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OLTRECONFINE (9): HARD TO BE A GOD: L'ULTIMO INCREDIBILE FILM DI ALEKSEI GERMAN, DOPO IL LEGGENDARIO STALKER DI TARKOVSKJI: STESSI AUTORI, STESSA FANTASCIENZA RETRO' AFFASCINANTE SEPPUR NON FACILE DA ASSIMILARE. ALTRE USCITE E NEWS ABOUT CANNES
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"Appunti veloci e primo impatto sul cinema che ci precede, su quello che ci sfiora, o addirittura ci evita; film che attendiamo da tempo, quelli che speriamo di riuscire a vedere presto, ma pure quelli che, temiamo, non riusciremo mai a goderci, almeno in sala."

 

Il Festival di Cannes è ormai vicino: a giorni conosceremo le scelte degli organizzatori circa i film che comporranno le varie sezioni. Per ora riassumiamo qualche informazione, raccolta dalle newsletter che quest'anno ricevo quasi quotidianamente:

NEWSLETTER # 7 - 25 MARS
FESTIVAL J-49
Festival de Cannes
 
Special Prices

Mad Max sur la Croisette

 

Mad Max: Fury Road, come ormai tutti sanno, sarà presentato alla Selezione Ufficiale Fuori Concorso il giorno 14 maggio al Gran Teatro Lumière, a trent'anni dall'ultimo episodio, quello con la Tina Turner  di We don't need another hero, sotto la regia, anche stavolta e per la quarta occasione, dell'australiano George Miller. 

Da quel giorno il nuovo Mad Max verrà distribuito nelle sale di mezzo mondo. Aspettiamo, più o meno trepidanti, senz'altro incuriositi.

Special Prices

Molti sapranno che Isabella Rossellini è stata scelta per presiedere la Giuria del Certain Regard, sezione ufficiale che comprende al suo interno una ventina di titoli che saranno svelati il giorno 16 aprile p.v.

NEWSLETTER # 9 - 13 AVRIL
FESTIVAL J-30
Festival de Cannes
 
Special Prices

La Tête haute d’Emmanuelle Bercot
en Ouverture du 68e Festival de Cannes

 

Forse non tutti sanno che, per la prima volta nella storia del Festival di Cannes, una regista donna sarà la protagonista dell'Ouverture du Festival. Si tratta, in particolare, del film della cineasta francese Emmanuelle Bercot dal titolo  La Tête haute (Standing tall), che darà inizio, mercoledi 13 maggio prossimo alla 68e édizione del Festival de Cannes.

 

NEWSLETTER # 10 - 15 AVRIL
FESTIVAL J-28
Festival de Cannes
 
Special Prices

Les Sélections de courts métrages
au 68e Festival de Cannes

 

Ed è con i cortometraggi in gara e con la selezione della Cinéfondation que che la Sélection officielle 2015 commenincia a essere presentata, in attesa dell'anteprima della "Conference de presse du 68eFestival de Cannes " che avrà luogo giovedi 16 avril. Segue testo originale...

 

Le Jury de la Cinéfondation et des courts métrages, présidé par Abderrahmane Sissako, récompensera à la fois les meilleurs films de la Compétition des courts métrages et ceux de la Sélection Cinéfondation à l’issue de leurs délibérations.

// La Compétition des courts métrages
Cette année, le comité de sélection a reçu 4 550 courts métrages, 1 000 de plus qu’en 2014, qui provenaient de plus de 100 pays de production.
La compétition des courts métrages 2015 est composée de neuf films (8 fictions et 1 animation), issus majoritairement d’Asie et d’Europe, avec un représentant pour l’Amérique (du Sud) et l’Océanie.
Ces films vont concourir pour la Palme d’or du court métrage 2015, décernée par Abderrahmane Sissako, Président du Jury, lors de la Cérémonie du Palmarès du 68e Festival de Cannes, le 24 mai prochain.

// La Sélection Cinéfondation
La Sélection Cinéfondation a choisi, pour sa 18e édition, 18 films (14 fictions et 4 animations) parmi les 1 600 qui ont été présentés cette année par des écoles de cinéma du monde entier. Seize pays venus de quatre continents y sont représentés. (...)
Les trois Prix de la Cinéfondation seront remis lors d’une cérémonie précédant la projection des films primés le vendredi 22 mai, salle Buñuel.

 

Newsletter # 11 - 16 avril
Festival J-27
Festival de Cannes
 
Special Prices

La Sélection officielle 2015

 

La Sélection officielle du 68e Festival de Cannes a été annoncée ce jeudi 16 avril au cours de la conférence de presse tenue par Pierre Lescure et Thierry Frémaux à l'UGC Normandie, à Paris

 

 

Ma veniamo a noi, ed ai film proposti ultimamente dalla programmazione in territorio francese:

Tra i film visti ultimamente nelle sale francesi, segnalo innanzi tutto un'opera eccentrica e originalissima che sfiora il capolavoro: HARD TO BE A GOD.

 

 

“Questa non è la Terra: è un altro pianeta, circa 800 anni indietro. C'erano pochi pianeti simili: questo era il più piccolo ed il più vicino. I grigi castelli della zona rievocavano l'antico Rinascimento. Così furono inviati li una trentina di scienziati. Ma il Rinascimento lì non si manifestò coma una semplice reazione verso qualcosa. Questo non avvenne quasi per nulla.

Nella capitale di Arkanar tutto iniziò con la distruzione dell'Università, e con una caccia agli intellettuali, ai sapienti, ai topi da biblioteca e agli artigiani talentuosi. Così loro fuggirono nella vicina Irukan, dalle squadriglie del Ministro della Sicurezza della Corona, i membri delle unità, autisti e faccendieri, vestivano di grigio, truppe grigie, ministro grigio.

La guardia reale fu messa da parte. Povertà, povertà...il regno della povertà!”.

Dell'incredibile, chiassoso, scatenato, destabilizzante HARD TO BE A GOD stiamo parlando! Ed in effetti la povertà, l'indigenza, l'ignoranza e la grettezza regnano sovrane in quel Medioevo tutto nebbie, nevischio, freddo e gelo ma soprattutto fango e sterco che non ci viene risparmiato già nelle prime inquadrature puntate su natiche intente ad evacuare e a farsi schernire da una guarnigione di soldati armati di ferraglia ed arma bianca d'ogni tipo.

La fantascienza affascinante, retrò, solo apparentemente povera, ma in realtà costruitissima dei fratelli scrittori russi Arkady e Boris Strugatsky si riaffaccia al cinema, al grande cinema d'un autore meraviglioso quanto misconosciuto, almeno in Italia, che è Aleksei German (o Guerman altrove), dopo il capolavoro di Tarkovskij e del suo Stalker, tratto dal romanzo Picnic sul ciglio della strada.

Mentre sulla Terra il comunismo ha reso tutti buoni, bravi e felici, su un pianeta lontano gli esseri umani scoprono una civiltà simile alla loro, ma relegata allo stadio di un tetro e oscuro Medioevo.

Il capo di una squadra di osservatori inviata dalla Terra per prendere visione senza intervenire su usi e costumi locali, trova nel condottiero Don Rumata l'ufficiale incaricato di scrivere un rapporto dettagliato sulle caratteristiche salienti di un popolo arretrato e greve, che vive con indolente ironia il disagio di una vita di stenti in un pianeta pieno di fango, acqua sporca e fetide tracce di una presenza di vita che comunica ripugnanza, scaltrezza e poca etica morale.

Un Dio, a tutti gli effetti, che tuttavia non può, su precise disposizioni, intervenire più di tanto, e si ritrova nella posizione scomoda di tendere ad educare ed insegnare, pur frenato dalle precise istruzioni che lo guidano in quella missione.

La fantascienza nelle opere dei due fratelli romanzieri russi si ispira qui ancora più che in Stalker al nostro passato remoto ma non certo preistorico, riproponendoci situazioni e momenti di vita che le perfette ricostruzioni scenografiche e la fotografia in uno sfavillante bianco e nero, rendono magiche, affascinanti, seppur non certo facili nel contesto di un film di quasi tre ore di durata: tre ore di indolenza, sarcasmo, cameratismi e crudeltà gratuite, dove una nuova umanità deformata e resa mostruosa dalle difficoltà di vita, riesce anche a prendersi in giro e a trarre vantaggio l'uno ai danni dell'altro, escludendo ogni minima fruttuosa possibilità di cooperazione volta al progresso e alla ricerca di un benessere comune.

Uscito nel 2013 postumo dopo la morte del grande regista, il film, già nel 2012 in predicato per il concorso a cannes, ha fatto la sua apparizione al Festival di Roma, fuori concorso ma non esente da premi, ed è uscito ora nelle sale francesi. Le possibilità di vederlo in Italia, nei cinema, ritengo siano nulle, come del resto successe per l'altrettanto folle e scatenato Krustaliov my car, penultimo film di una cinematografia scarna ma potente di uno dei registi più personali e talentuosi del panorama cinematografico russo.

VOTO****1/2

 

Vincitore a sorpresa durante la notte degli Oscar come miglior documentario, quando ormai da tutti era dato per favorito lo splendido ritratto wendersiano del noto ed ammirato fotografo Salgado ne Il sale della terra, CITIZENFOUR è certo un documentario, ma così accattivante per la sua trama gialla e spionistica che sembra quasi uno spy movie di ottima fiction: salvo scoprire che si tratta di pura verità, o quasi almeno. Una regista, che si fa sentire dietro la macchina da presa senza quasi mai apparire, nel corso delle riprese di un suo servizio inerente la sicurezza nazionale post 11 settembre, viene contattata, assieme ad un noto giornalista di nome Glenn Greenwald, da un misterioso individuo che comunica con una apparentemente incomprensibile scrittura crittografata, per rivelare importanti indizi su un ipotetico tentativo da parte dell'autorità la sicurezza nazionale, di captare e catalogare ogni discorso o messaggio, in modo che possa essere ascoltato o messo a disposizione per agevolare il riconoscimento di organizzazioni sovversive di stampo terroristico. Un 'azione che renderebbe, e di fatto ha reso, tutta la popolazione come un ammasso infinito di esseri sorvegliati da un Grande fratello di matrice orwelliana la cui ingombrante minacciosa presenza il celebre scrittore aveva già intuito in epoche decisamente non sospette. Il ragazzo che “vuota il sacco” pieno di inquietanti segreti che ledono ogni più conclamato e ormai condiviso principio di privacy, si rivelerà un ex collaboratore della Cia, il tenace Edward Snowden, che, nonostante l'accuratezza nel prodigarsi a mantenere segreta la propria identità, verrà smascherato e dovrà iniziare a fuggire e darsi alla macchia, accusato dal Governo Usa di aver minato alle basi della sicurezza nazionale con la divulgazione delle notizie in suo possesso.

Prodotto da quel genio furbissimo di Steven Soderbergh, il documentario della Poitras non può possedere la forza poetica del ritratto d'autore appassionato diretto da Wim Wenders, ma è caratterizzato da una narrazione concitata che inchioda allo schermo e si fa seguire come e più di una ottima e realistica fiction.

Presto nelle sale (poche poche invero) pure da noi. 

VOTO ****

 

Amori inespressi, non corrisposti, agognati senza che il coraggio per esprimerli, esplicitarli, possa almeno per un attimo chiarire una inadeguatezza sentimentale che passa oltre la giovinezza e scorre lungo tutta una vita, trascorsa con umiltà ed obbedienza a servire una famiglia agiata tra le mura di una graziosa casa dal tetto rosso, quella casa perfetta, quasi affettata, artificiosa, manierata, quasi fiabesca, che appare sempre come sfondo ed ambientazione, così diversa da tutte le altre della zona.

L'ottantaquattrenne instancabile regista nipponico Yoji Yamada dirige lo struggente e sentimentale THE LITTLE HOUSE, un film di stampo tradizionalista incentrato sulla figura di una giovane cameriera di nome Taki, proveniente dalla campagna che, impiegata come domestica in una casa borghese, diviene la testimone triste e sofferente, ma anche affidabile, di una storia d'amore clandestina tra la padrona di casa ed un giovane seducente musicista di cui la giovane risulta invano innamorata. Sullo sfondo di una sanguinosa guerra come fu il secondo conflitto mondiale, La maison au toit rouge (questo il titolo dell'edizione francese) è un accorato, sentito ritratto di una figura femminile che sceglie suo malgrado di vivere per gli altri; ed è anche la storia di un riscatto tardivo rivendicato dai nipoti della donna dopo la morte di quest'ultima.

Tratto dall'omonimo romanzo di Kyoko Nakajima, The little house è un melodramma fine e raffinato, forse un po' prevedibile, ma di innegabile presa, che si è guadagnato all'ultimo Festival di Berlino l'Orso d'argento alla migliore protagonista, premio andato all'interprete della giovane cameriera Taki, Haru Kuroki.

VOTO ***1/2

 

Pure lui, come il precedente giapponese e il russo di cui all'inizio, tratto da un noto romanzo - in questo caso da parte di uno dei più celebrati scrittori contemporanei statunitensi, Philip Roth – THE HUMBLING, ovvero L'Umiliazione, segna il ritorno alla regia del premiato celebre cineasta Barry Levinson, sempre piuttosto attivo al cinema, ma ultimamente piuttosto lontano dalla forma che lo ha reso uno dei registi più ammirati, quantomeno dall'Academy hollywoodiana.

The Humbling significa anche il ritorno trionfale, sul tappeto rosso del Lido tra la folla in estasi, di Al Pacino, star celebrata e meritatamente riverita proprio all'ultima Mostra del Cinema veneziano del 2014, dove il suo film fu presentato ad inizio manifestazione, così all'inizio da impedirmi di vederlo in quella eccezionale occasione ufficiale.

E chi meglio dell'indomito leone italoamericano quale è il nostro baricentrico attanagliante attore Pacino poteva rendere con tale millimetrica precisione i tic, le espressioni scorate, ma anche ironiche, arrendevoli o ribelli, talvolta comiche, di un anziano famosissimo attore di teatro che, dopo una serie di buffi malintesi, viene colto da un grave attacco di panico che lo porta pure a procurarsi una brutta e pericolosa caduta dal palcoscenico, sotto lo sguardo senza parole, quasi attonito, di un pubblico avvinto, incredulo, ma completamente catturato dallo show nello show.

Dal ricovero conseguente in una clinica specializzata in malesseri della mente, il celebre divo Simon Axler troverà (o ritroverà dopo anni di calma piatta) i pulpiti di un'amore e di un erotismo giovanili in quel momento davvero inconsueti ed imprevedibili, grazie all'incontro del protagonista, con una giovane vicina lesbica che tuttavia pare rimanere particolarmente affascinata dalla figura decadente e decaduta del vecchio attore. E Greta Gerwig è molto brava, indispensabile, o almeno necessaria ad interpretare una figura femminile approfittatrice ed egocentrica, fedele più in onore del compromesso piuttosto che per assecondare i legami effettivi e lancinanti del cuore che l'ormai anziano mattatore di ritrova a recitare per se stesso, più che per il suo pubblico.

Un film d'attori, straordinari, carismatici, più che di regia, che tuttavia trova in Barry Levinson un direttore discreto ed attento a tenerli in riga, senza farli debordare (troppo) nella maniera, ma senza rinunciare a momenti strepitosi di cinico umorismo a tratti irresistibile, come nella scena dell'iniezione dal veterinario, con le sue lancinanti e dolorose premesse ed i relativi esilaranti, devastati post da sovraddosaggio di antidolorifici per animali, con gonfiore della lingua e secchezza delle fauci che rendono il nostro mattatore uno zerbino finalmente arrendevole e domato.

VOTO ***1/2

 

In VOYAGE EN CHINE, film francese di un misconosciuto (perché esordiente) Zoltan Mayer, la grandezza di un'attrice potente e dai tratti goffi, quasi fumettistici, ma indimenticabili come accade quando calca lo schermo il corpo massiccio ed importante di Yolande Moreau, sovrasta su tutto il racconto e l'ambientazione esotica, straniera e straniata, che coglie in una drammatica successione di eventi emotivamente intimi, una madre in procinto di andare a raccogliere le spoglie del proprio figlio deceduto lontano dalla terra natia.

Una donna francese non più giovanissima, viene informata della morte del figlio trentenne da tempo stabilitosi in Cina, in seguito ad un incidente stradale. Di getto la donna, devastata e stranita dal dolore, decide di partire per cercare di capire, di entrare in contatto con un mondo sconosciuto, quasi per riappropriarsi di un figlio da troppo tempo irrimediabilmente lontano, ora perso per sempre. L'emozione della perdita e dell'irrimediabilità dell'evento luttuoso trovano nell'espressività impressionate della Moreau lo strumento per evocare e rendere acuibile un dolore che diventa palpabile e che vale più di ogni altro sentimento o atto raccontato dal piccolo ma non trascurabile esordio registico.

VOTO ***

 

Restiamo nell'ambito del cinema francese d'autore per ritrovare un cineasta piuttosto puntuale e prolifico come Benoit Jaquot che, dopo il sin troppo intrigante ed artificioso Tre cuori, presentato a venezia 2014 in Concorso e già uscito nelle sale, torna al cinema di costume, lasciato poco prima con Les adieux à la reine, con JOURNAL D'UNE FEMME DE CHAMBRE (titolo internazionale: Diary of a Chambermaid). Le vicende professional-sentimentali di una bellissima cameriera che da Parigi, negli anni '20 si vede ceduta ad una ricca famiglia di anziani coniugi della Costa Azzurra, si traducono, come già avvenne in passato, in una frenetica rincorsa a scoraggiare i tentativi di avances sempre più esplicite da parte dell'anziato e un po' debosciato padrone di casa, e nel contempo di conquistare la fiducia della irascibile ed incontentabile moglie di costui, diffidente e supponente quanto basta per rendere sempre ogni piccolo incarico una sfida impossibile per la giovane volenterosa e servizievole cameriera.

L'attrazione, quella si genuina e appassionata, verso un ombroso e diffidente bracciante al soldo della famiglia, condurrà la giovane in territori vicini alla tragedia più fosca, trovando alla fine una svolta meno tragica di quanto le apparenze parevano condurre.

Léa Seydoux è l'espressione del vigore e della perfezione di una giovinezza che si esprime nella limpida linearità dei particolari, mentre un ruvido e taciturno Vincent Lindon le fa da degno, erotico e perfettamente contrastante contraltare di una coppia torrida e maledetta che riuscirà a scamparla laddove la situazione e l'imbroglio parevano portare nei pressi della forca.

Tetro, poco compiaciuto e forte di una rappresentazione dell'ambiente rurale e provinciale che non rinuncia ai particolari senza per questo risultare stucchevole, “Journal” mostra un carattere e una durezza che lo rendono un riuscito ritorno alla rappresentazione in costume da parte di un regista eclettico attento ai particolari e alle dinamiche delle vicende raccontare e rappresentate.

VOTO ***1/2

 

Oltre all'attesissimo e già citato imminente Mad Max, il ritorno al cinema della statuaria star Chalize Theron è preceduto da un thriller cupo e dai toni horror uscito proprio in questi giorni in territorio francese: DARK PLACES, del regista francofono Gilles Paquet-Brenner, noto soprattutto per il recente e non memorabile adattamento del best seller La chiave di Sara, è una produzione d'oltralpe che vanta in cast giovane ma di rilievo internazionale di tutto rispetto.

L'epilogo sinistro ci introduce, trent'anni addietro, nel momento misterioso e drammatico che ha preceduto una sanguinosa e sadica strage familiare, che ha visto sopravvivere ad un massacro domestico solo una bambina di nome Libby. Ritroviamo la stessa persona, ormai donna adulta, ai giorni nostri, solitaria e caratterialmente ancora instabile in seguito al trauma subito, affrontare le conseguenze che la coinvolgono quando un membro di un bizzarro club di appassionati di gialli di cronaca nera irrisolti, ricaccia la donna nel tunnel pieno di incubi e deliri da cui la donna aveva cercato di uscire e tenersi alla larga, aggrappandosi ad ogni compromesso pur di uscire da quella spirale senza via di scampo.

Da professionista seria e determinata come ci ha puntualmente abituato da anni, la Theron si impegna con tutte le forze e le intenzioni a restituirci la figura di una donna forte ma ferita in modo non rimarginabile. Peccato che tutto ciò che ruota attorno alla sua figura, a partire dai personaggi che compongono l'improbabile banda di appassionati ossessivi di cronaca nera, si dimostri una poco credibile sequela di personaggi impresentabili e decisamente poco credibili, tutti eccentricità e movenze isteriche che diventano già da subito insopportabile se non addirittura inaccettabili.

E il film, di conseguenza, lascia presto ogni sua parvenza horror o da incubo per svilirsi in una furba e scontata sequenza di colpi di scena che naufragano – più che far decollare – una pellicola che guarda al blockbuster, ma inciampa nella noia e nel ridicolo involontario.

VOTO *1/2

 

Concludiamo, per una volta, un po' in leggerezza, ma senza tenere da parte l'orgoglio, tutto francese, per nulla isolato e spesso foriero di successi e traguardi vicini ai talvolta fantasmagorici fasti hollywoodiani, parlando dell'ultima fatica (parola davvero appropriata in questo caso) dell'attore, in tal caso pure regista, Jamel Debbouze.

Di natali ed origini marocchine, il comico ed attore, notissimo in patria per l'istrionismo, le movenze nervose e un po' goffe, la parlata dalla cadenza fortemente etnica, ci sorprende, almeno dal punto di vista della tecnica cinematografica, producento, interpretando e dirigendo il primo film francese girato interamente con la tecnica del “motion capture!: in POURQUOI J'AI PAS MANGE' MON PERE (Evolution man): gli attori, quelli veri, girano le scene dietro sfondi disegnati e di cartapesta e completamente ricoperti da una tuta con sensori che assicurano poi, nel momento in cui i personaggi verranno “coperti” dal disegno animato, una fluidità e naturalità di movimento ed espressione che restituisce, almeno in parte, le fattezze e le espressività degli attori chiamati, con enorme sacrificio, a girare vestiti come dei marziani retrò ed in calzamaglia.

La storia, un po' da Re Leone un po' da Libro della giungla, di un neonato di scimpanzé, nato piccolo e debole da un parto gemellare che lo ha visto soccombere sul pasciuto fratello erede al trono di un popolo di primati della preistoria, e costretto ad adattarsi in seguito ad un incidente ad una zampa, a camminare eretto, fornendo l'occasione alla specie di evolvere, del tutto incidentalmente, ad uno stadio che porterà all'essere umano attuale, dà lo spunto al simpatico e dinamico attore e regista di sfoderare tutta la sua comicità fisica ed espressiva che il travaso in cartoon mantiene nei suoi tratti essenziali.

La storiella è semplice e quasi risibile, ma in qualche momento divertente, anche se greve o grossolana. Una circostanza che attenua la sensazione, a tratti palpabile, di trovarsi di fronte ad un piccolo grande esperimento un po' fine a sé stesso, frutto di una grande e testarda determinazione che non si ritrova del tutto giustificata in seguito alle fatiche titaniche derivanti da una produzione minuziosa e certamente molto costosa ed impegnativa.

Lanciatissimo e distribuito in molte copie, il film del comico francese, abbreviato con l'anagramma scioglilingua P.J.P.M.M.P , trasuda ambizione da parte del suo regista, irremovibile a voler recitare lui stesso con un costume ingombrante e pesante oltre 7,5 kg, indispensabile per ricorrere a molto di più di una semplice trasposizione animata tradizionale, che finisce per cancellare definitivamente quei tratti personali che invece il sofisticato sistema del “mp” invece riesce a restituire.

Sarà un successone o un fallimento, non esistono mezze misure nel crudele mondo delle scommesse cinematografiche azzardate e ambiziose come questa.

VOTO ***

 

 
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