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OLTRECONFINE SPECIALE CANNES – GIORNO 2: TRA CONCORSO (GARRONE), FUORI CONCORSO (MAD MAX-MILLER), CERTAIN REGARD E QUINZAINE.
di alan smithee ultimo aggiornamento
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Che fatica star dietro a code, attese interminabili senza riuscire ad entrare in sala, un pass che libera le coscienze degli organizzatori della manifestazione, ma di fatto ci tiene fuori da ogni possibilità di accesso alle rassegne principali...o quasi.

Comunque non bisogna demoralizzarsi né demordere, e tener conto che riuscire a vedere 3-4 film al giorno a Cannes è un risultato ottimo.

Il primo film della giornata, L'OMBRE DES FEMMES, proviene dalla Quinzaine e dall'ottimo regista francese Philippe Garrel, che in soli 73 minuti ci racconta, col bianco e nero seducente a cui ci ha abituato e che rende meglio di ogni altro stratagemma l'ambiente vagamente bohemiènne di una coppia di artisti ed intellettuali, cineasti produttori di documentari storici, una coppia di parigini come tanti - una nuova variazione riguardo al sentimento amoroso di coppia. Una coppia apparentemente consolidata e perfetta, a cui tuttavia piace la divagazione amorosa, che si esplicita, segretamente, dapprima in una storia a tre e poi a quattro, quando si scopre che non solo l'uomo vive una vita amorosa clandestina parallela, ma pure la moglie si comporta alla stessa stregua del compagno.

Sarà l'amante del nostro protagonista a scoprire la tresca della moglie del suo amante, e deciderà dapprima di tacere, poi si eciderà a parlare, mandando a rotoli tutto.

Ma questa grave crisi di coppia servirà a mettere in discussione problematiche che permetteranno ai due, dopo un lungo anno di separazione, di ritrovarsi e di rinsaldare ancor più un legame evidentemente indispensabile.

Girato come il precedente film di Garrel in sequenza cronologica come era uso fare ai tempi della Nouvelle Vague, cui Garrel si ispira molto, e non solo nella scelta di un bianco e nero meraviglioso che ricorda certe opere di Truffaut, L'ombre des femmes è scandito dall'io narrante del figlio del regista Louis, che in tono ironico e a tratti sin divertente, commenta e sdrammatizza sui vezzi e i piccoli segreti che nascono e si portano avanti in una storia di coppia che si rivela in fondo molto meno alla deriva di quel che appaia.

Tra i protagonisti primeggia una ottima Clotilde Courau, carina e dai tratti tutt'altro che aristocratici, in Italia purtroppo nota quasi solamente come consorte di un principe vanesio e sciocchino, in Francia attrice apprezzata da diversi autori. Il suo compagno è interpretato dal biondo Stanislas Merhar, bravo e freddo, disincantato e perfetto ad interpretare il ruolo del tipico uomo sicuro di sé ed ingenuo, convinto che una donna non possa desiderare un altro uomo, come invece al contrario capita all'uomo nei confronti di altre donne.

VOTO ****

 

ONE FLOOR BELOW, presentato per Un Certain Regard in sala Debussy, è un film del regista romeno Radu Muntean, già presente nel 2010 a Cannes nella medesima categoria.

Con realismo dirompente ed insistito a cui ci ha abituato molto cinema rumeno, ed autori del calibro di Cornelius Porumboiu, Muntean gira un insolito thriller casalingo e domestico: una macabra vicenda in cui viene coinvolto un tranquillo padre di famiglia dopo che, insospettito dalle grida di una donna nell'appartamento al piano inferiore al suo, si convince che in quell'appartamento sia successo un omicidio. I dubbi di coscienza ed etica spingono l'uomo ad origliare continuamente e a confrontarsi con un altro vicino che, cinicamente, si pone molti meno problemi del protagonista; il quale si troverà poco a poco a dover fare i conti col freddo e organizzato presunto assassino.

Un film che non fa nulla per concedersi o piegarsi alle regole del thriller classico, ma che prosegue il discorso dell'analisi di una frustrazione che attanaglia un onesto, con il realismo ed i ritmi della vita e della quotidianità che ci circondano, in una contaminazione tra genere e realismo che convince e riesce anche ad appassionare sino al finale enigmatico in cui un incubo del figlio della coppia sembra rimettere in discussione tutta l'indagine casalinga e l'impianto accusatorio costruito tra le mura domestiche tra congetture e supposizioni.

VOTO ***

 

IL RACCONTO DEI RACCONTI è il film di Garrone a cui tocca aprire l'avventura italiana variegata e di lusso presso la sezione Concorso. Da oggi nelle sale italiane, il film, attesissimo sin da ieri con molte richieste di accrediti espresse nei consueti cartoncini esposti al vento e quasi sempre inevasi (chi è in possesso delle cosiddette “accreditation” difficilmente le cede, ed anzi le usa per sé).

E' bello e sintomo di completezza, intelligenza e desiderio di completarsi quando succede che un autore abbandona, magari solo per il momento, i sentieri narrativi percorsi fino ad oggi per dirigersi verso un genere a lui nuovo che lo lancia dinanzi ad una sfida ambiziosa e non senza rischi.

Col fantasy sontuoso e barocco, e certamente costoso della trasposizione di racconti fiabeschi della tradizione napoletana, Garrone intreccia sapientemente, grazie ad una salda sceneggiatura scritta dal regista assieme a Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, tre fiabe aventi per epicentro re o regine o principi, che col loro comportamento risoluto od ossessivo, in qualche modo riflettono su una universalità di atteggiamenti e tendenze che rendono l'uomo così fragile, imperfetto, stolto ed inaffidabile, ma forse proprio per questo così interessante ed intrigante.

D'altronde il bel film di Garrone dimostra una volta per tutte come le favole siano nate prima di tutto per gli adulti, e poi adattate per un pubblico di più piccini per attivare già nei primi anni di vita quel timore e quella prudenza che a volte aiutano a conservare la salute o la vita stessa.

Con queste tre favole altrettante umane ossessioni sono esplicitate e trovano alla fine il modo per ripiombare come macigni rovinosi su coloro che le hanno create e sollecitate: il desiderio di una maternità ad ogni prezzo e sacrificio; la lussuria di un ricco incontentabile e il desiderio di immortalità che ne consegue; la volontà di un padre di non separarsi mai dalla propria figlia, inducendolo con un inganno a perderla per sempre, rispecchiano tre ossessioni tipicamente umane insite nella personalità dalla notte dei tempi. Le tre vicende zigzagano e si intrecciano abilmente tra di loro seguendo il film un percorso narrativo che tiene desta l'attenzione e quasi rapisce per interesse e curiosità. Salma Hayek, Vincent Cassell, Toby Jones, John C. Reilly e l'incantevole Stacy Martin di Nymphomaniac, sono solo i nomi di punta di un cast internazionale e perfetto che vede anche i camei di Alba Rorhwacher e Massimo Ceccherini, oltre alla curiosità di due gemelli assolutamente identici (e albini, se non si tratta di trucco) che interpretano due destini socialmente differenti di una unica esistenza separata dalle forzature della prepotenza umana, a volte troppo disinvolta a sfidare la natura, e dimentica di quanto questa possa essere cruda nel riprendersi ciò che le è stato tolto.

Splendide, affascinanti locations tra Puglia e Sicilia costituiscono il teatro scenico più opportuno per l'ambientazione surreale e suggestiva che risulta inevitabile in un contesto in cui mostri, draghi marini ed enormi pulci mutanti divengono il cardine e la chiave per dare una svolta decisiva, e spesso rovinosa, alle fiabe barocche che compongono questa intrigante triade di racconti fantastici concatenata in un unico racconto: da cui ne deriva l'opportuno ed esplicativo titolo.

VOTO ****

 

Annunciato all'inizio come il classico filmone d'apertura roboante che a Cannes spesso ha il compito di inaugurare con leggerezza e forte impatto una kermesse che poi intraprende strade più impegnate o quantomeno stilisticamente differenti, MAD MAX – FURY ROAD consente al regista George Miller di tornare, esattamente dopo trent'anni, sulle tracce del suo personaggio più famoso: quel Mad Max con cui probabilmente il regista australiano avrà modo di essere ricordato nella storia del cinema. Torna l'apocalisse come teatro affascinante ed allarmante su cui far ruotare le vicende di una “carovana “ capitanata dal “nuovo” Max (per ragoni d'età il ruolo è passato dall'inimitabile Mel Gibson al granitico e non meno bravo Tom Hardy, che nasceva proprio negli anni in cui lo steso Miller produceva e dirigeva quasi in casa il suo primo straordinario capostipite della saga) e dalla androgina, mascolina ma sensualissima Imperatrice furiosa-Charlize Theron, in fuga con cinque splendide mogli di un avido imperatore di un regno di polvere e pietre dove l'acqua e gli elementi primordiali sono il nuovo denaro e la discriminante che rende ricchi e potenti o viceversa delle nullità.

Il film non ha una trama vera e propria, ma è girato splendidamente e riesce ad affascinare (decisamente di più del deludente, un po' troppo edulcorato e piagnone atto terzo, nonostante la presenza in quel caso eccezionale di Tina Turmer e della sua intramontabile, epocale colonna sonora – We don't need another hero) sotto molti aspetti: il look dei personaggi coinvolti, così estremamente eterogenei passando da mostri deformi a bellezze femminili oltremodo incantevoli; la cattiveria come unica fonte di sopravvivenza, le atmosfere post-apocalittiche che ben più di ogni altro precedente film della serie si avvertono e trovano nel paesaggio e nelle locations (vere o ricostruite che siano), lande deserte e polverose che lasciano spazio a paludi fangose e sdrucciolevoli ove finire impantanati, uno dei punti di forza di un raro esempio di blockbuster che riesce a convincere divertendo ed inquietando. E l'energia, la furia appunto, alimentata dalla intramontabile, insopprimibile voglia di vivere a sopravvivere ad un nemico sempre troppo forte e crudele, avido e perennemente alle calcagna.

VOTO ***1/2

 

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