Parlare di Laura Antonelli in quanto corpo, o per meglio dire oggetto del desiderio, è certamente banale se non riduttivo. Tuttavia, Laura Antonelli, assieme ad alcune divette della commediaccia porcellona, rappresenta probabilmente l’ultimo vero simbolo italiano d’una femminilità filtrata dallo schermo cinematografico capace d’imprimersi nell’immaginario sessuale del pubblico soprattutto maschile. Come lei, in contemporanea, solo, forse, Ornella Muti. Dopo di lei, più che il diluvio, un’ondata di estemporanei fenomeni onestamente senza importanza: l’accogliente ma fin troppo popolaresca Serena Grandi, la ruspante Ferilli “addomesticata” dalla televisione, la meteora Dellera comunque “troppa”, la Cucinotta che ha ballato una stagione. Quando parliamo di Laura Antonelli parliamo essenzialmente di una rara sintesi di sesso esplosivo (i decantati seni, per intenderci) e mistero malinconico, intimorente, sfuggente.
Prendiamo il suo film capitale: Malizia, di per sé, è un bozzetto sì gustoso ma non più che discreto, eppure fu un fenomeno di costume proprio in virtù della presenza scenica della sua protagonista. E lì la Antonelli seppe comunicare il mistero perfino sotto la gonnella, in mezzo alle cosce spiate dai maschi di casa. Cos’è questo mistero? Forse la bellezza così disarmante tale da essere molesta, ingestibile: la Divina creatura, lo capisce bene l’esteta Patroni Griffi, deve essere esposta così com’è: una maestosa ma umana opera d’arte.
Gestire il sesso che sprigiona un corpo. La Antonelli è stata fondamentalmente un corpo. C’è un film squisito molto poco ricordato, Mio Dio come sono caduta in basso!, in cui riesce a giocare con la sua fittizia immagine di “bella statuina” facendosi eroina da romanzo pseudo-dannunziano, lavorando, anche grazie a Comencini, sulla parodia, sul comico, sull’ironia, un versante ben sviluppato anche da Risi. Visconti con L’innocente, Scola con Passione d’amore (in cui fu bravissima), perfino il Vicario del mediocre Mogliamante hanno scelto di esplorare la dimensione melodrammatica della musa inquietante, sottolineando ulteriormente il mistero della sua figura troppo perfetta.
Ora, si dà il caso che la povera Antonelli, dopo una straziante vicenda umana su cui è inutile tornare, venga a mancare negli stessi giorni in il cinema piange altri due attori: Remo Remotti e Magali Noel. Cos’hanno a che fare questi tre artisti? Nulla. O forse no: il sesso, ecco. Il desiderio, nello specifico.
Remo Remotti è stato un personaggio totalmente assurdo. La sua biografia è un susseguirsi di episodi incredibili, ed è facilmente trovabile in rete, se non altro perché il nostro ha letteralmente esposto la propria vita sovente rendendola arte (era anche pittore, cantante, scrittore, intrattenitore). Le sue memorie hanno titoli inequivocabili: cito solo Memorie di un maniaco sessuale di sinistra, coerente col discorso che provo a portare avanti. Il Remotti attore ha partecipato a qualunque film, perfino io ho avuto modo di frequentarlo per qualche ora.
Più o meno a nove anni feci la controfigura di un mio amico protagonista di un corto. Si girava in un caseggiato del pescarese, ricordo poche cose: il caldo afoso, i carrelli delle cineprese, Remotti che faceva un cammeo. C’era questo signore con la barba bianca, il sigaro in bocca e un bastone che era propaggine del corpo. Mi chiese che cazzo ci facevo in quel casino, io glielo spiegai con la dialettica del bambino di nove anni di fronte ad un vecchietto, lui fumava e accarezzava una signora, penso una figurante, che lo adulava. Nonostante i film di Moretti, per cui viene ricordato (ma ricordava che «quando gli parlavi di fica si incazzava»), e i mille camei dei decenni successivi, la mia immagine di Remotti è legata a lui che coccola una figurante. Col tempo, ascoltandolo e leggendolo, ho scoperto che effettivamente il sesso è stata una componente fondamentale della sua vita: «La morte non mi inquieta, ma certo, non vedere più la sorca mi dispiace».
E la “sorca”, per dirla col romanesco di Remotti, era una simpatica ossessione di Federico Fellini. Per chi scrive, Amarcord, assieme a I vitelloni, è l’apice di Fellini e non del fellinismo ed è anche un magnifico repertorio di figure. Edwige Fenech, altro corpo del periodo dell’Antonelli, avrebbe dovuto interpretare la Gradisca, la personificazione del sesso in provincia. Come si sa, al posto della Fenech, Fellini chiamò Magali Noel, che aveva già lavorato con lui in La dolce vita e Satyricon. In Italia la si conosceva anche per qualche filmetto commerciale di artigiani come Simonelli, Bianchi, Amendola, Girolami, per essere stata Cleopatra assieme a Totò, puttana per Emmer ne La ragazza in vetrina e per qualche partecipazione straniera in film di un certo livello (Rififi, Z). Un’onesta carriera con un importantissimo impegno parallelo come cantante.
Con la Gradisca, la Noel diventa icona assoluta del fellinismo quasi al pari di Anitona Ekberg. Finisce addirittura per dare il nome ad una qualità di birra dell’etichetta “Amarcord”. Quintessenza del sesso, è oggetto del desiderio, soggetto del destino, sogno carnale e carne da sogno, mussoliniana e libertina, monarchica nel senso che aspira al principe, veicolo per aprire il curriculum erotico dei maschi di provincia, fantastica e concreta. La “sorca” felliniana si esprime grazie ad un’attrice che si fa plasmare dal demiurgo ma che è così brava da rivendicare l’autonomia del suo essere scientemente un corpo. Gestire il sesso, esprimere il sesso, dichiarare il sesso: tre personaggi così lontani eppure così intimamente legati dall’intimità o l’esibizione di essere corpi sessualmente potenti.
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