“Operazione Paura” è un “piccolo” festival che da 5 anni arricchisce la provincia toscana, la cittadina di Pietrasanta, per l'esattezza, (in provincia di Lucca, piccolo gioiellino da visitare).
Cominciato ieri, 28 maggio, in grande stile con la presenza di Lino Capolicchio che inaugurava gli appuntamenti serali presentando il film cult “La casa dalle finestre che ridono”1976 di Pupi Avati, terminerà sabato 30 maggio con la proiezione della versione restaurata di Profondo Rosso di Dario Argento. Come mancare ad un appuntamento così ghiotto? Pietrasanta si trova a circa 60 km da casa mia... iniziavo già a sentire la “febbre del film”. Perché - come poi avrei detto anche al signor Capolicchio- “vedere al cinema un film che si è sempre visto alla tv, è come vedere in un museo un quadro ammirato sempre su un libro... se poi si ha la fortuna di incontrare di persona anche l'attore protagonista, è come entrare dentro al quadro”.
Parto in spedizione, naturalmente scortata da amici fidati e marito al fianco, e arrivo in piazza del Duomo dove si trova il cinema Comunale che ospita le proiezioni e la bella mostra di locandine d'epoca di film gialli e horror. Presi un po' dalla fretta, io rallentata nei passi per via di una recente operazione al piede, cerchiamo di capire dove si trovi il cinema. Il mio amico - fan accanito del film - ferma un gruppo di persone che stanno passeggiando e chiede informazioni.
Chiede ad un signore distinto, che gentilmente risponde che il cinema si trova poco più avanti. Il mio amico ringrazia e si affretta... Io riconosco immediatamente gli occhi azzurri del signore distinto: sono quelli di tanti primi piani importanti, sono quelli di Lino Capolicchio in persona. Abbiamo così il piacere di avviarci al cinema insieme al protagonista del film.
Una serata amichevole, molto piacevole. Il film si vede sempre con gusto, negli anni non ha perso il suo smalto e la sua crudezza. Ammetto di aver avuto ancora qualche brivido nelle scene clou.
Lino Capolicchio si ferma alla fine della proiezione del film per rispondere a qualche domanda e per chiacchierare con il pubblico. Racconta di quanto fosse piacevole l'atmosfera sui set di film gialli o noir, e di quanto al contrario si respirasse aria da Auschwitz su quelli delle commedie. Svela che l'arcano del “finale aperto” del film appena visto è in realtà voluto dal produttore, al quale non piaceva che il protagonista morisse. In effetti la sceneggiatura iniziale era concepita come un diario, in cui Stefano (il protagonista appunto) segna e scrive tutto ciò che gli accade dall'inizio del suo arrivo e che, nel finale, prevede la sua morte. Con la scena finale della mano appoggiata all'albero e il suono delle sirene della polizia si presume un salvataggio in extremis, ma non è molto chiaro.
Sulla leggenda metropolitana che invece racconta Pupi Avati, che vuole la storia del prete-donna realmente esistita, non ci mette la mano sul fuoco, ma si attiene alle parole dell'amico regista.
Molti i racconti legati alla sua carriera, ai suoi incontri, alla sua amarezza per un cinema e un mondo culturale ormai alla deriva che ha conservato ben poco degli antichi splendori.
Infine il racconto della sua mancata partecipazione, come protagonista, al film Profondo Rosso. Capolicchio e Argento si conoscono da molto prima che quest'ultimo diventasse un regista, da quando Dario Argento era uno degli sceneggiatori di “Metti una sera a cena”- 1969, di Giuseppe Patroni Griffi. Fu Capolicchio a mettere in contatto Argento con Tony Musante per “L'uccello dalle piume di cristallo”. Qualche anno dopo Capolicchio si trovava all'estero per problemi familiari - un allontanamento “forzato” dalla moglie gelosa - e torna in Italia proprio chiamato da Argento che lo voleva assolutamente nel suo nuovo film. Il regista gli dà quindi il copione, raccomandando di dargli una risposta in una decina di giorni al massimo. Così Capolicchio inizia a leggere il copione, programmando di finirlo mentre si recava in viaggio in macchina nelle Marche per visitare il suo bambino di 2 anni che non vedeva da tempo. Alla guida di una Renault c'era una sua cara amica attrice. Purtroppo un bruttissimo incidente stradale frontale, provocò ferite talmente gravi e invalidanti, che impedì all'attore di poter prendere impegni lavorativi per molto tempo, inclusi quelli con Dario Argento. Mesi dopo, nel rivedere i resti della macchina distrutta insieme alla sua amica, ritrovarono anche il copione del film che era rimasto all'interno dell'abitacolo per tutto quel tempo. Il copione era intriso di sangue... di sangue Profondo Rosso.
Alla fine del dibattito, Lino Capolicchio si è fermato a fare foto e firmare autografi. Io ovviamente non potevo non esserci per un saluto finale. Il mio amico mi scatta la foto con l'attore, al quale confesso: “lo sa? Per il mio amico “La casa dalle finestre che ridono” è il film più bello da vedere, se l'è visto mezz'ora anche ieri sera”. “Per portarmi avanti e arrivare preparato” - aggiunge il mio amico ridendo. Si ride e Capolicchio dice: “Lo so, voi siete i classici 'malati', e allora, per questi malati, voglio raccontare un aneddoto divertente riguardo al film. In uno dei primi piani del film c'è mio figlio di 4 anni. Mio figlio era piccolo e alcune volte veniva accompagnato dalla tata sul set mentre lavoravo. Piccolino così, faceva i capricci perché non voleva che gli lasciassi la manina. Allora Pupi mi disse: 'vabbè dai, che problema c'è? Io ti faccio il primo piano, la mano non si vede'. Perciò in uno dei primi piani, in cui dovevo essere molto provato e impaurito... in verità tengo la mano di mio figlio. Che poi mi volle seguire anche mentre visionavo i giornalieri. Così vedeva, nelle scene proiettate, che baciavo continuamente l'attrice... e insomma... si deve essere fatto delle idee. Così mi chiede: 'papà ma chi è quella signorina?' E io gli dico: 'non è una signorina, è un'attrice' - che razza di risposta da dare a un bambino. Ovviamente quando tornò a casa riferì alla mamma - mia moglie - che il papà si era baciato con una signorina che era un'attrice".
L'atmosfera è davvero amichevole, e io chiedo a Lino Capolicchio se può rispondere a qualche mia domanda per il nostro sito. Lui accetta con piacere. Condivido con voi questa mia chiacchierata.
“La casa dalle finestre che ridono” nasce come piccolo film. Lei era già un attore affermato e di successo, mentre Pupi Avati un regista quasi esordiente. Era consapevole, mentre girava il film, che nel tempo avrebbe avuto tanto successo?
No, assolutamente. E' vero, io a quei tempi ero un divo, ma con Pupi volevamo girare un film insieme da molto prima. Avevo letto già un paio di sceneggiature prima de La casa, ma solo quest'ultima capii che era quella giusta. E volli fare il film a tutti i costi. Io capisco quando una sceneggiatura o un copione sono buoni... molto buoni, ma questo non ne decreta sempre il successo. Poi il film ha preso il suo cammino, è diventato un cult per gli appassionati e viene sempre presentato nei festival di genere. Negli Stati Uniti, in occasione del suo venticinquesimo anno di vita, lo hanno celebrato con un cofanetto speciale. Quando intervistano Pupi non manca mai una domanda su questo film... In effetti cosa rende un film speciale non è mai chiaro. Entra nell'immaginario collettivo e oltrepassa le generazioni. Questa storia poi racconta un noir anomalo per quei tempi. Non è il solito giallo all'italiana come si giravano allora. Racconta una storia misteriosa, ma in un ambiente rurale. C'è l'uso del dialetto e ci sono personaggi e ambienti davvero anomali per un film noir italiano dell'epoca.
Questo film sancisce una lunga collaborazione con Pupi Avati. Anche se questo rimane sicuramente il vostro film di maggior successo, c'è un altro titolo di Pupi Avati al quale lei è legato?
Jazz Band (1978) ... sicuramente Jazz Band. Anche se “Le strelle nel fosso” (1979) è forse più bello, con Jazz Band si era creato un clima particolare sul set. Pupi è un jazzista e intenditore sopraffino, quindi esigeva moltissimo. Era molto carico. Ricordo poi che io, già una volta, in uno sceneggiato per la RAI, avevo interpretato un sassofonista e insieme a me c'era un altro attore che faceva il cantante... beh, a doppiare il cantante in quell'occasione era Lucio Dalla. Dalla era molto amico di Pupi, e veniva spesso a trovarci sul set di Band Jazz. Così mi diceva: 'hai fatto carriera Lino, da sassofonista a clarinettista'.
Pupi Avati è tornato a fare film per la televisione anche recentemente. Da quello che ho capito, lei non ama molto i prodotti televisivi di oggi.
No. La televisione di oggi è inguardabile, si mira solo alla pubblicità, agli ascolti, ai compromessi. Io provengo da un altro tipo di cultura. Non mi piace.
Se diamo un'occhiata alla sua carriera vengono i brividi. Lei ha praticamente fatto tutto: l'attore di teatro e cinema, gli sceneggiati in tv, il doppiatore, il regista di opere liriche e di film...
Io ho fatto 2 film come regista, ai quali tengo molto. In verità il mio primo film doveva essere uno - sempre sul mondo della box- che poi non feci per i costi troppo elevati. Riuscii a fare nel 1995 “Pugili”, che fu anche premiato nel 1997 a Torino con il premio della critica. Ne ho fatto poi un secondo, più costoso, molto raffinato, al quale ho dedicato davvero molto tempo nella preparazione: “Il diario di Matilde Manzoni” del 2002. Questo è un film che da molti è stato paragonato a Visconti, proprio per l'accuratezza e l'attenzione ai minimi particolari. Ricordo un giovane Alessio Boni a cui feci tantissimi provini perché arrivava da “Incantesimo” e questo mi rendeva diffidente. Alla fine lo presi, e feci bene. Vedi... fare film è molto costoso, e anche quando ci riesci e hai ottenuto buoni risultati e anche dei premi, può succedere che viene distribuito poco e male. “Il diario di Matilde Manzoni” non fu distribuito bene, però fu accolto bene dal pubblico che l'ha visto.
E oggi? Se trovasse una storia che la convincesse, ritornerebbe a recitare?
Non credo... no! Non ho più la spinta giusta, quella che serve per affrontare un personaggio e un lavoro come il mio.
E al cinema ci va? Ha visto qualche film ultimamente?
No, è brutto a dirsi ma è così. Sono un po' disilluso dal cinema di oggi. Non ci vedo quello a cui ero abituato, la nostra cultura. Ho anche vinto in passato un Nastro d'Argento (1968, miglior attore per il film Escalation), e quindi vengo chiamato per i voti dei Nastri... Ma, no! I film oggi non li vedo.
E se dovesse tornare alla regia? Magari anche con storie scritte da altri?
Non potrei! Potrei dirigere solo cose scritte da me. Guarda, se c'é una cosa che oggi so fare è quella di scrivere. Lo vedrai con la mia autobiografia (e sorride)
Quando esce?
Dovrebbe uscire l'anno prossimo.
Forse il pubblico di oggi è “educato male” da un certo cinema e una televisione di basso livello. Il cinema italiano poi gira sempre intorno ai soliti nomi.
Vedi...io faccio parte, ho fatto parte, di un mondo che oggi non potrà più tornare. Molti registi di oggi hanno “dimenticato” la nostra storia a favore di altre che non ci appartengono. Rimpiango tantissimo registi come Germi, un artista nel vero senso della parola. Già ai suoi tempi era incompreso. Ma lui aveva un occhio e un metodo di lavoro che oggi nessuno ha.
Però vedo che frequenta volentieri queste manifestazioni quando ne ha l'occasione.
Io, nelle cose che faccio, sono spinto dall'amore e dalla passione. Quando vedo che un progetto è fatto con amore e passione gli dedico il mio tempo, perché ci credo. Poi questo è davvero un posto molto bello.
Chiacchierare con Lino Capolicchio è davvero piacevole, e si spazia fra vari argomenti e riflessioni. Sto parlando con un pezzo importante della nostra storia cinematografica e culturale e i minuti inesorabilmente volano... e l'ora è tarda.
Saluto calorosamente Lino Capolicchio - che così generosamente ha trascorso del tempo con me - e l'organizzazione del festival che mi ha permesso di fermarmi con lui.
E' tardissimo, zoppico, c'è un'oretta di strada da fare per tornare... La “febbre del film” è calata solo momentaneamente.
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