Il cinema di Xavier Dolan è il cinema di Pedro Almodóvar, solo fatto peggio. Se nel maestro spagnolo abbiamo il grottesco e il dramma colorato, in Dolan abbiamo la tragedia sentimentale, isterica e mestruata della diva sofisticata, vanitosa e fatalista.
J’ai tué ma mère (2009) è il classico queer drama fatto di eccessi. Tra la madre castratrice e il figlio castrato non si capisce chi è la più isterica. Fanno a gara a chi urla e starnazza di più ed è uno spettacolo francamente irritante. Può essere apprezzato il contenuto, l’emancipazione di un giovane omosessuale e la condanna dell’omofobia, ma non la forma. Il minimalismo che fa da cifra stilistica del Dolan regista è snaturato dalla continua ricerca del dettaglio, dall’inquadratura snobista, perfetta ed eccessivamente elegante; snaturato dall’isterismo irritante dei protagonisti e dal tono fatalista per la serie “di tutto facciamo un dramma” con cui viene incentivata la narrazione.
Con Les amours imaginaires (2010) le cose non cambiano. Continuano le pseudo confessioni di taglio documentaristico con cui il regista già nel precedente film sfoggiava la sua narcisistica arroganza, dedicandosi alcuni primi piani divistici senza rendersi conto che non basta tagliarsi i capelli come James Dean per essere James Dean. I rallenty con cui vengono sottolineati alcuni passaggi chiave del film sono stucchevoli, come il look, i vestiti, il design degli interni che certamente faranno la gioia del mondo queer, ma non quella del cinema. E Dolan ha pure il coraggio di far dire a Niels Schneider «Come hai potuto pensare che io fossi gay?». In chiusura arriva addirittura Louis Garrel come deus ex machina piacione a risolvere forse in positivo la tragedia sentimentale del protagonista.
Laurence Anyways (2012) ha il pregio di mettere al centro della vicenda un uomo che poco a poco si avvia verso la sua totale trasformazione in donna. Tema importante e non banale, con tutta una sua politica al seguito. Peccato che il cinema sofisticato di Xavier Dolan sia soltanto il territorio del giovane Narciso per far vedere quant’è bravo anche quando è solo regista, quanto cinema intellettuale conosce. Il risultato è un calvario estetico di più di due ore, forse meno noioso dei primi due film, ma sempre troppo lungo, lento e raffinato.
Già con Tom à la ferme (2013) si può dire che Dolan faccia qualche passo avanti verso il buon gusto – a parte la sua pettinatura bionda. La storia, a metà strada tra un noir, un thriller e un gender drama, è già più guardabile e godibile. Belli i paralleli con l’ambiente rurale e le carcasse animali, ma nulla più. Lo stile è sempre lo stesso. Si apprezzano i salti ellittici che diventano montaggi emotivi, ma il Xavier Dolan attore è inguardabile. Fate caso all’ennesimo e inutile rallenty mentre balla il tango con Pierre-Yves Cardinal, fate caso all’espressione da femme fatale sul volto del giovane attore regista chic-hipster: è insostenibile. Così come le gare a chi urla di più, a chi s’incazza prima, etc. E c’è sempre una madre ingombrante, una madre di troppo.
Le cose finalmente cambiano con Mommy (2014), celebratissima pellicola per la quale il regista ha avuto il buon gusto di non mettersi davanti alla macchina da presa. È un dramma più vicino alla chiarezza narrativa che ai giochi formali dei film precedenti e questo aiuta a non percepire il film come la masturbazione pubblica di un esibizionista. Applausi per Antoine Olivier Pilon, il ragazzo protagonista, lontano anni luce dal tipo alla Dolan dei film precedenti, fresco, diretto ed esuberante senza isterismi femminilizzati. Anche l’ex madre castratrice, Anne Dorval, ritorna nei panni di madre disfunzionale, ma con la fortuna di un ruolo meno irritante e soprattutto più profondamente intenso. Anche in Mommy la forma si fa contenuto, senza sconfinare nell’esercizio di stile e nel manierismo delle prime pellicole, resta marginale nella narrazione, i 4:3 diventano 16:9 e poi ritornano formato francobollo per commentare lo stato d’animo dei protagonisti come della storia. I rallenty ci sono, ma non indugiano sulle pose divistiche del Dolan attore e quindi diventano narrativamente utili nella definizione del protagonista. Resta il fatto che il suo è un cinema sofisticato, ad uso e consumo di chi sorseggia con eleganza un cocktail davanti a un opera d’arte contemporanea – due o tre righe colorate su fondo bianco – per sentenziare che “si sente che qui dentro c’è tutto il suo autore”.
Xavier Dolan si guarda narcisisticamente, senza le basi per poterlo fare dato che non ha nulla di esteticamente invidiabile – e ci sono bloggers che lo definiscono sex-symbol (wtf?!) – e pretende dal pubblico che tutti lo guardino, lo ammirino, lo venerino. Ha quell’espressione da femmina ferita, scornata, acida, repressa, isterica, con quella boccuccia a culo di gallina e le sue starnazzate nevrotiche: pose che gettano un’inquietante luce sulla cifra stilista di lui come attore tanto quanto come regista. La mancanza del “fallo” altrui e l’assenza di virilità propria agiscono così sul suo cinema piegandolo formalmente verso una deriva sofisticata, snobista, ricercata nel dettaglio fashionista e nel dramma mestruale. Il cinema di Dolan si veste da tipico film d’autore che si compiace di se stesso con quelle inquadrature raffinate, con l’eleganza del minimalismo e quel narcisismo stucchevoli, imperdonabili a un autore serio che vuole farsi riconoscere tale.
Bambolizzato dai festival di tutto il mondo, soprattutto Cannes che sembra aver perso la propria bussola, il cinema di Xavier Dolan non mi piace per l’arroganza e la spocchia tutta queer il cui perno di pensiero è “io sono io e tu non sei un c*** di nessuno”. Il mondo gay ha prodotto autori e pellicole di gran lunga migliori e forse l’enfant souri del cinema francofono avrebbe dovuto studiare il minimalismo di Clint Eastwood o Andrew Dominik, lo stile di Ozon, Noé o di Alain Guiraudie il cui Lo sconosciuto del lago (2013) è davvero un capolavoro di forma e contenuto; o avrebbe dovuto almeno rifarsi al barocco postmoderno di Almodóvar o Tarantino, alle tematiche gay e al mondo narrativo di Gregg Araki o Larry Clark o rivoluzionare davvero il linguaggio e i temi come fa Bruce Labruce.
L’autorialità che la "diva" Dolan sbatte in faccia allo spettatore è invece arrogante e sterile, un orgasmo solitario e narcisistico, di puro compiacimento. Si parla di pop, di kitsch, di naïf, forse perché non si ha il coraggio di parlare di manierismo e di sofisticatezza. Trovo solo tracce di camp, queer drama, autorialità di maniera, fashionismo, turbe mestruali e misoginia. Infine, cosa molto importante visto che il cinema è anche industria e intrattenimento, i suoi film sono davvero noiosi.
Questo pezzo, molto di pancia, non è un articolo accademico. Ho cercato di essere il più obiettivo possibile e di argomentare seriamente la questione. So che molti non gradiranno, ma qualcuno doveva pur cantare fuori dal coro. Anche stonando. PS: mi piace il cinema a tematica omoerotica, un po’ meno quello all gay e sono anche a favore del nudo maschile. La mia quindi non è omofobia, sia chiaro, ma avversione per Xavier Dolan e il suo cinema. Oggettivamente.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta