Lunedì
25 maggio 2015: il Sicilia Queer FilmFest ha già aperto i battenti il 24 sera con l'anteprima di Eisenstein in Guanajuato di Greenaway, e prosegue il giorno dopo con un programma ricco di novità e di pellicole provenienti da tutto il mondo. Alle 16,30, mentre la Sala Wenders offriva la visione di Nuits Blanches sur la Jetée di Paul Vecchiali e Fassbinder. Lieben Ohne Zu Fordern di Christian Braad Thomsen, la Sala De Seta proiettava prima Rags & Tatters del regista egiziano Ahmad Abdalla, e poi, alle 18,30, i primi otto cortometraggi della sezione Queer Short, interessanti ma in generale poco capaci di distinguersi.
Rags & Tatters di Ahmad Abdalla narra la storia di un uomo uscito di prigione una storica, recente, notte egiziana in cui le porte delle prigioni del Cairo furono aperte e i prigionieri sono fuggiti lasciati a loro stessi. L'uomo, dall'indole silenziosa e poco socievole, si aggira per un mondo cambiato sempre all'insegna della guerriglia e della povertà più assolute e violente, incapace di far nulla per farsi valere in una realtà che lo rigetta come un "in più" disdicevole e superfluo. Tra lente passeggiate e tristi disavventure, i giorni di libertà del protagonista vengono ritratti cercando di creare un'operazione di mimesi e di immersione nei tempi morti e nei lunghissimi attimi, che non si capisce mai se sono pregni di tensione o adagiati in una staticità forse un poco superflua. Sta di fatto che Rags & Tatters sa catturare (pur se per lunghi intervalli, e non per l'intero minutaggio) l'attenzione dello spettatore grazie a costruzioni visive mai banali - forse un po' ricattatorie nell'ostinato soffermarsi sulla "facile" ma terribile miseria - e grazie soprattutto a un montaggio sonoro eccezionale (che nel finale raggiunge il suo zenit, insieme anche al resto del film). Il film di Abdalla è in qualche modo associabile a Tales di Rakhshan Barientemad, poiché sono entrambe pellicole invogliate a raccontare piccole realtà poco conosciute, rendendo esplicito l'atto della documentazione e della testimonianza (il protagonista di Rags & Tatters cerca di pubblicare un video in cui riprende le violenze cui erano soggetti i carcerati della prigione). La forma del film però va a minare l'importanza contenutistica dell'intero lungometraggio.
Voto: ***
Il cortometraggio che ha aperto la sezione Queer Short è stato Ton poids sur ma nuque di Frédéric Labonde, un ipercinetico ed inquietante spaccato della frustrazione di un uomo che si innamora di un altro uomo che abita nel palazzo di fronte al suo (e più che dell'uomo, si innamora del suo corpo). Senza parole, ma con l'ausilio di frasi trascritte in sovraimpressione (non sempre riuscite nell'intento evidentemente poetizzante), il corto di Labonde tenta una riflessione su un amor fou-voyeur, forse inconsapevole che l'evoluzione è in parte prevedibile, ma capace di sconvolgere con un uso straniante della musica e un finale che è un climax asfissiante sulla triste realtà dell'uomo dietro la macchina da presa (il film è in stile mockumentary).
Voto: ***1/2
Mondial 2010 di Roy Dib tenta anch'esso la strada del mockumentary questa volta privandoci della possibilità di scoprire chiaramente i volti dietro la macchina da presa, ma dando di contro la sensazione di conoscere più loro, e le loro voci che costantemente sentiamo, piuttosto che quello che stiamo effettivamente vedendo, immagini dalle quali ci sentiamo costantemente estranei e turbati. Il film funziona nonostante alcune ingenuità di sceneggiatura perché senza ritrarre banalmente i disagi israeliano-palestinesi (perché è proprio in Palestina che la coppia gay protagonista, libanese, va in vacanza), riesce a insinuare una tensione misteriosa che è quella che prova il protagonista, e che si riassume nell'enigmatiche parole "Ramallah sembra stare scomparendo". Parecchio ansiogeno, senza nessuna storia spettacolare. Piccolo cinema di qualità fatto con nulla.
Voto: ***1/2
E' invece Leiber a costituire una discreta delusione rispetto alle aspettative (data dalla curiosissima immagine qui sopra riportata, e dalla sinossi). Diretto da André Krummel e Jonas Schneider, narra di un giovane gigolò ventenne che presta servizio nella camera d'albergo di un uomo enorme, dedito al sesso e al cibo nella maniera più sfrenata perché venuto a conoscenza di essere malato terminale. Il film è un incontro che non lascia indifferente nessuno dei due protagonisti, che si ritrovano senza un vero motivo a confidarsi i propri segreti: leggermente patinato e meno sgradevole di quanto forse vorrebbe (e neanche tenero), Leiber sciorina frasi un po' facili con un script ovvio e scontato, e a conti fatti non colpisce né per originalità, né per pregi visivi.
Voto: **1/2
Muchacho en la barba se masturba con rabia y osadìa, di Julian Hernandez, appare come l'opera più sgradevole e meno riuscita della giornata festivaliera del 25. Diretto con piglio documentaristico (e con lo sprezzo del buon gusto estetico), il film messicano narra del suo protagonista, l'ottimo ballerino Jonathan, dedito ad una vita decisamente promiscua. Senza trasmettere alcun tipo di problematicità proveniente dalle decisioni di vita del suo protagonista (come invece Hernandez vorrebbe provocatoriamente fare), e non facendo altro che alimentare antipatia nei confronti di un personaggio forse vero ma forzatamente "vivo", e per questo ostentatamente superficiale, Muchacho en la barba... chiede senza volerlo di essere dimenticato all'istante dallo spettatore memore di uno stile sciatto, e di una mdp "realistica" e ipercinetica che viene quasi subito a noia. Incapace di trasmettere quella contradditoria joie de vivre appertenente a Jonathan.
Voto: *
È invece Queer. Copiare Beckett il film finora più interessante della serie di cortometraggi presentati, nonché della giornata. Diretto da Canecapovolto, un collettivo di artisti siciliani, il film è un sorprendente esperimento dall’animo e dalla forma godardiani, che gioca con le immagini e con le scritte apparendo assai criptico, girando intorno a una serie di leitmotiv incentrati sul ruolo del corpo e dell’Arte. Fra frasi come “l’uomo diventato un dipinto, un oggetto”, e “è un ragazzo cattivo”, Canecapovolto sembra continuamente riferirsi al disagio dell’outing e della mercificazione dei corpi trasformando il film stesso in un “corpo-film-oggetto” che si trasfigura continuamente davanti agli occhi. Ottimo, poi, il commento musicale.
Voto: ****
Di minore impatto, sicuramente, Y otro ano, perdices, di Marta Dìaz de Lope Dìaz, che senza tanta fantasia cerca di mischiare satira borghese e sentimentalismo facile, con un finale aperto superfluo e un gruppo di personaggi eccessivamente macchiettistico e incastrato nei propri ruoli. Dalla nonna che sembra stupida e in realtà capisce tutto, alla figlia che rivela di essere lesbica e non viene presa sul serio, fino alla madre piena, pienissima di frustrazioni, la giostra umana presentata non vanta certo grande originalità, né riesce a destare il men che minimo dubbio.
Voto: **
Le piment di Patrick Aubert è invece a cavallo fra sperimentalismo e realismo. In realtà non si comprende con precisione il vero soggetto/scopo del film, non tanto perché trattasi di film criptico in qualsivoglia modo, ma soprattutto perché sorprendentemente superfluo, incapace di evocare come vorrebbe i dubbi del non detto. Una donna flirta con un’amica davanti agli occhi della compagna di quest’ultima, scatenando ira e gelosia. Senza spettacolo, ma anche senza essere in grado di trasmettere il disagio dell’imbarazzante situazione, un film che non è neanche un giochetto, ma si inabissa nell’insignificanza.
Voto: **
The Decision fa invece scattare la risata involontaria. Concepito come una ringkomposition che vede lo sconvolgimento di un giovane marocchino che deve fare outing con suo padre (perché costretto dal partner che non vuole più tenere segreta la loro relazione), il film adotta uno stile anonimo quasi irritante, e lascia il finale interrotto come a voler regalare incertezze (piuttosto che le risate che effettivamente arrivano). Interpreti al minimo sindacale, poca verve.
Voto: *1/2
Successivamente alla proiezione dei primi cortometraggi in concorso (finora meno appassionanti dell’anno scorso, ma questo lo si deciderà in definitiva con la proiezione dei prossimi corti), Veronique Aubouy ha fatto ingresso nella Sala De Seta affiancata da Andrea Inzerillo per presentare il suo Je suis Annemarie Schwarzenbach, cortocircuito filmico che sullo sfondo di una rottura catartica di qualsiasi differenza fra realtà e finzione, indaga la possibilità di far rivivere un personaggio complesso e misterioso come quello della femminista antifascista svizzera che dà il nome al titolo attraverso l’interpretazione di numerosissimi giovani protagonisti, che di volta in volta si passano il testimone per assumere e decriptare i connotati enigmatici di un personaggio sopra le righe come la Schwarzenbach. Lo stile compassato della Aubouy e l’ambientazione prima chiusa e asfittica, poi aperta e dispersiva, segna una climax ascendente che sottopelle va abbandonando la realtà per diventare “occhio degli eventi” che muovono tutti i caratteri principali. Si pensi a tutte le sequenze iniziali dei provini, in cui si avverte costante la presenza dietro la macchina da presa, e si pensi poi alle sequenze all'aperto dopo una buona metà del film: l'assistente comincia a cercare la regista, rivelando che il punto di vista si è astratto, staccandosi dall'intento principale del film, e assumendo la sua strada personale (conclusa perfettamente nel finale). Unico e notevole, silenzioso, molto français, splendidamente interpretato e quasi ipnotico.
Voto: ****
Martedì
Mentre alla Sala De Seta viene proiettato L’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale di Gian Vittorio Baldi, incentrato su un episodio terribile e plausibile durante gli anni della Resistenza, nella Sala Wenders hanno trasmesso Los tontos y los estùpidos di Roberto Castòn, curioso affresco umano (curioso più per come è fatto, che per quello che dice) incentrato sulla storia di quattro personaggi più o meno legati fra di loro. Evitando banali accostamenti al teatro di Samuel Beckett, ma accingendo a piene mani da un patrimonio cinematografico che tematiche simili le ha trattate migliaia di volte (viene in mente il Teorema pasoliniano, in riferimento a uno dei due nodi narrativi fondamentali), il film di Roberto Castòn finisce per distinguersi quando mostra, esplicitamente, di essere riuscito a inserire lo spettatore in una storia di finzione spogliando la scenografia e riducendo all’osso tutti i mezzi che normalmente conducono alla sospensione dell’incredulità: Los tontos y los estùpidos si affida semplicemente alle capacità attoriali dei protagonisti (in certi momenti immensi, davvero bravi), sapendo discutere di contraddizioni umane in maniera compiaciuta, con mezzi espressivi noti ma affascinanti (un oggetto del desiderio rimane spesso fuori campo), e alternando buonismo e cinismo con una facilità che in certi momenti intimorisce. Certo però l’aria programmatica prevale, e suona posticcia la trovata di mostrare la realtà degli attori in bianco e nero, i momenti in cui si fanno pause con mdp in movimento e i momenti di finzione con mdp fissa: uno schematismo che finisce per svilire l’intento della pellicola. Ma non ci si può dire certo insoddisfatti.
Voto: ***
È poi il turno di Vincent Dieutre, al De Seta alle 18,30, che ha presentato il suo ultimo lavoro concluso (alcuni nuovi sono attualmente in lavorazione), Viaggio nel dopo-storia, pseudo-remake/omaggio alla statura cinematografica di un film come Viaggio in Italia di Roberto Rossellini, e che già dal titolo lascia emergere il riferimento esplicito alle riflessioni pasoliniane su un presente fuori dal tempo che si è privato di qualsiasi connotazione storica precisa. L’intento di Vincent Dieutre è infatti quello di astoricizzare Viaggio in Italia e adattarlo al mondo contemporaneo: in tal senso fa invadere il film letteralmente di schermi di computer, di telecamere digitali, di video su Youtube in cui fa scorrere le immagini del capolavoro rosselliniano. E mentre da un lato porta avanti un discorso estraneo al progetto in sé e per sé, e che riporta in qualche modo le “giustificazioni” per cui si è lanciato nella realizzazione di questo film, dall’altro mostra la storia di due uomini sposati, Alex e Tom, in viaggio per l’Italia e improvvisamente consci di essere davvero soli, e di poter affrontare i propri contrasti direttamente, senza distrazioni. Nel mischiare però questi due lati della pellicola, Dieutre non riesce davvero a far percepire né l’urgenza (o utilità) del suo film, né il lato eventualmente personale che lo avrebbe spinto effettivamente a realizzarlo (non bastano certo poche parole su come il film di Rossellini lo abbia plasmato mentalmente e intellettualmente). La sua costante voce fuori campo, che attinge dal suo personale reale, non traduce in immagini gli intenti, ma si accartoccia nel mellifluo accompagnamento di un film in certi momenti estenuante, evidentemente sincero ma come dilettantesco, superfluo, privo di reale interesse. Teorico, certo, ma in diversi attimi quasi imbarazzante, nonché distante dalla materia di base su cui si nutriva l’intera struttura del grande Viaggio in Italia.
Voto: *1/2
Dopo Le temps qui reste di François Ozon, proiettato in occasione della presenza del protagonista Melvil Poupaud, ci si è trasferiti nell’arena (allestita al chiuso per motivi meteorologici), nella quale si è proiettato in anteprima assoluta il nuovo lavoro di Arnold Pasquier, Borobudur, interamente girato a Palermo e intrigante nell’edificare un discorso formale sulle metamorfosi delle immagini, dei corpi e dei luoghi. Praticamente un film sulle "linee delle cose". L’urbanistica palermitana, e il suo aspetto esteriore, diventano riflesso di una ricerca che per Federico, studente d’architettura di Palermo, coincide, forse, con la possibilità dell’incontro, e del contatto umano. Forse monco per ciò che riguarda il lato emotivo del personaggio (aspetto però non di focale importanza per l'economia del film), il film di Arnold Pasquier è un sorprendente ritratto figurativo di un contesto, e della figura protagonista che quel contesto lo attraversa, compresso e combattuto fra solitudine e possibilità di crescita. Oltretutto, quando il protagonista finisce nei cantieri culturali della Zisa per prendere parte ad una sequenza girata proprio dove ci si ritrova a vedere il film, l’esperienza si rende davvero emozionante, benché forse condizionata dall’afflato emotivo che scorre sulla pelle di un palermitano, come chi scrive, che i luoghi mostrati li conosce molto bene: si avvertirebbe dunque l’urgenza di un parere di qualcuno che non sia di Palermo, e che non possa farsi attrarre da questo rischio di ammiccamento (quasi sicuramente, comunque, del tutto assente). Un film che fa discutere e riflettere, problematico e introspettivo. E dalla regia indimenticabile.
Voto: ****
Nel bene e nel male, due entusiasmanti giorni densissimi di cinema, e siamo ancora all’inizio!
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