia, dopo averci deliziato con le mirabolanti avventure del detective Dee e dello stesso da giovane nel successivo prequel visto anche a Locarno 2014, torna in gran forma col suo ultimo mega-film dal titolo internazionale THE TAKING OF TIGER MOUNTAIN (in Francia La Bataille de la Montagne du Tigre). Una spumenggiante, rutilante avventura ad ambientazione storica ben definita che si propone di rinverdire i fasti dell'action spericolatissimo celebrato e reso cult da Spielberg in pieni anni '80 con I Predatori dell'Arca Perduta.
Qui ci troviamo nella Cina post bellica di fine anni '40: l'Armata di Liberazione Popolare comunista cerca di impadronirsi di una remota e montagnosa vasta zona del Nord Est dell'enorme regione, terra dimenticata da tempo e per questo finita in mano a sanguinari briganti. Hark, conscio della necessità di far divertire ed emozionare il suo pubblico togliendo di mezzo il più possibile il messaggio politico, magari fuorviante o attizzatore di inutili polemiche, elimina più che può i connotati politico-sociali ad una vera e propria guerra civile. evitando prima di tutto di far riconoscere come nemici le truppe di Mao Zedong, e sostituendole da una popolazione barbara di spiccata quanto crudele aggressività e bramosia.
La missione si sviluppa tramite una abile spia dell'esercito che si intrufola sotto copertura tra i briganti, e l'esercito capitanato da un secondo giovane e coraggioso soldato.
Entrambi, dopo innumerevoli avventure ed ostacoli, riusciranno a far trionfare la libertà tra combattimenti finali al cardiopalma. Grande dispiego di mezzi, abilità innata di un regista che sa giostrare alla perfezione la mdp per visualizzare e rendere palpabile il ritmo avveniristico e suggestivo di un film che cattura soprattutto nelle sue scene di lotta (quella di uno dei due protagonisti con la tigre gigantesca è davvero sublime, quella finale del regolamento dei conti tra le pendici vertiginose della montagna del titolo, affetta da una debolezza strutturale che la vede sgretolarsi inesorabilmente verso valle trascinando ogni cosa, anche noi del pubblico, fino ad attualizzarsi all'oggi con la presenza di un ideale d'uomo perfetto che rappresenta la discendenza degli eroi del passato.
Nel ruolo del cattivo non riusciamo a riconoscere (ma ci assicurano che è lui) Tony Leung, uno dei più conosciuti, affascinanti e richiesti attori dell'Est, protagonista di tanto cinema d'autore e attore feticcio di Wong Kae Wai..
VOTO ***1/2
Esordio del regista colombiano Josef Wladyka, MANOS SUCIAS (letteralmente “mani sporche”) racconta l'epopea drammatica che due fratelli, all'insaputa uno dell'altro coinvolti in una pericolosa missione volta a trasportare dalla costa pacifica della Colombia fino a Panama un ingente bottino di droga nascosto in un siluro a pelo d'acqua trascinato da una piccola barca a motore.
I due si ritrovano coinvolti nel rischiosissimo progetto per cercare di trovare i soldi l'uno, il più grande, per cambiare vita e fuggire in seguito alla morte del proprio figlioletto, ucciso come un cane randagio per essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato; il giovane invece, appena diciottenne, deve provvedere a mantenere il neonato appena concepito dalla propria giovanissima compagna.
Inseguiti e scortati da un minaccioso emissario dei mandanti, sottoposti a controlli da parte di una guardia costiera che li sorveglia e bracca come prede, i due fratelli verranno coinvolti in una drammatica epopea che riesce anche ad avvincere per ritmo teso e ritmo del racconto, concitato e ben raccontato, sullo sfondo di una natura rigogliosa e plumbea che non concede attenuanti, e di una umanità crudele e omicida che si difende con scatti di violenza ed ira che lasciano segni indelebili o mortali.
Rincorse nella boscaglia su strade ferrate poco più che improvvisate, inseguiti dalla polizia, all'inseguimento dei traditori, il film non concede tregua fino ad un finale che non riesce proprio a celebrare un successo ma solo il trionfo dell'amarezza e del rimorso.
Una gran bella sorpresa, per un film che ha ricevuto il premio del pubblico al Tribeca Film Festival.
Due interpreti che sembrano recitare se stessi, ma lo fanno con una professionalità ed un mestiere da attori navigati; un paese selvaggio dove la civilizzazione è servita solo a portare violenza e morte, traffico clandestino, povertà ed indigenza.
VOTO ****
Secondo lungometraggio della regista turca Asli Ozge, LA REVELATION D’ELA (LIFELONG) è innanzi tutto uno studio glaciale ma acuto su un rapporto di coppia inesorabilmente e silenziosamente alla deriva. Un’artista concettuale vive con apparente appagamento il successo un po’ di nicchia delle proprie eccentriche ed originali rappresentazioni, e condivide, ormai sulla soglia della cinquantina, un elegante e post-moderno appartamento in una zona residenziale della capitale turca con il marito, uomo d’affari che sa essere affettuoso e accondiscendente, ma anche un po’ perennemente assente o poco incisivo nella vita della donna.
Quando casualmente la donna ascolta, in silenzio e segretezza dal secondo apparecchio telefonico della casa, una telefonata di quest’ultimo nei confronti di qualcun altro (la regia mai ci induce a capire o ad essere sicuri di ciò che si sospetta sin dall’inizio), ecco che tutto il mondo di certezze e sicurezza che costituivano il baluardo di vita e probabilmente l’ispirazione del proprio lavoro, crollano gettando la donna in una crisi interiore devastante quanto poco appariscente.
Una frustrazione muta e spossante che a stento viene percepita al di fuori, e nel manifestarsi della quale alla protagonista viene a mancare perfino la forza di reagire con il marito cercando almeno di ottenere le spiegazioni necessarie per farsi carico di un evento devastante per la vita coniugale.
Il film infatti soprassiede nel prodigarsi a dare qualsiasi spiegazione o chiarimento, puntando piuttosto ad illustrare le conseguenze di una crisi che il gelo di un rapporto coniugale ibernato dalla mancanza di un dialogo costruttivo, finisce per acuire l’incertezza e l’angoscia.
Ottima protagonista per un film a tratti snervante, logorante nel suo procedere inflessibile trascurando di fornire dettagli umanamente inevitabili per lo spettatore che ha sete di risposte.
Un cinema in debito con Antonioni quanto a incomunicabilità e all’impossibilità di esprimere il dolore che oggi spesso ci devasta da dentro, La révélation d’Ela è un film che, nonostante tutto, “rivela” davvero poco e nulla e si presenta più interessante e curioso che riuscito, sospeso in un alone di incertezza che è senz’altro voluto e che risulta sia accattivante, sia difficilmente sopportabile.
VOTO ***
Per la regia del cineasta norvegese Erik poppe, ne L’EPREUVE ( A THOUSAND TIME GOODNIGHT) Juliette Binoche è una coraggiosa e temeraria fotografa e reporter di guerra che si trova a fare i conti con un devastante dilemma: proseguire col suo mestiere altamente rischioso, che la mette costantemente in pericolo ma che costituisce più di ogni altra cosa la vera ragione di vita, o mettere tutto da parte e responsabilizzarsi finalmente ed in modo tardivo nel ruolo di madre di due ragazze/bambine che vede poco e non assiste adeguatamente?
Quando anche il marito, un tempo affettuoso e premuroso, ora sconcertato dagli eventi che mettono in pericolo sempre più atroce la vita della moglie, si ribella e allontana la moglie dal focolare domestico in una landa amena e desolata dell’Irlanda, ecco che alla protagonista non resterà che scendere seriamente e definitivamente a patti con la propria coscienza di essere umano e di madre, mettendo in discussione altresì il proprio ruolo di testimone neutro e apparentemente inflessibile che fotografa e riprende ogni tipo di atrocità senza fare nulla o quasi per impedire o scongiurare conseguenze devastanti.
Un film forte, animato da una Binoche che una volta ancora costituisce la più concreta ragione e pregio di una pellicola che inizia e finisce in modo folgorante, straziante, quasi insopportabile nel documentare le fasi di preparazione di una donna o bambina kamikaze da parte di alcune altre femmine della famiglia, ma che commette tuttavia l’errore puerile, difficilmente perdonabile, di franare inesorabilmente nei meandri risaputi e fastidiosi del melodramma familiare indigeribile laddove la vicenda si addentra (inevitabilmente) a sondare una situazione familiare tesa e assolutamente da ridefinire. Il baldo attore nordico Nicolaj Coster-Valdau si ritaglia una parte da fuco d’alveare, del maschio da riproduzione che non può reggere o risultare plausibile né nella vita reale né tantomeno nel contesto della pellicola, ma la presenza forte di una Binoche da brivido riesce a salvare dal devasto una pellicola che alterna grandi momenti tesi e sconcertanti, a fiacche situazioni da melò sovraccarico e scostante.
E, lo ripeto, la scena iniziale della vestizione della giovane donna kamikaze, che si fa avvolgere di materiale esplosivo, e prima ancora celebrare da viva il funerale scendendo nella fossa ove il suo corpo, presto distrutto e volatilizzato, non potrà più stare, fa davvero venire i brividi ed evoca in maniera efficacemente e tragicamente potente la dinamica di una pratica devastante che raggela il sangue.
VOTO ***
Concludiamo questa prima parte della “festa” con un film leggero, leggerissimo, praticamente impalpabile; L’ECHAPEE BELLE (Eva and Leon): gracile ma godibile opera prima della regista Emilie Cherpitel che costruisce la vicenda di un incontro casuale tra due persone opposte come carattere, età e modo di vivere, ma dalla cui unione trovano allo stesso modo un’armonia e una soddisfazione, esteriore, pratica ma anche intima, per comprendere qualcosa su come vivere meglio e percepire il senso di un giusto significato da attribuire al proprio sentiero più o meno tortuoso nel mondo e lungo una vita.
Quando la trentacinquenne avvenente e statuaria Eva, di ritorno da una delle feste abituali che ama frequentare, si imbatte in un bar, all’alba delle cinque, in un bambino dall’aria tenera ma sicura di sé che le si affianca al tavolino facendosi offrire una cioccolata, ecco che tra i due si instaura un cameratismo ed una collaborazione che l’affetto crescente rinsalda a dismisura nel giro di poche ore o giorni.
Il bambino è un orfano fuggito per l’ennesima volta dal centro di accoglienza che lo ospita con l’intento di conoscere la madre, a suo avviso abitante in un rione parigino.
Eva è ricca, bellissima, viziata e pigra, la negazione come madre e priva di ogni predisposizione ai valori affettivi della famiglia e della prole. Leon (come Napoleon di cui si definisce scherzosamente figlio lo sveglio ragazzino) è un giovane pratico che la vita ha reso saggio e indipendente.
La strana coppia avrà modo di vivere giornate intense completandosi a vicenda e migliorandosi reciprocamente, complice altresì una fuga romana organizzata in modo clandestino via treno.
Ispiratasi da una frase del poeta Paul Eluard che recita: “Il n’y a pas des hasard, que des rendez-vous”, la commediola caruccia ma evanescente si avvale del carisma e della bellezza abbagliante della bravissima Clotilde Hesme, della simpatia del piccolo Florian Lemaire (i due duetteranno anche una bizzarra quanto non molto motivata versione di Bella ciao che verrà ripresa nei titoli di coda), e di qualche cameo d’eccezione rappresentato in primo luogo dalla simpatica Clotilde Courau nel ruolo della prevenuta sorella della protagonista, madre sull’orlo di una crisi di nervi di una caotica scolaresca di figli, e di un padre inglese ricchissimo ed annoiato, nonché affetto da una bizzarra forma “saudade”, reso con opportuna ironia ed eleganza dal bravo Peter Coyote.
Echi lontani di capisaldi della cinematografia come Gloria - Una notte d'estate di Cassavetes (per la scoperta di un istinto materno che sembrava sepolto nella donna dura e spigolosa resa con magistrale tenacia da Geena Rowlands) e Zazie dans le metro, da Queneau, sempre incentrato in gran parte tra un rapporto giovane/adulto, finiscono per affossare questo piccolo film, che tuttavia, pur rimanendo nella superficie della carineria, ha qualche asso nella manica per farsi notare e per non annoiare.
VOTO **1/2
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