"Appunti veloci e primo impatto sul cinema che ci precede, su quello che ci sfiora, o addirittura ci evita; film che attendiamo da tempo, quelli che speriamo di riuscire a vedere presto, ma pure quelli che, temiamo, non riusciremo mai a goderci, almeno in sala."
Cannes ed il suo Festival più noto e celebrato al mondo sono alle porte:
-Notizie belle: ci saranno, in ogni rassegna, film di autori straordinari da cui è lecito aspettarsi grandi cose;
l'Italia finalmente ha avuto modo di farsi valere per quantità e, probabilmente, per qualità in relazione alle note pellicole selezionate per il concorso e fuori concorso (manca solo una presenza alla Quinzaine, che da qualche anno si dimostra avara col cinema italiano: pazienza); inoltre quest'anno sono finalmente riuscito ad ottenere il tanto agognato pass "cannes cinefils" che, salvo imprevisti, e pur non "potente" come il pass della stampa, dovrebbe consentirmi qualche accesso finalmente anche alla sezione principale, senza costringermi alla sola e pur lodevole Quinzaine, alla quale prendo parte da oltre vent'anni.
-Notizia brutta: per la proiezione serale è rigorosamente richiesto abito da cerimonia: dunque per l'uomo "tenue de soirée" di nero smoking: per me che conto, specialmente i primi giorni, di presidiare le proiezioni già dal mattino presto, con appoggio base in un hotel distante almeno otto chilometri dal Palais du Cinema, l'idea di indossare l'abito nero sin dal mattino mi risulta ostica e snervante: a me poi, perennemente sul campo ed abituato all'informalità meravigliosa ed opportuna di festival eccezionali come Torino e Locarno, dove 6/7 film al giorno sono la regola, tutta questa vuota ed inutile, così poco cinefila formalità, mi lascia sconcertato e perplesso.
Ma per il cinema saprò adeguarmi facendo di necessità virtu.
Ecco qualche news tra le ultime arrivate ad aggiornare noi massa partecipante a vario titolo:
e ancora
NEWSLETTER # 18 - 9 MAI FESTIVAL J-4 |
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Une Palme d’honneur à Agnès Varda |
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Une Palme d’or d’honneur sera remise à Agnès Varda lors de la cérémonie de Clôture du 68e Festival de Cannes. A ce jour, seuls Woody Allen, en 2002, Clint Eastwood, en 2009, et Bernardo Bertolucci, en 2011, se sont vu remettre cette distinction suprême, au nom du Conseil d’Administration du Festival de Cannes. Elle est attribuée à un réalisateur de renom, dont l’œuvre fait autorité dans le monde mais qui n’a pourtant jamais reçu de Palme d’or. Agnès Varda est la première femme réalisatrice à recevoir le précieux trophée : elle note avec son humour légendaire « Et pourtant, jamais mes films n’ont approché le nombre d’entrées des leurs ! » |
e infine per completare il quadro delle Giurie presenti:
NEWSLETTER # 17 - 7 MAI FESTIVAL J-6 |
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Jury Un Certain Regard |
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Depuis 1978, Un Certain Regard est au cœur de la Sélection officielle avec la Compétition. Présidente Membres du jury Dix-neuf films sont en lice au Certain Regard dont l’Ouverture a lieu jeudi 14 mai, avec la projection de An de Naomi Kawase. L’an dernier, le Jury Un Certain Regard était présidé par le réalisateur argentin Pablo Trapero qui avait donné le Prix Un Certain Regard à Kornel Mundruc?o pour White God et le Prix du Jury à Ruben Östlund pour Snow Therapy. |
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Jury de la Cinéfondation et des Courts métrages |
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Le Jury de la Cinéfondation et des Courts métrages, créé en 1998, réunit cette année autour de son président Abderrahmane Sissako (Mauritanie), la cinéaste Joana Hadjithomas (Liban), la réalisatriceRebecca Zlotowski (France), l’actrice Cécile de France (Belgique) et l’acteur Daniel Olbrychski(Pologne). Le Jury aura à décerner trois prix parmi les 18 films d’étudiants d’écoles de cinéma présentés dans la Sélection Cinéfondation. Le Jury devra également désigner la Palme d’or du Court métrage parmi les 9 films sélectionnés en Compétition. La Palme du Court sera remise lors de la cérémonie de Clôture du 68e Festival de Cannes, dimanche 24 mai. |
Ma ora parliamo di cinema visto in sala: film d'autore stupendi, belli o almeno interessanti, tra registi notissimi e meno conosciuti in attesa di farsi strada nel meraviglioso mondo della settima arte.
L'uomo ideale è, se riesco ad entrare nell'immaginario collettivo di una media di appartenenti al sesso femminile, un individuo attraente, curato, talentuoso, affascinante, con un livello di cultura che riesce a condividere con gli altri riuscendo ad esprimere il suo sapere e ad incantare chi lo segue con la magia delle parole, meglio se scritte.
Mathieu ha venticinque anni, è alto e slanciato, gradevole d'aspetto, senza quattrini ma convinto di avere un talento tutto suo nella scrittura, e per tal motivo proteso a divenire famoso sperando che qualche editore apprezzi le bozze che instancabilmente di appresta a ricavare dalla sua mente laboriosa e perennemente attiva.
Intanto lavora con un parente per una ditta di trasporti, fino al giorno in cui, sgombrando la vecchia casa di un anziano appena deceduto, trova per caso un manoscritto sigillato e, incuriosito, se lo porta a casa iniziando a leggerlo: un diario di un soldato impegnato nella guerra D'Algeria, diviene un'epopea mozzafiato che il ragazzo divora lungo tutta una notte insonne: un romanzo a tutti gli effetti, dotato di una presa narrativa e di una scrittura incisiva ed incalzante che attanaglia e incolla al manoscritto. E soprattutto un'opera intima rimasta segreta per un autore solitario ed apparentemente senza eredi. Un'opera dunque che egli potrebbe spacciare per sua, inviandola ad una casa editrice quasi per mettersi alla prova. Il romanzo non solo viene pubblicato, ma il successo lo trasforma in uno scrittore di grido, ricercato ed osannato, lodato dalla critica; incontra una giovane avvenente critica letteraria e se ne innamora, andando a vivere con lei nella sontuosa villa dei genitori in riva al mare della Costa Azzurra, godendosi fama e ricchezza, e cominciando ad arrovellarsi per creare un'opera seconda che possa in qualche modo non tradire le febbricitanti attesa di pubblico e critica, che sembra ogni mese che passa lo metta al muro per richiedere l'opera di conferma.
Strutturato come un noir, con tanto di omicidio e di ricatto subdolo da parte di un figlio delinquente dell'autore deceduto, che appare dal nulla e getta in una spirale di violenza e malaffare l'avventato protagonista, UN HOMME IDEAL è un thriller dalla storia già vista e letta in molte altre occasioni: girato con una certa cura e nella tradizione del giallo, che prevede spesso ,come in questo caso, un incipit a ¾ della vicenda, nel momento culmine della massima disperazione o difficoltà, èer poi ricominciare dall'inizio con l'evolversi naturale della vicenda e procedere con una chiusura più o meno a sorpresa.
Piatto forte del film, la presenza nel momento di massima popolarità per l'attore Premio Cesar 2015 per Yves Saint Laurent, Pierre Niney (de la Comédie Francaise), affascinante quanto basta per riprendere un ruolo dannato alla Delon o alla Belmondo. Le si affianca l'incantevole Ana Girardot in una girandola di follia da successo e megalomania cui fa seguito il momento del sospetto e un precipizio apparentemente senza ritorno per il nostro tormentato protagonista.
Regia curata e minuziosa di un certo Yann Gozlan, all'opera seconda dopo l'horror Captifs, che non riesce ad essere originale o dirompente, ma si limita a giostrare la tensione narrativa in un piacevole accumulo di situazioni forti rendendo la pellicola un drammatico viaggio verso l'abisso.
VOTO ***
Il ritorno di Wim Wenders ad un cinema a soggetto fa restare un po' sul chi vive, dopo i non eccelsi risultati delle sue precedenti recente esperienze, che si contrappongono al fine ed interessantissimo lavoro nel capo del documentario, ultimo su tutti quello dedicato alla figura e all'opera del fotografo Salgado (Il sale della terra). Presentato in Concorso a Berlino 2015, EVERY THING WILL BE FINE è incentrato anche stavolta, come nel caso del film francese precedente, su uno scrittore famoso, questa volta per meriti opportunamente guadagnati sul campo e non farina del sacco altrui.
Il film è incentrato sulla arcinota e molte volte trattata elaborazione del lutto, che coinvolge lo scrittore in seguito ad un incidente stradale durante il quale, seppur in circostanze non dipendenti da sua responsabilità, egli uccide involontariamente, investendolo, un bambino di pochi anni mentre questi gioca imprudentemente col fratello più grande sulla slitta nei pressi del ciglio stradale di un tratto di campagna poco frequentato.
La vicenda fa si che l'uomo (James Franco) rimanga in contatto con l'eccentrica madre del bambino (chi meglio di Charlotte Gainsbourg poteva interpretarla?) e il figlio sopravvissuto, che nell'arco di dodici anni diviene un ragazzo adulto e incrocia, non senza premeditazione, la vita dello scrittore, nel frattempo in crisi con la sua donna (Rachel Mc Adams) e angosciato dalla responsabilità che lo attanaglia e costringe a redigere, seppur mentalmente, un bilancio molto severo o cupo della propria esistenza apparentemente privilegiata di uomo di successo.
Quella del grande autore tedesco è certamente un'opera sentita e diretta con le migliori intenzioni, che tuttavia non si traducono proprio in un prodotto memorabile ai livelli di quanto ci ha abituato l'autore dagli anni Settanta ai Novanta. James Franco risulta sempre un po' troppo sottotono, quasi incupito e catatonico per risultare convincente e credibile, e la storia procede in un arco temporale che non appare credibile o concorde con il naturale inevitabile invecchiamento dei suoi tormentati protagonisti. Più dubbi che perplessità insomma, confermando che Wenders rimane un grandissimo soprattutto quando mette da parte la fiction per dedicarsi al documentario.
VOTO **1/2
Spostiamoci oltreoceano in America Latina, per affrontare un bellissimo film dal titolo GENTE DE BIEN, opera prima del colombiano Franco Lolli, presentato alla Semaine de la Critique al Festival di Cannes 2014 con un buon riscontro di critica. Una storia di ordinaria povertà, di bontà ricevuta e mal riposta o sciupata da un carattere forte che, unita alle circostanze crudeli della vita, finisce per far gettare via ad un bambino decenne, la possibilità di un futuro meno incerto presso una agiata famiglia della ricca borghesia. Ma andiamo per ordine: Eric ha dieci anni ed un grosso cane che ama come un fratello: l'idea di doversi trasferire con la madre dal patrigno che non può accudire quel grosso animale, spinge il ragazzo ad accettare di andare a vivere col padre naturale, un piccolo falegname che vive nell'indigenza ed un lavoro saltuario e mal retribuito.
Tuttavia una donna ricca alla quale l'uomo sta ristrutturando casa, si impietosisce e si offre di ospitare il ragazzo a casa sua per farlo giocare con il proprio bambino di poco più grande, farlo studiare, ed ospitarlo a passare il Natale e le vacanze nella splendida residenza di campagna che la famiglia condivide con altri parenti fuori città.
Il padre li segue lavorando anche nella casa di villeggiatura, ma presto l'insofferenza lo coglie e fa ritorno in città assieme al cane, che nel frattempo si ammala.
Deriso dai suoi coetanei ricchi e snob, Eric si ribella e si scatena fino a che la donna è costretta a riportarlo dal padre nella triste sua dimora metropolitana. Intanto la vita del cane è appesa ad una scelta difficile ma inevitabile da prendere, e il ragazzo anche grazie al dolore di una perdita importante, riuscirà a maturare la consapevolezza che la vita va presa al volo nelle scelte e nelle opportunità, di per sé già molto sporadiche, che essa è in grado di offrirci lungo la nostra tormentata avventura terrena.
Un film dai toni e tratti neorealistici a cui tanto e bene ci ha abituato molto cinema sudamericano.
Il film è piccolo e potente, interpretato benissimo da un ragazzino che non eccede in vezzi ma rimane ancorato alla vita reale dell'ultimo gradino sociale del macrocosmo colombiano della metropoli. Un film che lascia il segno e commuove, abbaglia per la bellezza del messaggio che ci lascia nel cuore e per la purezza e la stretta aderenza alla realtà che trasuda in tutta la pellicola.
VOTO ****
Per restare nell'ambito del ceto popolare, ci trasferiamo nuovamente in Europa e precisamente in Germania per parlare di un altro bel film, intitolato JACK, dal nome del suo giovane e responsabile, assennato protagonista. Opera terza del tedesco Edward Berger, racconta le drammatiche incredibili vicissitudini di un altro ragazzo decenne, responsabilizzato e reso indipendente dall'indolenza e dalla mancanza di senso di responsabilità di una madre debole e scostante, ed un padre pressoché ignoto o al massimo presunto.
Ogni mattina il ragazzo si alza per preparare la colazione al fratello e per aiutarlo a vestirsi per la scuola, ove provvede al accompagnarlo prima di frequentare lui stesso le lezioni.
Quando la scellerata immatura madre omette di andare a prendere Jack a scuola, costui viene affidato ai centri sociali e chiuso in una struttura per orfani. Terrorizzato e sottoposto a maltrattamento da parte di un vicino di stanza più grande che lo sevizia ripetutamente con sadismo e cattiveria, Jack scapperà presto dalla struttura e, riuscendo a riprendersi in custodia il fratellino minore, inizierà a vivere una drammatica avventura metropolitana di sopravvivenza e stenti avendo sempre come riferimento la porta di casa, perennemente chiusa senza disporre delle chiavi, in mano alla madre sparita nel nulla nei suoi loschi giri.
Un film appassionante questo Jack, diretto senza smancerie ed ammiccamenti inutili da un regista che rimane in contatto con il crudo realismo della civiltà del cero meno abbiente, puntando l'attenzione sull'innaturale e quasi eroico senso di responsabilità, prematuro e alimentato dall'istinto di sopravvivenza, di un ragazzino che le circostanze drammatiche costringono a divenire adulto prima del tempo.
VOTO ****
Interessante, barocco e accattivante esordio dietro la macchina da presa da parte dell'attore e divo Ryan Gosling con LOST RIVER, accolto tra perplessità e vena polemica a Cannes 2014, ove fece capolino nella sezione del Certain Regard.
Lost River è una cittadina della grande periferia americana, situata nei pressi di un oscuro lago che nasconde una città volontariamente annegata negli abissi e spostata più a monte per via di una diga. Una madre single in difficoltà economiche (la fulva Christina Hendricks) si convince a partecipare ad uno spettacolo in un macabro ed eccentrico club per sadomasochisti, improvvisandosi coinvolta in situazioni surreali al limite del raccapricciante e dell'orrore, per il pubblico ludibrio di un pubblico plaudente ed appassionato. Il figlio adolescente (Iain De Caestecker, bravo giovane attore già visto in Shell e dai tratti accattivanti che piacerebbero al cinema di Araki) intanto girovaga per la città accudendo il fratellino e intrigandosi in un rapporto di complicità con una giovane coetanea (Saoirse Ronan) soprannominata Rat per il suo portarsi dietro sempre un piccolo criceto da compagnia, che accudisce la nonna ,vecchia star del cinema ormai rinchiusa in un mondo di ricordi e di irrazionale attaccamento al passato (è la grandissima Barbara Steele), cercando di evitare di incontrare il brutto ceffo della zona, un certo Bully, psicopatico che annuncia pubblicamente di volerlo eliminare dopo che il ragazzo è riuscito a sfuggirli con un bottino di rame trafugato tra i detriti pericolanti di un centro abitato in via di estinzione e di degrado.
Tanta carne al fuoco, probabilmente troppa, ma lo stile sovraccarico, i colori accesi che vanno dal verde intenso dell'erba incolta ed ingovernabile che affiora tra le case in rovina e semi abbandonate, ed il rosso del sangue (finto ma vero più del vero) che scorre tra i palchi dello show degli orrori messo in scena ogni volta nel club (la star più acclamata ha il volto – spesso mozzato – di Eva Mendes, compagna dell'attore/regista, qui in una eccentrica e divertente apparizione-cameo), rende il film un'opera interessante, una storia di riscatto, una favola noir cupa e sanguigna che prevede la scoperta di mondi sconosciuti e sommersi ove si nasconde la chiave del riscatto sociale ed economico dei nostri sventurati e scapestrati eroi di tutti i giorni.
Tanta, troppa ambizione, omaggi ad autori amati che abbondano di citazioni o riferimenti, uno su tutti riferito apertamente dall'autore e diretto verso il regista del cuore di Gosling, ovvero Nicolas Winding Refn, ma anche il Lynch di Velluto Blu è certamente un chiodo fisso; un pizzico di incoscienza che tuttavia mi fa propendere per un'opera interessante e vitale di cui riesco ad apprezzarne più i vantaggi e gli interessanti spunti, che le ingenuità e le cadute di tono.
E soprattutto lo specchio desolato ma ancora vitale di un'America che si sta letteralmente sgretolando verso l'abbandono dei centri periferici per confluire nell'anonimato incolore delle immense metropoli, regno dell'opportunità e dell'arrivismo, e coronamento di un sogno americano che sembra ormai sempre più un miraggio lontano.
VOTO ***1/2
Termino questa carrellata cinefila che precede il Festival di Cannes 2015 con l'ultima e nuovamente clandestina opera del cineasta più perseguitato e censurato al mondo: stiamo parlando dell'iraniano Jafar Panhai e del suo film TAXI TEHERAN, meritatamente premiato con l'Orso d'Oro all'ultimo Festival di Berlino. Il regista assume per l'occasione i falsi panni di tassista e, caricando a bordo della sua autovettura una serie di persone lungo tutta una giornata, cattura e restituisce caratteri, personalità, storie e punti di vista riguardo ad una società oppressa dall'impossibilità di far valere le proprie opinioni, perché schiava di un regime assoluto che ne limita libertà e diritti inalienabili.
Una telecamera seminascosta e mobile apposta sul cruscotto, punta i volti dei passeggeri: alcuni parlano liberamente esprimendosi in merito a usi e costumi della società in cui vivono e li circonda, in particolare su aspetti legati al matrimonio e al divorzio in rapporto al differente e sperequato trattamento riservato ad uomini e a donne), altri riflettono su situazioni inerenti la salvaguardia di diritti che per l'occidente si considerano consolidati ed inalienabili; poi il regista, riconosciuto, carica a bordo un'attivista che si batte per la tutela di alcuni individui incriminati e reclusi per oltraggio al comune senso del pudore tra cui una ragazza imprigionata per aver assistito ad una partita di football, prerogativa tassativamente riservata ad un pubblico maschile.
Poi è la volta della piccola figlia del regista, che, macchina alla mano, confida al padre che la maestra ha dato alla sua classe il compito di girare un piccolo film nell'arco del fine settimana, circoscrivendo alcune regole inviolabili, quasi un “dogma” che rispetti i dettami della legge coranica e del mondo islamico comunemente appannaggio del paese: condizioni che divengono una costrizione ed una minaccia alla libertà di espressione, come il geniale regista ci dimostrerà nel piccolo video che la bambina avrà occasione di girare mentre si trova ad aspettare il padre, seduta nel sedile posteriore dell'auto, ed intenta a filmare un ragazzino povero che trova per terra dei soldi di una coppia di neo sposi, incitandolo quindi a restituirlo affinché il suo film possa avere un messaggio positivo, condizione necessaria e fondamentale tra i molti dettami previsti da quella forma di censura che si manifesta già dalle scuole inferiori.
Poi la realtà supera l'immaginazione quando padre e figlia, assentatisi un attimo, sono sottoposti ad uno scippo dell'auto e della annessa cinepresa.
Come a puntare il dito su un fenomeno concreto di criminalità che si abbatte sul già difficile mondo di chi ha il talento e la possibilità di documentare una grave situazione di disagio ed una vera e propria minaccia per la salvaguardia dei diritti basilari dell'esistenza umana, che è costretto a far fronte anche ad un problema concreto di micro-criminalità, altro tassello verso una deriva che ci comunica, dietro una parvenza di ironia e un clima quasi allegro o comunque volutamente rilassato, una visione davvero cupa per le sorti della democrazia in una regione del pianeta dove integralismo e oscurantismo stanno soffocando ogni più umano e sacrosanto sussulto di rivendicazione delle libertà di pensiero e di espressione.
Un piccolo film girato con nulla, ma potente e geniale, girato nello stile di “Dieci” del maestro dell'autore e più famoso autore iraniano Abbas Kiarostami, con cui tanto ha collaborato Panhai e dal quale il nostro ha saputo trarre le tecniche e la classe registica con cui, anche in condizioni di fatto impossibili, il cineasta riesce a incantarci e a farci riflettere in modo dirompente e, viste le drammatiche circostanze personali che lo affliggono ormai da anni, dopo reclusioni e l'attuale libertà vigilata, in grado di commuoverci e straziarci il cuore.
VOTO ****1/2
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