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OLTRECONFINE – SPECIALE FESTIVAL – GIORNO 1: CANNES & DINTORNI. TANTO BUON CINEMA SULLA COSTA AZZURRA.
di alan smithee ultimo aggiornamento
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Eccoci ancora una volta nella baraonda di Cannes: festival elitario e per addetti ai lavori, lo sappiamo da tempo e ne troviamo confrma ogni anno. Una maniifestazione che si toglie di dosso questa accusa fornendo a tutti (o quasi tutti) gli altri che vogliano partecipare da spettatori e siano iscritti a cineforum od organizzazioni similari, il cosiddetto pass CANNES CINEPHILES.

Gratuito completamente, per carità, nulla da rivendicare; ma anche completamente sprovvisto di alcuna priorità, circostanza che ci costringe ad interminabili code, al termine delle quali spesso si rischia (è quello il cuore del problema) di rimanere fuori dalla proiezione.

Insomma si critica spesso e a sproposito Venezia e il suo festival, uno su tutti, per poi scoprire che al Lido ci sono in abbondanza sale per ospitare un pubblico pagante che, senza spendere fortune, può guardarsi dall'inizio alla fine tutti i film in ogni rassegna senza tour de forces sfiancanti e poco concreti. Qui in Costa Azzurra invece siamo davvero lontanissimi da rendere possibile una cosa del genere: poche sale a parte il Palais, spesso piccole e fuori zona, in una città che in questi giorni fi festival è congestionata in modo tale da essere impossibile girare in automobile.

Insomma quello che mi domando è: se Cannes è il festival cinematografico più prestigioso e noto al mondo, questi francesi non dovrebbero migliorare le possibilità di accesso, utilizzando magari le multisale e le strutture polivalenti che si trovano a pochi metri dal Palais per accogliere i film della giornata e renderli disponibili al pubblico, anziche dividersi tra il mercato (che lo facciano altrove, tanto è inibito a chiunque non ne faccia parte in qualità di compratore o distributore, pure ai giornalisti) ed i film in sala di ordinaria programmazione? Si eviterebbero in tal modo sistematicamente lunghissime e vane attese al sole (o alla pioggia...come pare accadrà domani...).

Cosa spiacevole che peraltro è successa oggi alla proiezione del primo film della Selezione Ufficiale: il film d'apertura, francese (guarda un po'), per la prima volta di una regista donna: Emmanuelle Bercot, che ha presentato il suo LA TETE HAUTE (titolo internazionale STANDING TALL).

Circostanza che non mi ha tuttavia impedito di poter vedere il film, programmato anche altrove da oggi lungo le altre sale delle città limitrofe.

“La tete haute” è un film atipico per aprire un festival: un film d'alto valore civico, morale e civile: una presa di coscienza di un senso di responsabilità che spesso, troppo speso, viene considerato un solo appannaggio della famiglia nei confronti dei figli da far crescere adeguatamente per potersi fare strada nel mondo fuori che li aspetta impietoso. Quasi un film da Quinzaine, magari lodevole se si pensa all'inutilità di biopic come Grace di Monaco delo scorso anno, e che in un certo senso e con un tono più drammatico e duro, ricorda quel Les Combattants che l'anno scorso trionfò proprio in questa sezione collaterale.

“L'educazione è un diritto fondamentale. Esso deve essere assicurato dalla famiglia, ma se essa non vi provvede, spetta alla società assumersene l'onere”.

Questo è, in sintesi, il nocciolo essenziale, il problema cardine sollevato dal film della Bercot, che ci racconta il tortuoso e funestatissimo percorso educativo vissuto da parte di un ragazzo di nome Malony; un ribelle cresciuto da una madre giovanissima che non ha potuto né saputo instillargli alcun valore o amor proprio, né senso del dovere o civico che abbiano potuto responsabilizzarlo durante la crescita.

Una giudice minorile vicina alla pensione (Catherine Deneuve) ed un educatore tenace ed instancabile (Benoit Magimel), tentano in ogni modo di salvare il ragazzo da una condanna che lo porterebbe ad entrare ed uscire di prigione, giù verso un abisso impossibile da scavalcare e mettersi alle spalle.

In un via vai tra trasferimenti in ostelli della gioventù sperduti nella bucolica realtà di una Francia contadina legata all'agricoltura intensiva, attività che caratterizza gran parte del suo territorio dell'entroterra, ed istituti di correzione, tra sbandate di testa ed isterie ingovernabili, forse alla fine il ragazzo riuscirà a capire sulla sua pelle il vaore della famiglia e le responsabilità che gli competono quando da ragazzo e figlio diviene genitore precoce e per nulla deliberato o programmato.

La tete haute ha mille motivi per essere un film dai nobili intenti e dalle lodevoli tematiche. Tuttavia l'interrogativo di quante altre pellicole sino ad oggi inerenti le medesime tematiche siano riuscite a colpirci e restarci più nel cuore, cresce a dismisura solo a rifletterci brevemente: dai Dardenne in alcuni loro capisaldi, a Munzi di Saimir, a quello tesso splendido Le dernier coup de marteau visto a Venezia 2014 in Concorso, e chissà quanti altri ancora, senza scomodare Truffaut e il suo imberbe e primo Antoine Doinel.

Insomma, non per fare i soliti polemici o i maliziosi, ma se questo film della Bercot non fosse stato francese, penso che nella sezione ufficiale, nonostante i pur lodevoli intenti sopra menzionati, non sarebbe neanche stato preso in considerazione.

VOTO ***

 

Nei dintorni oggi ho visto altri tre film che non c'entrano nulla con Cannes, ma, trattandosi pur sempre di “cinema oltreconfine” ve ne parlo brevemente qui di seguito, anche perché almeno due dei tre sono davero molto belli e riusciti.

 

Il primo si intitola, qui in Francia, UNE FEMME IRANIENNE (Facing mirror è il più interessante titolo internazionale) e porta la firma del regista iraniano esordiente Negar Azarbayjani. Il film, datato 2011, narra dell'incontro tra una tenace giovane donna e madre di famiglia di nome Rana che, all'insaputa dei membri della sua famiglia, di giorno guida un taxi per raccimolare i soldi necessari a far scarcerare il marito,finto in prigione dopo che il suo socio è scappato col malloppo lasciandolo pieno di debiti e destinato alla bancarotta.

Per caso la dona incontra ed accompagna in un lungo percorso fuori Teheran una giovane di nme Adineh: un tipo strano, dall'incedere mascolino, che si scopre sta cercando di scappare dall sua ricca famiglia che la vuole costringere a sposare un cugino addirittura il giorno seguente. La ragazza infatti è un transessuale che cerca di espatriare in Germania per sottoporsi all'operazione definitiva che la renderà uomo. La tradizione della giovane tassista, rigorosa con i dettami di vita imposti, soprattutto alla donna, da una società inflessibile come quella musulmana iraniana, si scontra con la eccentrica necessità di riprendere a respirare trovando la soluzione definitiva di un inaccettabile status che non si riesce più a sopportare.

E se subito la taxista ammonisce la giovane con “tu stai facendo qualcosa che va contro Dio e la natura e dunque stai peccando”, poi pian piano la donna si rende conto della legittimità del desiderio di quel mancato uomo che ora si fa chiamare Eddie.

Facing Mirrors è una ulteriore conferma dello stato di salute miracoloso e invidiabile in cui versa il cinema iraniano, che pur vessato da un regime spesso ostile se non censurante, e costretto a budget di fortuna, sforna ogni volta opere che sfiorano il capolavoro.

Prima di Taxi Teheran di Pahahi, un altro film incentrato, almeno parzialmente, su un taxi e sulle storie che un incontro fortuito riesce a creare e portarsi dietro, fino ad un sofferto lieto fine che apre le porte della speranza per due donne sofferenti che invidiano reciprocamente il proprio status e la propria posizione, sociale e familiare.

VOTO ****

 

LE JARDIN DU ROI ( da noi sarà Le regole del caos).

A fine '600 il Re sole dà incarico al suo fidato architetto Le Notre di occuparsi della costruzione della sua dimora in Versailles, dedicandosi in particolare alla costruzione degli splendidi giardino che ancor oggi stupiscono l'occhio più smaliziato per la perfetta simmetria e distribuzione armonica degli spazi e delle distanze.

Tra i collaboratori scelti dall'uomo, freddo, diffidente e poco socievole, finisce per spuntarla il personaggio sulla carta meno avvezzo ad ispirare larchitetto: per di più donna, Sabine De Barra ha una concezione della struttura del giardino senz'altro ad accumulo e suggestione, che, almeno in apparenza, comunica accumulo e disordine emozionale, caratteristiche decisamente avverse al carattere del sovrano.

Tuttavia anche una certa attrazione fisica esercitata dalla avvenente progettista, unita ad una non consueta concezione dell'organizzazione geometrica degli spazi verdi come si concepivano in quell'epoca di dimore principesche e smisurate, le farà spuntare sulla concorrenza, il titolo di responsabile della progettazione e dei lavori, favorendo altresì lo svilupparsi di una storia d'amore tra Sabile e Le Notre che renderà osteggiata la presenza della donna a corte, nonostante il successo esercitato dal difficile lavoro di progettazione e costruzione, che renderà entusiasta l'esigente re di Francia.

Alan Rickman, attore spesso molto bravo e non nuovo a passare dietro alla macchina di regia, dirige un film in costume piuttosto tradizionale (se non addirittura convenzionale) dove le ricostruzioni d'ambiente divengono l'occasione per filmare scenografie e ricostruzioni un po' statiche e laccate sino all'improbabile. Brava Kate Winslet, come del resto quasi sempre succede, un po' statico e rigido appare invece l'imbellettato e lunghi capelli Matthias Schoenaerts, che pare troppo inutilmente assorto per risultare credibile.

Insomma ci troviamo anni luce lontano dal Greenaway meraviglioso e numerologo de Il mistero dei giardini di Compton House, per ritrovarci dalle parti del prodotto hollywoodiano su commissione, stilisticamente impeccabile ma qualitativamente u po' piatto.

VOTO **1/2

 

LABYRINTH OF LIES, in francese Le labyrinthe du silence, mette n scena le tenaci indagini di un ambizioso e giovane procuratore legale Johann Radmann per far luce sulle ragioni del “silenzio” e delle “bugie” che hanno coperto e riabilitato come se nulla fosse successo, tutti i responsabili dell'eccidio di massa perpetrato dai nazisti ai danni dell'intero popolo ebraico, qui con particolare riferimento agli atroci episodi di sterminio presso Aushwitz.

Ambientato quattordici anni dopo la fine dell'Ultima Guerra (sono i tempi di ambientazione e in cui fu girato Hiroshima Mon Amour di Alain Resnais), il film del cineasta e produttore di origini italiane Giulio Ricciarelli, ma interamente prodotto in Germania, Labyrinth è un riuscito e rigoroso tuffo nel passato nei meandri di una società con la coscienza sporca che decise di dimenticare e non rivendcare alcunché. Un gesto nobile ma inaccettabile da parte di una comunità che cerca di reagire e ricostruire dove tolto, con il volto pacifico della tristezza per chi non ce l'ha fatta, mentre gli Americani considerano tutti questi sforzi un inutile perdita di 

tempo quando il nemico numero uno e su cui concentrare tutti gli sforzi è l'Urss e la minaccia concreta è la Guerra Fredda che proprio in quegli anni comincerà a nascere e a svilupparsi in totale clandestinità.

Ottime e curatissime ambientazioni e scenografie, ed un bravo attore, il biondo ed affascinante Alexander Fehling nei panni del giusto che non riesce ad accettare e a far dimenticare, facendo passare per impuniti molti dei feroci, sadici aguzzini, una delle più atroci malefatte umane della storia.

VOTO ****

 

A domani, sperando di potervi riferire qualcosa di cinematograficamente interessante dalla Croisette.

 

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