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Bad Boy Charlie Hunnam. Sons of Anarchy e oltre.
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All’inizio credevo che fosse solo una riuscitissima copia carbone di Brad Pitt. In realtà, Charles Matthew Hunnam, classe 1980, di Newcastle upon Tyne, Tyne and Wear, Inghilterra, è una furia della natura, con segni attoriali propri, una tipologia di ruoli coerente e tanto sale in zucca.

Ricorda molto il Brad Pitt degli anni novanta, quello di Kalifornia (1993), Vento di passioni (1994), Se7en (1995), L’esercito delle 12 scimmie (1995) e ovviamente Fight Club (1999). Biondo, occhi azzurri, pizzetto grunge, inizialmente segalino e in seguito fisicato, anche a Charlie Hunnam come a Brad Pitt piace stare spesso a culo di fuori. Inoltre, come l’ex J.D. di Thelma & Louise (1991) ha una spiccata propensione per i ruoli da bad boy che, si sa, a noi uomini piacciono molto: donne, motori, alcol, pugni, nottate brave e avventure varie.

Prima di approdare al cinema con il curioso Che fine ha fatto Harold Smith? (1999) è passato per la televisione: My Wonderful Life (1996), un episodio in Byker Grove (1998), un episodio in Microsoap (1998) e poi finalmente il primo ruolo da co-protagonista in Queer as Folk UK, dieci episodi tra il ‘99 e il 2000. Il suo ruolo nel queer-drama britannico è emblematico della sua carriera. Infatti, fin dagli esordi televisivi, al giovane vichingo non dà fastidio mettersi a nudo. Qui mostra per la prima volta il deretano in pose di nudo integrale e scatena non poche polemiche tra i conservatori inglesi a causa delle esplicite scene di sesso omosessuale che coinvolgono il suo personaggio quindicenne – in realtà Hunnam ne aveva già diciannove. La serie è a tratti irritante e deprimente nel ritratto del mondo gay degli anni novanta, ma ci regala un Charlie Hunnam che si lancia in un personaggio travolgente capace da solo si reggere la serie. Un ruolo coraggioso e anticonvenzionale che già ci dà le coordinate artistiche dell’attore.

È anche il ruolo che lo farà conoscere al grande pubblico e agli studios che non ci metteranno troppo a capire che in Charlie Hunnam oltre alla bellezza estetica c’è anche molta bravura e consapevolezza. Il personaggio di Nathan Maloney in Queer as Folk UK, alle prime esperienze omosessuali, recupera in fretta il tempo perso e così dà di sé quell’immagine spavalda, a tratti supponente, che caratterizzerà i suoi ruoli futuri: il tipico bel ragazzo che può permettersi quello che vuole e che ti sbatte in faccia che lui può scopare con chiunque e tu no – soprattutto l’ormai iconico Jax Teller di Sons of Anarchy (2008-2014). Il risultato è ovviamente un’attrazione/repulsione per i suoi personaggi, incardinata sull’opposizione amore/odio che scombina e disordina le logiche categorie di giudizio critico tra bene e male, accettabile ed inaccettabile.

Dopo aver destabilizzato il gruppo adolescenziale di Ian Somerhalder e compagni in tre episodi di Young Americans (2000) approda al cinema alternando ruoli di contorno a ruoli da protagonista. È stato oggetto di ossessione per Katie Holmes in Abandon (2002), il perfetto Nicholas Nickleby nell’omonimo film del 2002 tratto da Dickens, lo psicopatico pistolero albino di Ritorno a Cold Mountain (2003) e il rude e muscolare teppista del West Ham United in Hooligans (2005) – ad oggi uno dei suoi ruoli migliori.

In Abandon il suo sfacciato e borghese Embry Larkin, ossessione sessuale della fragile protagonista Katie Holmes, gioca tutto il suo fascino adolescenziale per rappresentare la turba fallica che attiva nella giovane studentessa di economia, orfana di padre troppo presto, freni inibitori che si trasformeranno successivamente in impulsi omicidi. Il film purtroppo non apporta nulla di nuovo alla tematica, non si prende nessun rischio linguistico se non sul finale e tratteggia i personaggi monocromaticamente. Hunnam ne esce a testa alta grazie al carisma del personaggio, borghese e sfacciato quanto si vuole, ma né prefatto né falso, o almeno è quello che ci viene suggerito e che l’attore riesce a comunicare.

Se a Charlie Hunnam sembrerebbe mancare la profondità e l’introspezione di Heath Ledger, altro attore di cui ricorda qualcosa – l’età, il biotipo, lo stile – sicuramente non gli manca la dotazione fisica come cifra del proprio segno attoriale. Attore nervico, muscolare, piacione e autoironico, il bad boy inglese poggia tutta la credibilità dei suoi personaggi sulla furia fisica e la presenza scenica. Dotato di un sorriso strafottente ma sincero, lontano dal ghigno eastwoodiano o dal sorriso all american di tanti altri colleghi piacioni, il brit Charlie Hunnam si inserisce perfettamente tra gli antieroi più iconici dell’immaginario moderno: duri e puri e pieni di ombre come di sprazzi di luce.

Dalla sua gioca a favore anche un bel cervello. Non solo rinuncia a 50 sfumature di grigio (2015), sebbene l’autrice E. L. James l’avesse indicato come l’unico e possibile Christian Grey, ma sceglie i suoi progetti senza preoccuparsi necessariamente dell’appeal commerciale. Partecipa al Geek-Pack di Seth Rogen e James Franco con Undeclared tra il 2001 e il 2003, torna villain in Children of Men (2006) e aderisce con entusiasmo a The Ledge – Punto d’impatto (2011), film sottovalutato anche se abbastanza irrisolto, in cui l’unidimensionalità di cui è accusato il suo personaggio ne è in realtà la forza dialettica. In seguito passa con successo alla commedia indie Frankie Go Boom (2012); è il turbolento e tragico figlio di Kris Kristofferson in quel piccolo guilty pleasure che è Deadfall – Legami di sangue (2012); diventa infine il nuovo attore feticcio di Guillermo del Toro in Pacific Rim (2013) e in Crimson Peak (2015).

Insubordinato di razza, Charlie Hunnam è il bullo dalla camminata gorilloide – altra caratteristica in comune con lo scimmiesco Brad Pitt – che fin dagli esordi fa suo, personalizzandolo, lo stereotipo del giovane ribelle, lo spavaldo che cammina con le spalle, assetato di nuove esperienze e attratto dal limite delle convenzioni sociali.

Inoltre è proprio amico di Brad Pitt e ha venduto alla sua Plan B la sceneggiatura di Vlad, biografia senza vampiri dello storico impalatore rumeno che ispirò la figura del sanguinario Conte Dracula. Sembrerebbe infatti seriamente intenzionato a diventare sceneggiatore e regista oltre che attore, il che conferma la dotazione culturale dell’attore britannico che in un’intervista del 2003, sul perché non accettasse tutti i ruoli che gli venivano offerti, dichiara: «Ho sessant’anni per fare soldi, ma le scelte che farò nei prossimi cinque anni influenzeranno davvero la mia carriera». Come dargli torto? Da quel giorno ad oggi ha stupito infatti per i rischi che si è preso, The Ledge e il rifiuto a 50 sfumature di grigio su tutti.

SONS OF ANARCHY.

Sono anche gli anni della serie tv che gli ha dato il successo più grande e la notorietà maggiore, perfino immortale. Tra il 2008 e il 2015 è l’istintivo protagonista di Sons of Anarchy, al fianco dello storico attore feticcio di Guillermo del Toro, Ron Pearlman, con cui Hunnam lavorerà in più occasioni. La serie è a tratti ripetitiva e gira spesso su stessa visto che gli snodi narrativi sono quasi sempre gli stessi: due bande si incontrano e fanno un affare, ci scappa qualche morto, qualcuno ha tradito, si fa l’accordo con una nuova banda, ci si vendica e tutto ricomincia da capo. In questa ossatura lo sviluppatore della serie Kurt Sutter ci infila l’improbabile: bugie, segreti, inganni famigliari, verità nascoste e indicibili più un groviglio di intrighi, alleanze, controallenze, trappole, compromessi mortali e omicidi gratuiti e inaspettati. Un’impalcatura suburbana e marginale, semi-redneck se vogliamo, con tanti dispositivi melodrammatici e un coté pulp a dare un colpo anche alla botte.

Sono anche le parole dello stesso Sutter a confermare la furbata melodrammatica come uno degli elementi base della solidità della serie: «Sons of Anarchy è una soap opera adrenalinica, è una fiction pulp sanguinosa con personaggi altamente complessi». E complessa è anche la lettura politica della serie che la rende controversa politicamente – armi, pornografia, vendetta privata, intimidazioni, legge del taglione, corruzione della polizia per la giusta causa. Ha comunque il pregio di essere un oggetto completamente diverso nel panorama mainstream della serialità americana. Un incrocio tra A-Team e Hazzard, ma di segno opposto. Qui, infatti, i valori e i pilastri della destra cristiana americana, sono il bersaglio preferito della serie che li smonta puntata dopo puntata corredando il tutto di un linguaggio sboccato e pochi giri di parole.

Altra faccia della medaglia è il risveglio spirituale, quasi mistico, di alcuni personaggi, qualche sottile pizzicata al Presidente Obama e soprattutto una complessità tragica dei vari caratteri, sul modello scespiriano, che diventa il vero punto di forza di una serie che tra alti e bassi e snodi narrativi improbabili riesce a coinvolgere il pubblico proprio giocando sull’universalizzazione dei sentimenti dei suoi protagonisti e il loro appeal anticonvenzionale.

L’ambiguità politica della serie è quindi tutta giocata sulle alleanze e i tradimenti tra biker, neri, messicani, irlandesi e fratellanza bianca, il tutto condito con epiteti e insulti poco corretti politicamente. Le stoccate ad Obama, seppur lievi, e l’appoggio ai due candidati repubblicani a sindaco di Charming, disegnano i Sons come un’organizzazione più vicina alla destra che alla sinistra: «Ci piace la fica che pende un po’ a destra» dice Jax Teller, personaggio affascinante quanto discutibile la cui complessità cade tutta sulle spalle di Charlie Hunnam che dal ragazzino gay mingherlino di Queer as Folk si trasforma nel rude e fatale bad boy dei Sons, preservando comunque quel sorriso e quegli occhi che tradiscono un’anima pura, da antieroe senza macchia. L’ossimoro aiuta a capire la natura ambivalente, quindi problematica e quindi moderna, del suo personaggio e di lui come attore.

Il suo giovane Amleto, non solo ripercorre il travaglio dell’eroe tragico di Shakespeare vivendo tra un patrigno che gli ha ucciso il padre per prendersi il trono dei Sons e una madre compiacente in continuo disequilibrio morale ed affettivo, ma è anche un giovane principe che una volta arrivato a sedersi sul trono e dopo aver visto morire troppi amici, diventa un re dispotico pervaso dal demone del potere e dell’onnipotenza. Il leone che gli ruggisce dentro, complice l’estetica appunto leonina dell’attore, condiziona la sua performance esagerandola nei toni e nella recitazione. Hunnam riesce comunque, segnale questo di grande controllo dell’attore sul personaggio, a dar vita a scarti recitativi dove il suo sanguinario principe svela un’anima dolce e misericordiosa: l’agnello vestito da lupo, e non viceversa.

Jax Teller è il dubbio. Il fantasma del padre, che rivive nelle pagine del diario lasciato al figlio, torna regolarmente a confessargli tutte le sue incertezze e i suoi timori per il futuro di un club che ha perso la spinta ribelle e rivoluzionaria delle sue origini. Ora è un’organizzazione marcia immischiata in affari criminali con l’IRA, i cartelli messicani, il White Power e varie mafie etniche. La disillusione del padre ricade così sul figlio, incapace di recidere i legami con un mondo, la subcultura gangsteristica americana, di cui si sente parte inscindibile, determinando così non solo ogni sua scelta, ma anche la parabola narrativa del personaggio e di tutta la serie.

Il viaggio dell’antieroe vivrà quindi tre tappe: la spavalderia iniziale appena fuori di galera, caratterizzata dall’idea di abbandonare il giro; la determinazione a restare per sistemare le cose, scoprire le verità nascoste, lasciandosi guidare dal febbricitante demone dell’onnipotenza; infine la serena rassegnazione al destino a cui corre incontro sorridendo. Dall’adolescenza disturbata alla maturità adulta, passando per gli inferi della giovinezza rabbiosa. Il Jax Teller di Charlie Hunnam è anche tutto questo. Una variazione sul tema archetipale del bad boy nella cultura americana che da Huckleberry Finn in avanti ha prodotto eroi, antieroi e anche varie mostruosità in sintonia con i caratteri di un paese diviso tra l’amore per la libertà e le diversità delle sue origini e l’odio e il sangue nel quale le hanno affogate per preservare lo standard bianco e protestante.

La serie tende infatti a fotografare criticamente l’universo di un’organizzazione criminale dove l’odiosa e intollerabile legge della strada ne è l’impalcatura sociale e morale – gerarchie da rispettare, pestaggi, intimidazioni e uccisioni rituali come “messaggi da dare”, il regolamento di conti, il codice morale del club, il senso di appartenenza, “fare brutto”, il rispetto alla gang, l’onore che maschera la debolezza, il fatto che se uno ti pesta i piedi tu glieli devi pestare più forte e così via.

In realtà, Sons of Anarchy vuole giocare sottilmente di empatia. Attraverso il fascino criminale e il ribaltamento del senso civico del dovere e del rispetto della legge, fotografa una realtà sociale molto attuale nel mondo globale di oggi: il gangsterismo giovanile. Le bande etniche e le varie fratellanze in cui si rifugiano giovani sradicati e frustrati, orfani di una società che li ha messi ai margini e li ha spinti a delinquere per trovare un proprio posto nel mondo, sono il luogo antropologico di una fauna umana sprovvista degli strumenti culturali ed etici per convivere con i propri simili, inseguendo la chimera di un’esistenza facile, fatta di lussi e privilegi, gli stessi a cui ci ha abituato il mondo della politica, della finanza e del commercio.

Il fascino per il mondo criminale e per una vita adrenalinica fatta di rischi, alcol, droga, armi da fuoco e tanta fica, si trasforma in tragedia non tanto attraverso i facili sentieri dell’apologo morale, bensì attraverso la narrativizzazione di un isterismo e di una compulsione nate dall’idea distorta di una vita in cui l’imperativo è vincere, dominare e sottomettere. Inoltre, rintracciando una critica allo stile di vita e alle scelte politiche dei Sons, personaggi che anche dal punto di vista umano sono inquietanti e indifendibili, si può vedere la serie come la rielaborazione di un lutto nazionale, il lutto per un’età dell’oro, romantica e libera, ovvero il West, che ha lasciato il posto al cieco capitalismo, al profitto, al business. I motociclisti di Sons of Anarchy non sono più i “romantici avventurieri” delle origini americane, si sono corrotti. Tutto si è corrotto con l’arrivo del dio denaro che ha tolto valore alla verità delle cose della vita per darlo alle menzogne, ai traffici, agli affari e all’accumulo di ricchezza. Questo già veniva perfettamente simboleggiato in Pat Garrett and Billy the Kid (1973) di Peckinpah o in C’era una volta il West (1967) di Sergio Leone. Il tema ritorna brutalmente in Sons of Anarchy trasportando ai giorni nostri la figura romantica del cavaliere/centauro corrotto dalla modernità.

Acquista così un valore maggiore il sacrificio finale corredato da simboli cristologici – il look dell’attore e le braccia aperte a croce. È la fine di un passato glorioso ormai perso nella mitologia dei ricordi. Se le ultime puntate non brillano per originalità, accumulando solo colpi di scena che ci si aspettava da tempo, la scena di congedo della serie ci regala molti brividi. Nell’immagine del fuggitivo inseguito da una fila di pattuglie della polizia sulle desolate strade californiane ritornano alla mente capisaldi dell’immaginario ribelle americano come Punto zero (1971), Sugarland Express (1974), Convoy (1978) e Thelma & Louise. E il cerchio si chiude. Il corpo indomito dell’America selvaggia è stato nuovamente fermato, ucciso, massacrato. La narrativizzazione della deriva superomistica del ragazzo nato libero e leale, motivato e giusto, trova così il suo epilogo.

In questo processo narrativo, il personaggio di Jackson Teller è il corpo della tragedia, l’insieme organico delle fisiologie del dramma. Nella sua recitazione giocata sull’accumulo di nervosismi, collere e facili eccitabilità, si rintraccia la rabbia e la furia dell’atto attoriale con cui il suo personaggio convoglia su di sé i significati sottesi del dramma superomistico restituendoli come significanti. È il suo corpo ad essere oggetto di indomabilità e catastrofe. Le sincopatologie della sua recitazione, la contrazione continua dei muscoli facciali e l’irrigidimento del fisico nei momenti di tensione, come i sorrisi distensivi e i rasserenamenti del volto davanti agli affetti più cari, svelano l’ambivalenza del personaggio attraverso la sua fragile psicologia duale.

Charlie Hunnam, in questa decostruzione sincopata del suo Amleto, mette letteralmente a nudo il proverbiale re. Molti infatti gli shirtless moments dove l’attore mostra fiero tutta la sua fisicità, ma sono poca cosa in un’epoca di totale svestizione del tabù maschile. La questione cambia con il fattore rear. L’irruzione della nudità posteriore del principino amletico sembra viaggiare su due binari paralleli. Da un lato risponde alla domanda di voyeurismo del pubblico e dei fan dell’attore, abituati da sempre a vederlo nudo da tergo; dall’altro, la sua nudità ce lo mostra indifeso e arrendevole. Invece di offrire il fianco, offre la sua passività sessuale. Una lettura azzardata che però trova conferma nelle dinamiche omoerotiche di un club di soli maschi dove la donna oggetto, la grupie o la pornostar, serve solo a dare virilità ad un’immagine maschile compromessa ed irrisolta fatta di accessori totemico-feticisti come tatuaggi, anellazzi, giubbini di pelle e motociclette. Anche in questo aspetto, il vigore dell’attore vichingo, dello Snake Plissken del nuovo millennio, conferma la grandezza e la consapevolezza di Charlie Hunnam come autore di sé stesso.

Stesso discorso per l’azzeccato cast scelto per dar vita al club dei centauri. Da Ron Perlman, gigantesco villain scespiriano, a Kim Coates, passando per William Lucking, Ryan Hurst, Mark Boon Jr. e Katey Sagal, la matriarca anche lei di natura scespiriana, sono tutti in perfetta sintonia con i loro character del piccolo schermo, che tanto piccolo non lo è più. Anche caratterizzazioni come Coglione Solitario, Chucky, Unser, il grande Machete, al secolo Danny Trejo, i re del porno interpretati da David Hasselhoff e Tom Arnold, le varie troiette del club, il perfetto Peter Robocop Weller, il bel personaggio di Nero Padilla, il portoricano Juice, segreto oggetto di desiderio omoerotico e di ambigua filiazione dei seniors del club, Adrienne Barbeau nel ruolo della vecchia strega pedofila, quella “tettona” del tarantiniano Walton Goggins, lo psicopatico Lee Toric di Donal Logue, Happy e infine Big Eight, personaggio di grande e consapevole tragicità autodistruttiva nello spirito come nel corpo.

Su tutti, domina Charlie Hunnam che se ai più è conosciuto per le scene di rear nudity, per molti altri è invece un attore esplosivo ed istintivo, erede diretto del fisico e proteinico Tyler Durden di Fight Club, ma anche un lucido e consapevole professionista che fin dalla tenera età si è sentito portato per le discipline artistiche. Forse una sensibilità dovuta alla fuga della madre quando aveva ancora due anni, fatto sta che Charlie Hunnam dimostra di avere stile, libertà di scelta e un approccio vero e non prettamente commerciale ai progetti a cui si dedica.

Progetti accumunati da una tipologia di ruoli, i suoi bad boys tutti fratelli del Jax Teller di Sons of Anarchy, scelti con cura e intuizione autoriale. Sue infatti sono queste parole: «It's generally more fun playing the villain». Parole che mi ricordano alcune dichiarazioni di Gene Hackman quando parlava dei suoi ruoli da cattivo. Così, oltre ad essere il Re Artù di Guy Richie (?!) in Knights of the Roundtable: King Arthur (2016), è anche Edgar Valdez, primo americano ad essere padrone di un cartello della droga in Messico in American Drug Lord, scritto dal Jason Hall di American Sniper (2014) e il combattivo protagonista di A Prayer Before Dawn (2016), un prison-movie tratto dalla vera storia di Billy Moore, fuggito in Tailandia dopo una vita di alcol e droga per finire in un infernale carcere di Bangkok dove dovrà imparare la lotta tailandese per poter sopravvivere.

Charlie ha dato prova di una certa versatilità grazie anche alle commedie e ai film di taglio più romantico, senza per questo allontanarsi dal bad boy type che è nelle sue corde. Come è evidente sia in Sons of Anarchy sia in The Ledge, i suoi personaggi non sono totalmente refrattari all’amore né tantomeno misogini. Piuttosto, con Charlie Hunnam ritorna l’uomo del secondo novecento. Un duro che sa inclinarsi ai sentimenti senza dimenticare che innanzitutto è un uomo e non il languido, melenso, glabro metrosexual che oggi va tanto di moda. Partecipa così a The Mountain Between Us (2017) un survival-movie che vede Charlie Hunnam e Rosamund Pike sopravvivere a un disastro aereo nelle remote Hight Uintas Wilderness Mountains, nello Utah, una delle zone più selvagge di tutti gli Stati Uniti e a The Lost City of Z nei panni del leggendario esploratore britannico Percy Fawcett che scomparve nel 1925 in Amazzonia mentre cercava una misteriosa città perduta. Il film, tratto dal bestseller non-fiction del giornalista del New York Times David Grann, conferma Hunnam come uno dei pochi attori oggi ad essere più che idoneo per ruoli duri, rudi e avventurosi. Charlie è il nuovo wilderness-hero, non necessariamente action, ma molto wild.

Considerandolo uno dei migliori della sua generazione, quella dei nati tra la fine dei ’70 e la metà degli ’80 – Josh Hartnett, James Franco, Emile Hirsch, Jake Gyllenhaan, Heath Ledger, Yon González e il nostro Elio Germano – ecco la character gallery con cui metto in ordine i suoi ruoli migliori e più significativi.

CHARACTER GALLERY.

Sons of Anarchy, 2008-2014.

Hooligans, 2005.

The Ledge – Punto d’impatto, 2011.

Deadfall – Legami di sangue, 2012.

Queer as folk, 1999-2000.

Nicholas Nickleby, 2002.

Frankie Go Boom, 2012.

Abandon, 2002.

Undeclared, 2001-2003.

Ritorno a Cold Mountain, 2003.

I figli degli uomini, 2006.

Pacific Rim, 2013.

Crimson Peak, 2015.

Che fine ha fatto Harold Smith?, 1999.

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