"Appunti veloci e primo impatto sul cinema che ci precede, su quello che ci sfiora, o addirittura ci evita; film che attendiamo da tempo, quelli che speriamo di riuscire a vedere presto, ma pure quelli che, temiamo, non riusciremo mai a goderci, almeno in sala."
I francesi ci snobbano appena possono; il loro comportamento, l'atteggiamento di superiorità che spesso li vede atteggiarsi a maestri di vita ed organizzazione (circostanza che invero spesso li vede eccellere a tutti gli effetti) e primi della classe nei nostri confronti, dà spesso fastidio e indispone.
Tuttavia non è un mistero che il nostro cinema in generale trovi nel pubblico francese un riscontro spesso positivo se non appassionato.
Riesco a percepirlo proprio in questi giorni in occasione della sesta edizione de “Les rencontres du cinema italien”, manifestazione ospitata dal cinema Rialto a Nizza.
Tra i film in cartellone opere molto attese dai francesi, tra cui spicca Mia madre di Nanni Moretti, un film che ha generato il tutto esaurito nelle due programmazioni in anteprima qui a Nizza, non essendo il film ancora uscito nei circuiti francesi.
Tra gli altri film della rassegna ricordo: L'eveil de Edoardo, Contes italiens, Mezzanotte, tutti già usciti da noi (spesso con titoli differenti, per ovvie ragioni o chissà per quale altra strategia di marketing) e presentati con un certo successo a vari festival internazionali come Cannes o Berlino.
short skin ; Maraviglioso Boccaccio ; Più buio di mezzanotte ;
L'iniziativa mi fornisce l'occasione propizia per recuperare un film, coproduzione Italia-Usa e Francia di un giovane autore italiano di nome Jonas Carpignano, il cui film, Mediterranea, ha partecipato con un certo richiamo alla Semaine de la critique all'ultimo Festival di Cannes.
Epopea di un viaggio infernale alimentato da false illusioni e da un inganno che tuttavia permette e dà luogo ad esodi di massa biblici, quelli che ci vengono documentati nelle cronache quotidiane dei giornali, o addirittura riscontriamo drammaticamente noi stessi con il comportamento indifferente o superficialmente colpevole di stati come la Francia che sbarra le frontiere proprio a Ventimiglia infischiandosene del problema, o comunque volendolo risolvere egoisticamente e non certo secondo una soluzione di tipo “comunitario”, MEDITERRANEA si concentra su due migranti, due giovani amici del Burkina Faso che, tramite alcuni stati del Nord Africa fino alla Libia, riescono a salpare fortunosamente sulle coste italiane, sfiorando l'annegamento, aggrappati alle cinte di un allevamento di pesci in mare aperto. Finiscono a Rosarno, in Calabria, e presto intuiscono che la situazione quassù è ben diversa dal paradiso atteso e promesso: il più laborioso si adatta e, lavorando come un forsennato a raccogliere arance, diventa amico e confidente del padrone, introducendosi nella famiglia di quest'ultimo; l'altro non si adatta e si perde in un inferno degradato e senza speranza.
Si ritroveranno per maturare consapevolmente il proposito di ritornare dalle reciproche famiglie. Carpignano adotta una narrazione a metà strada tra la fiction e il documentario, ed il film non nuovo per tematiche e stile, risulta tuttavia piuttosto riuscito e convincente, grazie al realismo esasperato di interpreti convincenti che recitano quasi tutti ognuno la propria situazione personale, con la naturalezza e l'istinto che derivano dalla piena consapevolezza di ciò di cui si sta parlando.
VOTO ***1/2
Ma il vero capolavoro della cinquina di anteprime di cui vi parlo oggi (in rigoroso ordine cronologico di visione, quando altrimenti sarebbe stato più dirompente iniziare col gioiello di punta, ovvero con questa pellicola) è un film pressoché sconosciuto da noi, intitolato in Francia LE SOUFFLE, o ISPYTANIE (o TEST)nella versione originale: un film kazako di Alezander Kott girato in modo stupefacente, ambientato nelle meravigliose steppe assolate, affascinanti e deserte al sud della Russia, forte di riprese ardite e di straordinaria eleganza, armonia e gusto per l'immagine, che non diventa tuttavia pura calligrafia o esercizio di stile, ma una tecnica affascinante e stupefacente per raccontare una storia di una contesa amorosa assimilabile ad un duello animale, fiero e risoluto, tra due contendenti irriducibili per la femmina bramata ed irrinunciabile, tanto è bella e folgorante.
E' così che un padre di poche parole, allevatore e contadino una una vasta steppa ai confini del mondo civilizzato, si rassegna a dover veder partire la amata giovane e bella figlia.
La quale è contesa tra un esuberante conterraneo in baffetti e motobecane biposto con cui compie spericolati numeri quasi equestri, ed un russo biondino e caruccio dinoccolato e snodatissimo che la affascina con i suoi contorcimenti e avvolgimenti su se stesso.
L'indecisione della ragazza tuttavia passa in secondo piano quando tremori sempre più forti e dirompenti preparano la strada ad una vera e propria catastrofe annunciata e provocata scientemente dall'uomo. Siamo infatti negli anni '40 ed i russi stanno sperimentando nelle vaste terre desertiche del Kazakistan, le prime rudimentali ma ugualmente devastanti bombe atomiche, che devastano e invadono di radiazioni ogni forma di vita locale, compromettendo definitivamente cose e persone.
Senza una parola (non ce n'è affatto bisogno, e tutto ciò costituisce uno delle più genuine magie del film), il film di Kott si presenta potentissimo nel provocare emozioni con la forza di una immagine che cattura un attimo, un panorama, uno sguardo pensoso; o ancora due panni stesi che si abbacciano quasi animati da una vita fantasma che li muove sinuosi uno sull'altro come amanti; una ripresa dall'alto del contadino che si riposa con la teta sulla schiena del suo montone, che dorme placidamente assieme a lui.
In questo film magnifico ogni ripresa suscita meraviglia od emozione, ed è straordinario il fatto che da una tenera ma combattuta storia d'amore e di indecisione si passi senza eccessivo preavviso, o comunque in modo dirompente, agli effetti della catastrofe finale che tutto risolve e tutto cancella.
VOTO *****
“Anche i ricchi piangono”, titolava una notissima telenovelas brasiliana.
E' proprio il caso di dirlo anche qui con CASA GRANDE, un buon film brasiliano dell'esordiente Felipe Barbosa, film che all'ultimo Sundance Festival ha ottenuto dei buoni riscontri critici.
Epicentro di una vicenda familiare di declino economico e morale, una ricca famiglia della classe economicamente più abbiente di Rio De Janeiro, una delle città dove più di ogni altra la mondo ricchezza ostentata e povertà si ritrovano a vivere una di fianco all'altra, la prima tra i grattacieli o le ville hollywoodiane mantenute da servitori e aiutanti, la seconda costretta a convivere in megalopoli fatiscenti fatte di baracche e ruderi desolati ed instabili arroccati sulle montagne circostanti che degradano spericolate e in modo rocambolesco verso la sabbia dorata ed impalpabile di Copacabana e Ipanema.
L'apertura del film si concentra, con una ripresa fissa piuttosto lunga, all'interno di un fastoso cancello che ci avvicenda in un opulento e lussureggiante giardino colmo di piante esotiche e prati curatissimi, una piscina con adiacente Jacuzzi in funzione, dove poco dopo un uomo distinto e signorile fuoriesce per asciugarsi, chiudere i circuiti dell'acqua, spegnere le luci e barricarsi in casa, accendendo gli allarmi e le telecamere che assicurano la casa contro eventuali possibili malintenzionati.
Jean vive in quella reggia servito e riverito come un giovane lord. Ha diciassette anni, frequenta licei costosissimi, lo accompagna un autista, ha una cuoca che gli prepara da mangiare, persino una cameriera che generosamente lo svezza negli incontrollabili ed un po' goffi, infuocati ed incontenibili ardori sessuali che caratterizzano quell'età.
Vive la vita di uno studente privilegiato, figlio di un finanziere che ha fatto fortuna vendendo derivati e altri prodotti di finanza creativa, fattori portanti di una ricchezza accumulata in poco tempo, parte della quale estrinsecata nella costruzione della villa principesca che da asilo alla sua famiglia perfetta e felice, almeno sulla carta: una fortuna che quando la si vive con quotidianità diventa una routine scontata.
Scopriamo anche che il periodo della gloria è da tempo finito: gli affari vanno male, l'uomo d'affari risulta sul lastrico: deve vendere la casa perché non gli rimangono più liquidi e, continuando ad ostentare lussi ormai divenuti indispensabili, l'uomo sta intaccando anche i risparmi accumulati per l'avvenire dei due figli studenti.
Ecco che Jean comincia a rendersi conto che il clima sta cambiando: il padre che licenzia prima l'autista fidato, amico fidato sin da bambino del ragazzo e padre di un suo compagno ed amico di scuola; poi è la volta della cameriera, cacciata col pretesto del ritrovamento di foto licenziose e compromettenti; poi quella della cuoca, che si licenzia perché non pagata da oltre tre mesi.
Altri creditori accerchiano l'intimità di una famiglia che inizia in quel momento a comprendere cosa significa vivere senza certezze né gli agi che fino a poco tempo prima facevano parte integrante della quotidianità.
La rovina economica e sociale della famiglia, permette tuttavia al giovane Jean di rivalutare obiettivamente i veri valori e i sentimenti che fino a poco tempo prima venivano sepolti dall'opulenza e dalla superficialità, mettendo da parte pregiudizi di ogni tipo, anche razziali, che invece costituivano una discriminante fondamentale del pensiero di famiglia.
La descrizione accurata e drammatica di una caduta senza fine: questo è Casa Grande, un esordio considerevole che ci spinge a tener d'occhio il suo giovane e promettente autore.
VOTO ***1/2
FAR FROM THE MADDING CROWD
Una produzione anglo-americana di alto livello e budget accoglie negli U.S.A. Lo stimato regista danese Thomas Viterberg, il primo regista a dedicarsi, col suo eccezionale film d'esordio Festen, ad un film girato con le regole inflessibili del Dogma ideato e poi rinnegato da Lars Von Trier.
Il film di cui parliamo ora è il remake di “Via dalla pazza folla”, trasposto nel 1967 da John Schlesinger dall'omonimo romanzo di Thomas Hardy.
Protagonista della concitata vicenda una ragazza tenace ed intraprendente, Bathsheba, contadina che eredita una bella magione da uno zio e la fa divenire una fattoria modello.
Essendo anche una bella ragazza, la giovane viene subito ad essere contesa tra gli uomini o i ragazzi scapoli della contea. Nell'ordine: un giovane proprietario terriero nonché allevatore di montoni, suo avvenente vicino, che poi cadrà in disgrazia riducendosi a fare il capo manovale nella stessa fattoria della giovane. Un baldanzoso e spericolato giovane soldato che, mancato il matrimonio con la sua amata del cuore, cerca di consolarsi inducendosi a posare anche per convenienza la nostra ereditiera. Infine un facoltoso ma più maturo vicino di casa, che trova nella giovane il giusto compromesso per dissuaderlo dal proseguire una vita da single.
Barhsheba è una ragazza tenace ed indipendente e tentenna, non sa decidersi, mentre la vita prosegue con i suoi inesorabili destini segnati all'interno di ogni esistenza ,
Viterberg dirige con estrema professionalità e pertinente gusto estetico dell'ambientazione d'epoca e di costume, un film sa attrarre a sé anche lo spettatore meno avvezzo alle romanticherie e agli stratagemmi d'amore.
Certo è che la coproduzione straniera uccide o compromette molto l'ispirazione locale che appartiene a molti registi geniali sin dagli esordi nelle rispettive terre d'origine, e anche questo “Far from the Madding Crowd” rientra nel sempre più vasto numero di pellicole su commissione girate con estrema professionalità e le migliori intenzioni, ma rimane inevitabilmente un prodotto girato su commissione, al soldo dei grandi produttori occidentali, meritevoli di fornire opportunità internazionali uniche agli autori prescelti, ma spesso anche di ucciderne o attenuarne le peculiarità che li resero grandi ed unici in patria.
Un gran cast che vede coinvolti attori efficacemente concentrati per incarnare i rispettivi ruoli, su tutti la dolce Carey Mulligan, e, oltre che al terzetto di maschi di cui sopra rappresentato da Matthias Schoenhaerts, Michael Sheen e Tom Srurridge, non fa rimpiangere troppo le star di prima grandezza (Christie, Bates, Finch, Stamp) che parteciparono all'inimitabile versione del '67 di Schlesinger,
VOTO ***1/2
UN FRANCAIS, del compositore, musicista, produttore ed ora pure regista francese quasi esordiente conosciuto come “Diastème” (titolo internazionale “French blood”) segna un percorso lento di redenzione di un giovane dannato e ribelle, verso una nuova vita, senza che il traguardo della consapevolezza degli errori commessi in gioventù riesca a trasformarsi in un sollievo per lo scampato pericolo e per il ritrovamento della retta via.
Seguiamo le vicissitudini di uno skinhead parigino dai primi anni '90 ad oggi: l'orda del gruppo, i pestaggi, l'intolleranza verso la diversità, verso l'omosessualità, verso gli immigrati, pestati a morte addirittura in certe drammatiche quanto gratuite circostanze, o quando sono fortunati, umiliati e sottomessi senza motivo; l'idiosincrasia per tutto ciò che, anche grossolanamente, può definirsi o assimilarsi come comunista; l'avanzata della destra intollerante capeggiata da Le Pen che da Marsiglia tuona contro l'invasione dalle ex colonie e dal Terzo Mondo in generale: messaggi che galvanizzano il gruppo, l'orda, e che tuttavia instillano nel protagonista un lento, inesorabile, processo di cambiamento, che lo porterà a divenire tutto il contrario di quello che fu in gioventù: un volontario addetto ai servizi di pubblica utilità nei confronti degli immigrati in attesa di visto.
Il film segue il processo evoluivo dell'uomo dalla bestialità ferina propria delle belve al raziocinio della maturità finalmente sopraggiunta.
Luoghi, percorsi, situazioni già visti anche di recente nella cinematografia europea, e che tuttavia riflettono, questi giorni più che mai, il disagio e la necessità di affrontare problematiche essenziali come la tolleranza e la soluzione dei problemi dei profughi e dei clandestini; nello stesso tempo il film percorre il binario interiore dell'uomo che si evolve e prende coscienza dell'inutilità greve e dannosa del suo atteggiamento violento e di protesta che lo ha reso leader e picchiatore per eccellenza.
Interpretato dal bravo e cangiante Alban Lenoir, già visto ed apprezzato nel curioso zombie-horror calcistico “Goal of the dead”, Un francais non avvince, ma si fa guardare e fa meditare, prendere coscienza della fragilità e condizionabilità della mente umana che ci rende schiavi dei sentimenti primordiali e violenti che l'istinto, spesso cattivo consigliere, ci induce a tirar fuori.
VOTO ***
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