Ha destato un certo scalpore anche negli ambienti meno sciovinisti la sostanziale beffa subita dalla selezione italiana all’ultimo Festival di Cannes. Tre titoli forti di tre autori forti (che affermano anche una precisa visione del delegato generale Thierry Frémaux, che scometteva su una terna che, a suo modo, era attesa al varco da molti) in un’edizione, a detta di chi se l’è sciorinata tutta, abbastanza moscia. Capita, certo. Eppure. Eppure ci sono dei punti, o per meglio dire dei presupposti, che vanno necessariamente fissati prima di ragionare sul perché e sul per come avvengono cose di questo tipo.
1. Primo presupposto: quando parliamo di festival, parliamo sovente di film che non abbiamo visto. Nella migliore delle ipotesi, tanto noi amatori quanto i critici e i recensori abbiamo visto i film italiani; nella peggiore, nemmeno quelli; nella peggiore delle peggiori, leggiamo le recensioni di Eugenio Scalfari, Marco Travaglio, Conchita De Gregorio. La legittimità del tifo è assodata, si tifa in politica perché non si dovrebbero tifare film? È però stucchevole ritenersi il centro del mondo della cinematografia senza nemmeno ambire ad avere una cinematografia nazionale come la Francia.
L’opportunità squisitamente politica di assegnare tre premi pesanti a tre film francesi è discutibile e finanche sgradevole, ricordando sempre che non abbiamo visto i film ricompensati: è una prova di forza implicitamente veicolata dalla giuria dei Coen, evidentemente indirizzata a scegliere in un certo modo da una selezione che forse evidenziava l’orgoglio nazionale di coniugare politica degli autori e tematiche sociali in un particolare momento della storia contemporanea francese.
E soprattutto, testimoniava la vitalità di un sistema: Jacques Audiard riceve la definitiva consacrazione internazionale pazientemente costruita e dopo una Palma mancata nel 2009 (ebbe il Gran Prix: la giuria presieduta da Isabella Huppert fece vincere, non senza polemiche, Il nastro bianco), così come per il miglior attore Vincent Lindon, mai gratificato da allori in patria; la migliore attrice, Emmanuelle Bercot, è anche la regista del film d’apertura; e senza dimenticare anche il film di chiusura è d’oltralpe.
2. Secondo presupposto: il “cinema italiano” attualmente è un’entità che non esiste. Esistono buoni o cattivi film italiani che conducono un percorso a sé stante, vuoi per la caparbietà di produttori e distributori che investono su un prodotto, vuoi per l’estemporaneo interesse da parte di alcuni settori della comunità internazionale. Il successo de La grande bellezza, per dire, ha scatenato tanto un incredibile astio quanto una ridicola piaggeria nei confronti del suo autore, Paolo Sorrentino, che ben rappresenta la cialtroneria con cui molti commentatori e molti addetti ai lavori affrontano il discorso del “cinema italiano”.
Che non ha un sistema di relazioni col resto del mondo al di là dell’evento di turno: la candidatura all’Oscar è un’operazione lunga e complessa che, negli ultimi quindici anni, è riuscita solo ad un uomo di relazioni come Riccardo Tozzi (La bestia nel cuore) e al team Nicola Giuliano e Francesca Cima che ha ostinatamente lavorato su un autore “spendibile” all’estero. Questo è il vero scarto che ci distingue negativamente dalla, è il caso di dirlo, potentissima industria cinematografica francese.
3. Non è vero che non vinciamo ai festival. Vinciamo in due casi. Il primo: vinciamo quando presentiamo un film che rivela o riscopre un talento che riesce a parlare ad un pubblico sprovincializzato. Evitando di ricordare la doppietta Garrone-Sorrentino del 2008, focalizzandoci sugli ultimi cinque anni: Elio Germano, Palma nel 2010 per La nostra vita (nella giuria presieduta da Tim Burton c’erano Giovanna Mezzogiorno e l’influente Alberto Barbera); Alice Rohrwacher, Gran Premio della Giuria nel 2014 con Le meraviglie (con lo zampino della presidente Jane Campion); la sorella Alba e Adam Driver (americano ma in un film italiano), Coppe Volpi a Venezia nello stesso anno per Hungry Hearts. Ma anche Paolo e Vittorio Taviani, risorti a Berlino nel 2012 con Cesare deve morire, Orso d’oro fortemente voluto dal presidente Mike Leigh.
I casi di Emanuele Crialese, inutile Gran Premio della Giuria a Venezia nel 2011 con Terraferma, e Matteo Garrone, Gran Prix nel 2012 con Reality, sono segnali di un’attenzione a due cineasti giovani e con un’ambizione internazionale. Se questo non abbiamo vinto niente, lasciando perdere le dietrologie, è forse per motivi molto semplici: celebrare ancora il celebrato Nanni Moretti, già Premio per la regia nel 1993 e Palma d’Oro nel 2001? gratificare ancora Garrone che viene da una doppietta di Gran Prix (dopo quello del 2008 per Gomorra)? consacrare il detestato Paolo Sorrentino che ha appena vinto un Oscar (nell’anno de La vita di Adele, che i francesi non presentarono come film straniero, sbagliando come raramente è loro capitato in tempi recenti)?
4. Questo discorso, però, ci porta ad un altro dato di fatto: perché sperare sempre in un eroe nella giuria, in un patriota che dovrebbe incaponirsi per far vincere il film nazionale? Sono in tanti ad avere il naso ancora storto per la testardaggine con cui il presidente Bernardo Bertolucci conferì il Leone d’Oro a Sacro GRA nel 2013, primo documentario a ricevere l’alloro massimo ma in un concorso dominato da Miyazaki, Dolan, Glazer, Groning. È una scelta che fa a tutt’oggi discutere e che ha sancito una sorta di diffidenza nei confronti della mostra lagunare. Se poi consideriamo che qualche mese dopo la laterale Festa di Roma vide trionfare l’analogo Tir di Alberto Fasulo, la contestazione si allarga.
Bertolucci non è il primo presidentissimo ad operare scelte forti ma criticabili: a Cannes 1977, Roberto Rossellini impose la Palma per Padre padrone al posto di Una giornata particolare amato dai giurati (lo rivela Gilles Jacob nelle sue memorie); a Venezia 1998, Ettore Scola firmò un verdetto che festeggiava col Leone Così ridevano di Gianni Amelio (in un’annata modesta); a Cannes 2012, Moretti s’è praticamente intestato il Gran Prix per il dibattuto Reality di Garrone. Ma l’apoteosi è Gillo Pontecorvo, giurato di Berlino 1991, così carismatico da convincere i colleghi a dare ben tre premi alla selezione italiana: Orso d’Oro a Marco Ferreri (La casa del sorriso), Orso d’Argento a Marco Bellocchio (La condanna) e Premio per la regia a Ricky Tognazzi (Ultrà)! Con questi rumorosi precedenti, dobbiamo probabilmente comprendere il sospetto della tendenziosità dei giurati italiani da parte dei forestieri.
5. Conclusioni. Se è vero che questo è il day after della non-industria del cinema italiano, se è vero che comunque i tre film sono stati ben venduti al mercato internazionale, se è vero che la cassa di risonanza mediatica sta via via funzionando anche per gli incassi, se è vero che sono tre film importanti, se è vero tutto questo, allora come elaborare questa sconfitta che appare così sfacciata? Non sta a me dirlo. Forse fare buoni film non basta per contare come credibile cinematografia nazionale. Nel contesto del concorso annuale, Audiard, Bercot e Lindon rappresentano le punte di diamante di un sistema. I film di Garrone, Moretti e Sorrentino sono i film di tre autori italiani, non i tre film del cinema italiano, così come Rohrwacher l’anno scorso. Non siamo una comunità, non siamo un sistema, non siamo un’industria. Perciò rosichiamo. Perciò la Francia vince. Perciò il cinema francese esiste.
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