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COME IN UNO SPECCHIO.

QUANDO IL CINEMA SCOPRÌ IL CINEMA

Da sempre il cinema opera una seduzione arcana non solo sui destinatari finali, gli spettatori, ma anche – e in modo quasi incestuoso – su chi lo fa. Come Narciso che guarda il proprio riflesso nell'acqua e se ne invaghisce, così registi e autori di ogni tempo e luogo si sono lasciati rapire dalla magia della creazione cinematografica e hanno narrato al pubblico questa fascinazione di cui essi stessi erano soggetto e oggetto passivo. La narrazione ha assunto via via le forme della mitizzazione del fenomeno divistico, del riconoscimento del cinema come veicolo di riscatto sociale, della demonizzazione degli aspetti deteriori dello star system, ma anche della riflessione introspettiva sulla natura di quelle ombre in movimento, sul fare cinema e sullo stesso essere spettatore. Opere come A che prezzo Hollywood? (1932), Viale del tramonto (1950), Bellissima (1951), Cantando sotto la pioggia (1952), Il bruto e la bella (1952), È nata una stella (1954), giù giù fino a 8 1/2 (1963), Effetto notte (1973), Intervista (1987), Nuovo cinema Paradiso (1988), e infinite altre hanno trattato nei modi più disparati questo mondo di artifici. Ma tutte presentano, tra le righe, un tratto in comune: l'amore per la capacità di questa forma espressiva di ricreare la vita umana come nessun'altra – più della letteratura, più della pittura – e una sorta di malcelato compiacimento nel sapersi parte di quella forza evocativa.

Dietro la celluloide: il divo nel privato

Il cinema inizia presto a raccontarsi e riflettere sul suo rapporto con la realtà. Già nei primi anni '10 i corti comici Mabel's Dramatic Career (1913) e Charlot fa del cinema (A Film Johnnie, 1914) o, pochi anni dopo, L'idolo del villaggio (A Small Town Idol, 1921) mostrano fino a che punto nell'immaginario collettivo il sistema hollywoodiano si identificasse come la possibile scappatoia a una realtà prosaica, quando non addirittura di fame e privazioni. Una valvola di sfogo consentita a chiunque, persino ai reietti della società interpretati da Chaplin e la Normand: un vagabondo senza molta voglia di rimboccarsi le maniche e una servetta bistrattata dalla padrona. Il fatto che Mabel's Dramatic Career sia fra le prime interpretazioni di Mabel Normand e Charlot fa del cinema appena il quinto della filmografia di Charlie Chaplin – un Chaplin molto acerbo e visibilmente ancora alla ricerca del suo personaggio – possono far pensare anche a una vena autobiografica.

La trama di questi e altri film avvalorava l'idea secondo cui Hollywood è la realizzazione in terra degli ideali umani di perfezione fisica e di scalata al successo. Un luogo dove è possibile conseguire il riconoscimento sociale di cui finora la vita ci ha defraudato, dove con un colpo di bacchetta magica i brutti, sporchi e cattivi diventano belli e tirati a lucido. Ma anche, naturalmente, il luogo dove la metafora  della fabbrica dei sogni assume la sua piena accezione, e dove l'impossibile coincide con il quotidiano. Come in A 45 minuti da Hollywood (45 minutes from Hollywood, 1926), dove il protagonista Glenn Tryon approda alla Mecca del cinema dalla periferia più profonda e burina. La didascalia recita: "Hollywood – una mattinata tranquilla", e subito appare sullo schermo uno stunt-man appollaiato su una scala a corda con pistola alla mano, ripreso da operatore e assistente a loro volta in equilibrio più che precario sull'antenna di un edificio, mentre nel cielo è tutto un brulicare di mongolfiere, aerei, dirigibili e altri oggetti volanti. L'understatement continua durante un tour organizzato in autobus scoperto, con la guida che annuncia placida, tra un morso al panino e un altro, il nome delle celebrità in cui si imbattono: dalla "grande Theda Bara alla vostra sinistra" (che sbuca dietro un portellone e sembra cercare qualcuno: in realtà la sequenza era stata stralciata da Madame Mystery, sempre del 1926) alle bellezze al bagno di Mack Sennett, alle Simpatiche canaglie. Mentre il povero Tryon continua a girare spasmodicamente la testa da un lato all'altro, senza riuscire a vedere nessuno.

Per una sorta di proprietà transitiva, a Hollywood, dove chiunque può diventare un divo, anche le stelle più inaccessibili sembrano libere di togliersi abiti di scena e lustrini e comportarsi come esseri umani.

Film all-star come Hollywood (1923), la cui trama era poco più che un pretesto di fronte ai circa ottanta camei di attori noti e meno noti che ne costituivano il vero richiamo, accreditavano questa "umanità" dei divi visti nel loro habitat naturale. Inoltre, la presenza di stelle del cinema nei panni di sé stesse conferiva un'atmosfera realistica a improbabili romanzetti d'amore o a trame comiche. Il vagabondo Charlot in A Film Johnnie incontra Fatty Arbuckle davanti agli studios della Keystone e ne approfitta per tastargli la pancia, senza che lui faccia una grinza. E Marion Davies in Maschere di celluloide (Show People, 1928) incrocia un affabile John Gilbert, poco prima della rovinosa caduta per l'l'avvento del sonoro. Poi, rifattasi una verginità passando dal vero nome Peggy Pepper al nome d'arte di Patricia Pepoire, pranza nella mensa degli stabilimenti con una sfilza di divi tra cui lo stesso Gilbert e Douglas Fairbanks, che chiama affettuosamente "Doug". Lontani dall'immagine di glamour proiettata dallo star system, in questi film i divi appaiono così normali da essere, in qualche caso, irriconoscibili. Sempre in Maschere di celluloide Peggy Pepoire viene fermata dopo la prima di un suo film da un signore distinto, ma dall'apparenza anonima, che si proclama suo ammiratore e le chiede un autografo. Peggy glielo concede di malagrazia. Quando il signore entra in auto e continua a scappellarsi con deferenza, chiede al suo accompagnatore chi mai sia quel tipetto così smanceroso, ricevendone la risposta che si tratta di… Charlie Chaplin, dopo di che non le resta che svenire.

Il cameo di Chaplin in Maschere di celluloide

La tendenza a ridimensionare lo status del divo è ovviamente un'esagerazione con intenti comici. Era lecito supporre che le stelle del cinema adottassero comportamenti naturali nell'intimo della famiglia o della cerchia di amici, ma il fenomeno sociale del divismo parte dal presupposto che una star è circonfusa da un'aura di sacralità sempre e dovunque. Lo dice a chiare lettere la sempre sottile Gloria Swanson nella sua autobiografia: era lo stesso pubblico che in qualche modo imponeva agli attori di ergersi al di sopra dei comuni mortali e mostrare caratteristiche celesti anche nella vita privata. Paradossalmente, se al limite era possibile l'identificazione tra gli spettatori e i personaggi interpretati, tanto più che non di rado tali personaggi ritraevano gente del popolo, le stravaganze e lo sfarzo ostentati dai divi nel privato (la rubinetteria d'oro massiccio nella villa della Swanson, anche se quest'ultima negò fino all'ultimo, i camerini di Pola Negri ricoperti di petali di rose) li facevano assurgere a semidivinità con cui nessun confronto era proponibile. E proprio questa complementarità tra immagine pubblica e privata del divo, anziché essere vista come una contraddizione, incoraggiava lo spettatore a evadere dalla mediocrità di quei tempi grami e sognare un mondo di favola.

Quanto tale esaltazione collettiva accomunasse persone di lingue e culture diversissime fra loro – complice anche la facile esportabilità dei film muti, a cui bastava solo tradurre le didascalie nella lingua del paese in cui venivano mostrati – lo mostra Il bacio di Mary Pickford (Poceluj Meri Pikford), una commedia russa del 1927 di Sergej Komarov. Il film è una satira garbata dell'infatuazione delle masse sovietiche per le vedettes americane, e si basa sulla visita che Douglas Fairbanks e la moglie Mary Pickford fecero realmente a Mosca nel 1926 nel corso di un trionfale tour internazionale durante il quale, tralaltro, ebbero modo di assistere a Berlino a una proiezione della Corazzata Potëmkin (Bronenosec Potëmkin) per poi dichiarare senza mezzi termini che era il più grande film mai realizzato.

Komarov ebbe l'idea di integrare in una trama altrimenti convenzionale alcuni spezzoni tratti dai cinegiornali dell'epoca, dando l'illusione che Fairbanks e la Pickford avessero davvero partecipato alla realizzazione del film, e inserendone addirittura i nomi nei titoli di testa. In verità i due divi nulla sapevano dei progetti di Komarov, ma grazie a un sapiente montaggio (non per niente Komarov proveniva dalla scuola sperimentale di Lev Kulešov, uno dei pionieri in quel campo), le sequenze documentarie in cui essi compaiono sembrano amalgamarsi perfettamente all'intreccio e alla recitazione degli attori sovietici.

Un trattamento curioso della tensione tra pubblico e privato, in cui è il divo a fare in qualche modo ammenda per la distanza che lo separa dalla vita reale, si ritrova in Mariute (1918) di Edoardo Bencivenga con Francesca Bertini. Come nota Vito Zagarro, non si capisce bene che cosa sia Mariute: se un film, uno short pubblicitario, un mediometraggio da affiancare in una serata a un'altra opera dell'attrice, o ancora se si tratti di un'operazione patriottica (come sembrano propendere altre fonti) commissionata all'indomani della disfatta di Caporetto. Il film si divide in due parti. Nella prima, intitolata Una giornata di Francesca Bertini, veniamo introdotti nella vita privata della diva che, recita una didascalia, "veglia fino ad ora tarda dedicandosi alla lettura ed allo studio; ecco perché al mattino ancora…". L'occhio indiscreto della macchina da presa penetra nella camera da letto, coglie il risveglio vagamente seccato al suono del telefono e la risposta indifferente a chi, dall'altro capo del filo, le ricorda che a quell'ora dovrebbe già trovarsi sul set. Sennonché, riagganciata la cornetta, la signorina Bertini abbozza un gesto sbarazzino di noncuranza e si rinfila tra le coperte "…mentre i suoi compagni di lavoro l'attendono per cominciare l'esecuzione d'una film". Il divertissement autoironico sulle pose e sui capriccetti da primadonna va avanti durante le fasi della colazione, della lettura, della toilette e della vestizione, mentre regista e comparse l'attendono esasperati sul set.

Finalmente la Bertini arriva al lavoro e si mette a bertineggiare, facendo il verso agli stilemi interpretativi – svenimenti, deliqui, patimenti veri o simulati – tipici del diva film italiano di quegli anni. Ma durante una pausa della lavorazione avviene qualcosa che sposta l'asse del racconto dalla narrazione giocosa nella cornice del fatato mondo del cinematografo, un mondo come irreale e sospeso nel tempo, alla dolorosa realtà quotidiana della guerra, in un'Italia ancora scossa dalla disfatta di Caporetto. L'attrice si sofferma ad ascoltare il racconto di un collega appena tornato dal teatro dei combattimenti: "un compagno d'arte reduce dal fronte per una breve licenza racconta le feroci sevizie che subiscono le popolazioni oppresse dall'invasore". La narrazione ha l'effetto di una scossa tellurica sulla Bertini, e il suo turbamento – espresso attraverso il repentino mutamento di recitazione – permane anche dopo il rientro a casa. Qui, gli stessi elementi scenici che avevano fatto da cornice farsesca alla prima parte, la tenda, il letto, lo specchio, subiscono una trasfigurazione che fa loro assumere un segno drammatico, quasi di premonizione, introducendo la seconda parte del film. È la sequenza notturna, dove "durante un sonno agitato e convulso, e sotto l'impressione dello straziante racconto udito, Francesca Bertini rivive le tragiche vicende". La Bertini – non più diva bizzosa, ma italiana consapevole delle vicende belliche del proprio paese – sogna e si immedesima nello strazio di Mariute, una contadina friulana violentata da tre soldati austriaci durante l'assenza del marito.

Non c'è nel film una condanna esplicita del mondo dorato del cinema, semmai un monito sommesso sulla necessità di prendere coscienza di una tragica realtà non visibile per chi non combatte, ma nondimeno vicina. La Bertini ci mette faccia e nome, ma l'obiettivo non era fare autocritica o stigmatizzare lo star system italiano dell'epoca, ammesso che di star system si possa parlare. Il personaggio Bertini in Mariute è una creatura di fantasia che, nonostante i tratti autobiografici (il riferimento all'amore dell'attrice per la lettura, ad esempio), coincide solo in parte con la donna. Piuttosto, il presunto distacco della diva dalle afflizioni del tempo sembra alludere all'atteggiamento di chi si mostrava poco sensibile alle vicende che accadevano poco lontano, sui campi di battaglia. È in questa necessaria presa di coscienza che consiste il contributo patriottico di Mariute e la conclusione: "L'impressione del sogno terribile e angoscioso accende di viva fiamma d'amor patrio il cuore di Francesca Bertini". Il cerchio si chiude: l'attrice è armoniosamente ricongiunta alla donna e alla patriota.

A che prezzo Hollywood?

"Non siamo che finzione…, nient'altro che pagliacci", dice Peggy Pepper con delusione mista a una nuova consapevolezza alla fine di Maschere di celluloide. Il percorso iniziatico compiuto nella Mecca del cinema l'ha portata in breve tempo a passare da illustre sconosciuta a idolo delle folle, e infine a "veleno del botteghino". Ma allo stesso tempo le tribolazioni l'hanno resa adulta, facendole capire che quella capacità di simulazione che tanto l'attraeva nella Fabbrica dei sogni può diventare un elemento perverso quando non permette più di cogliere la verità nelle cose e nelle persone. Quando l'abitudine alla recitazione diventa menzogna o rinuncia a sé stessi, può essere utile fare un passo indietro e ritrovare quel che resta della propria essenza e dei propri valori.

Il giudizio di Peggy sembra echeggiare una riflessione collettiva che si fa largo già alla fine degli anni '10 e negli anni '20. Gli scandali che colpirono divi di prima grandezza come Barbara La Marr, morta a soli trent'anni nel 1925 per abuso di alcool e stupefacenti e dopo cinque matrimoni, Fatty Arbuckle, accusato nel 1921 di aver provocato la morte accidentale di una starlette, o la stessa Mabel Normand, coinvolta nell'omicidio di un regista, contribuirono a sollevare il velo sul volto nascosto della capitale del cinema. Hollywood Babilonia diventò l'immagine del glamour condito da eccessi, sesso e peccato. Ai cortometraggi comici degli anni '10 come Mabel's Dramatic Career, Charlot fa del cinema e Charlot attore, che dipingevano ingenuamente la Mecca del cinema come un allegro e confuso porto di mare in cui fingere era solo un gioco, subentra una visione più disincantata. In film come Souls for Sale (1923), Merton of the Movies (1924) o Cinema Star (Ella Cinders, 1926), i consueti toni celebrativi nei riguardi di Hollywood sono stemperati dal riconoscimento delle insidie che ivi si nascondono: l'illusione di un successo che per lo più non arriva, i pericoli della vanità e degli agi materiali per quei pochi che ce la fanno, e soprattutto il gap tra la patina edulcorata che si propina agli spettatori e lo squallore della realtà. Battute come "Il tuo adorato pubblico vuole illudersi che tu sia innocente come i personaggi che interpreti", in Souls for Sale, vanno dritto al cuore di questa perdita d'innocenza del cinema. Ma la tensione latente tra simulazione e autenticità, tra i lustrini del cinematografo e il disincanto del mondo reale, attraversa anche film più leggeri. In Maschere di celluloide Patricia Pepoire torna ai panni dozzinali, ma genuini di Peggy Pepper e a una vita più semplice con il suo spasimante Billy Boone. In Charlot fa del cinema il Vagabondo è malmenato dalla primadonna e espulso dagli studios Keystone, ma al tempo stesso si libera, con un gesto simbolico di rifiuto, della sua infatuazione per quel mondo di fuffa. Lontano da Hollywood, verità e menzogna si mescolano su più piani nel bizzarro Zapatas Bande (1914), dove una troupe di attori tedeschi in trasferta in Italia, travestiti da briganti con a capo nientepopodimeno che la grande Asta Nielsen in panni maschili, assaltano una carrozza vera, anziché quella finta che stanno aspettando. E la spavalda Nielsen en travesti approfitta dell’imbarazzo delle passeggere per farsi dare un rapido bacio sulla bocca alla bella contessina Elena, che a sua volta sembra aver preso una cotta per il romantico masnadiero. Solo quando il cocchio riparte, la Nielsen e i suoi comprimari capiscono l’equivoco e la prendono sul ridere, mentre i passeggeri fuggono ancora in preda al panico. Ovviamente, di lì a poco arriveranno i banditi veri.

Asta Nielsen "en travesti" in Zapatas Bande

In modo esattamente speculare, in A 45 minuti da Hollywood, le vicissitudini del protagonista Glenn Tryon nascono dall'incapacità di riconoscere un gruppo di rapinatori e crederli una troupe impegnata in una ripresa in esterni. Non è vero del resto – sembra dirsi Tryon, appena sbarcato dalla campagna – che a Hollywood tutto quanto fa spettacolo? Tutto per ridere, certo, ma sottotraccia forse non manca una velata condanna del modo in cui il cinema sfrutta la faciloneria e la credulità dello spettatore.

Ma si tratta giusto di un lieve rabbuffo. In definitiva, il cinema muto continua a guardare con simpatia al mondo del cinematografo, capace come altri mai di distrarre la gente dalle ambasce quotidiane e trasportarla in una dimensione di sogno. La finzione che qua e là si imputa a Hollywood negli anni del pre-sonoro non è che una metafora della vita, dove ognuno, per dirla col Bardo, recita la propria parte sul paloscenico del mondo. È solo il cinema successivo, dagli anni '30 in poi, che svilupperà certe intuizioni sulla crudeltà dello show business, complice la Grande depressione del 1929 e i suoi effetti di lungo periodo sulla economia e sulla società americana. E faranno la loro comparsa nuovi prototipi di personaggi, come l'attore o il regista decaduto, ancora innamorato di quel mondo fatato, ma ormai cinico e disilluso, la cui negatività offusca l'entusiasmo dei neofiti e preconizza per loro un futuro simile al suo.

Registi e spettatori nel labirinto

Nella celebre sequenza di apertura di La bambola di carne (Die Puppe, 1919), Ernst Lubitsch appare nelle vesti del gran burattinaio che dispone le scene e i personaggi del suo teatrino di cartone, due bambole, i quali diventeranno di lì a poco attori in carne e ossa.

Lubitsch gran burattinaio in La bambola di carne

È uno scherzo che introduce il tono giocoso del film e anticipa la duplice natura della protagonista Ossi Oswalda, automa life-size e donzella con pulsioni fin troppo umane. Ma è anche una sorta di dichiarazione di intenti sul lavoro creativo del regista, vero e proprio demiurgo che assemblando e organizzando elementi e materiali tra i più disparati riesce a suscitare negli spettatori quella serie di impressioni che in fondo costituiscono il fascino del cinema. Lubitsch non fa un riferimento esplicito al cinema, che anzi tratta come una derivazione del teatro. Ma nel mettere in scena lo show, Lubitsch sembra voler puntualizzare allo spettatore che ancora non l'abbia capito che lui e solo lui, il regista, conduce il gioco, e che tutto ciò che vedrà di lì a poco deriva da una sua scelta consapevole e originale.

Tra gli anni '10 e '20, a misura che il cinema si afferma come principale forma di intrattenimento di massa, studiosi e gente del mestiere iniziano a ragionare sulla natura di questa forma di espressione artictica e sul ruolo svolto a vari livelli – dal regista al montatore allo spettatore – nella produzione e nella fruizione di un'opera cinematografica. Tralasciando le teorie astratte dei primi critici, sono diversi i film dell'età del muto in cui si annidano riflessioni, in certi casi vere e proprie "auto-riflessioni" meta-filmiche, sul cinema in quanto fenomeno artistico e sociale. Citatissimo in questo senso è L'uomo con la macchina da presa (Celovek s kino-apparatom, 1929), in cui Dziga Vertov riversa le proprie teorie sull'abilità della macchina da presa di trascendere la visione dell'occhio umano, conferendo alle immagini un senso nuovo e più completo attraverso quella forma di messa in contesto che è il montaggio.

Il film di Vertov non possiede una trama in senso stretto, ma è autoreferenziale nel senso che concentra lo sguardo sulle sue stesse modalità di realizzazione e di visione da parte dello spettatore. Si parte con l'enumerazione degli elementi che rendono possibile la fruizione filmica: una sala cinematografica completamente vuota, le sedie ripiegate e le uscite bloccate da pesanti cordoni, il proiezionista che sistema la pellicola nella macchina. Poi le cortine si scostano, le file di sedie si aprono, le maschere appendono i cordoni ai ganci e lasciano entrare gli spettatori, la sala via via si riempie, il grande lampadario si spegne, l'orchestra accorda gli strumenti. Tutto è pronto, lo spettacolo può iniziare. E lo spettacolo è la descrizione del lavoro del cineoperatore, che riprende tutto quello che gli capita sott'occhio nell'arco di una giornata trascorsa a vagare in una città russa, Kharkov, Kiev o Odessa che sia. Viene alla mente l'esordio di Addio a Berlino di Christopher Isherwood, da cui Bob Fosse avrebbe poi tratto Cabaret (Cabaret, 1972): "Io sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto, completamente passiva, che registra e non pensa. Registro l’uomo che si fa la barba alla finestra dirimpetto e la donna in kimono che si lava i capelli. Un giorno tutto questo andrà sviluppato, stampato con cura, fissato". Sennonché, la macchina da presa di Vertov non è uno strumento passivo che subisce le scelte stilistiche del suo proprietario, ma un occhio che vive di vita propria, un soggetto attivo che decide autonomamente la direzione su cui appuntare lo sguardo.

Ma, secondo Vertov, non basta. Lo sguardo, sia pure attento, non può riuscire a cogliere e narrare la realtà in tutte le sue sfaccettature e implicazioni economiche, politiche o sociali. Ed ecco che a fine giornata una montatrice (Elisaveta Svilova, moglie di Vertov), attraverso la selezione e la giustapposizione delle immagini pure, conferisce loro quel senso nascosto e profondo che rende l'"occhio cinematografico" (il cosiddetto kino-glaz) superiore alla superficialità dell'occhio umano. I fotogrammi superano così lo stadio di immagine per farsi narrazione.

Una meditazione non dissimile sulla fusione tra operatore e macchina, ma inserita questa volta in una cornice narrativa coerente, figura in Il cameraman (The Cameraman, 1928), di e con Buster Keaton. Il cameraman e il precedente La palla n° 13 (Sherlock Jr., 1924) sono due delle vette del cinema muto e la sintesi ideale delle idee di Keaton sul cinema, colte da due prospettive perfettamente complementari: quella del regista nel primo film, dello spettatore nel secondo.

 

Il cineoperatore di Keaton potrebbe essere benissimo l'uomo della macchina da presa di Vertov, nel senso che nel Cameraman l'assimilazione tra essere umano e cinepresa è praticamente totale. L'occhio della macchina della presa che registra passivamente gli eventi coincide con il suo sguardo. "L'uomo con la macchina da presa", scriveva Vertov, "deve rinunciare alla sua solita immobilità, deve esercitare la sua capacità di osservazione e agire con il massimo della rapidità e agilità se vuole stare al passo con la fugacità dei fenomeni della vita". E il fotografo Keaton, tutt'uno con la macchina, è in perpetuo movimento e schizza da una parte all'altra della città per fissare quelle immagini che andranno poi rielaborate per essere lette e interpretate dallo spettatore. Le immagini dei Tong che si ammazzano fra loro nell'inferno del quartiere cinese, e che lui annota con distacco e sprezzo del pericolo esilaranti, ma come solo un essere inanimato oserebbe fare. Oppure le immagini girate dalla scimmia, che lo ritraggono a sua insaputa (a ulteriore dimostrazione dell'indipendenza della macchina dall'operatore), e gli varranno amore e riconoscimento professionale alla fine del film.

Sennonché la macchina da presa non si limita a riprodurre la realtà, ma per certi versi la crea dal nulla. Senza quelle immagini registrate, gli avvenimenti del passato sembrerebbero frutto di fantasia – e infatti nessuno ci crede fino a prova contraria –, come se non fossero mai successi, e scivolerebbero nell'oblio senza lasciare traccia di sé. Riproducendo invece il passato (il salvataggio della ragazza), la macchina determina il presente (il favore della ragazza nei suoi riguardi e l'allontanamento del rivale) e forse anche il futuro (una storia d'amore e, chissà, un matrimonio).

Il cameraman - La sequenza delle riprese a Chinatown

Ma il genio di Keaton non si è accontentato di raccontare l'identificazione dell'uomo con la macchina da presa, nuovo occhio dell'ancor giovane ventesimo secolo. Già quattro anni prima – anzi sei, se si considera il corto Il nord ghiacciato (The Frozen North, 1922), il cui finale si svolge davanti a un grande schermo – aveva rivolto lo sguardo sul lato opposto del processo di realizzazione cinematografica, e su tutt'altro tipo di immedesimazione: quello tra lo spettatore e il film. Anche in La palla n° 13 (Sherlock Jr.) il cinema riproduce la vita e la ricrea. È la celeberrima sequenza in cui il proiezionista Buster – uno spettatore "avvertito", quindi, anche se sognatore – si sdoppia e penetra nel film, assumendone il ruolo del protagonista.

La palla n. 13 - La sequenza dello sdoppiamento

Kevin Brownlow ricorda per la cronaca che nel 1923 era uscito The Shriek of Araby, in cui Ben Turpin interpreta la parte di un proiezionista che si addormenta e sogna di essere Rudy Valentino. In entrambi i casi, il cinema sembra impregnarsi del suo significato metaforico di Tinseltown (città degli orpelli) e fuga dal reale. In realtà Keaton compie un inaspettato passo in avanti rispetto a questa facile interpretazione, che lo apparenta non tanto a Ben Turpin ma alla Lois Weber di Idle Wives (la cui scoperta devo a Riccardo III, che ringrazio). Perché se è vero che il virtuale assume le sembianze del reale e che quelle immagini danzanti sullo schermo non sono che il riflesso di quanto avviene in questo basso mondo, è altrettanto vero che la stessa realtà trae volentieri ispirazione da quel laboratorio onirico che è il cinema.

Nel finale Buster chiede implicitamente aiuto al protagonista del film che si sta proiettando nel cinema per capire come deve corteggiare la sua bella. Non è un caso che Buster e la ragazza vengano qui mostrati entro un rettangolo che è la finestra del gabbiotto in cui lavora il proiezionista, ma che sembra proprio un fotogramma del film della loro vita. Né è un caso che, dopo aver imitato l'attore sullo schermo, Buster guardi perplesso il flash-forward che ritrae i protagonisti del film sposati e circondati da uno stuolo di mocciosi urlanti. È l'inquietudine di chi comprende come l'osmosi tra realtà e finzione sia giunta al culmine. Guardare lo schermo è come guardarsi allo specchio in un'infinita mise en abîme: la vita è cinema, il cinema è vita.

Filmografia essenziale:

1909 – Those Awful Hats, di David Wark Griffith.

1913 – Mabel's Dramatic Career, di Mack Sennett, con Mabel Normand

1914 – Charlot fa del cinema / Charlot entra nel cinema (A Film Johnnie), di George Nichols, con Charlie Chaplin

1914 – Charlot attore / L'attore travestito / Charlot e la diva (The Masquerader), di e con Charlie Chaplin

1914 – Zapatas Bande, di Urban Gad, con Asta Nielsen

1916 – Charlot macchinista / Charlot operatore (Behind the Screen), di e con Charlie Chaplin

1916 – Idle Wives, di Lois Weber e Phillips Smalley

1918 – Mariute, di Edoardo Bencivenga, con Francesca Bertini

1920 – L'illustre attrice Cicala Formica, di Lucio D'Ambra, con Lia Forma

1921 – L'idolo del villaggio (A Small Town Idol), di Erle C. Kenton e Mack Sennett, con Ben Turpin

1922 – Il nord ghiacciato (The Frozen North), di Buster Keaton e Eddie Cline, con Buster Keaton.

1923 – Hollywood, di James Cruze (perduto)

1923 – The Shriek of Araby , di F. Richard Jones, con Ben Turpin

1923 – Souls for Sale, di Rupert Hughes

1924 – Merton of the Movies, di James Cruze (perduto)

1924 – La palla n° 13 / Calma, signori miei! (Sherlock Jr.), di e con Buster Keaton.

1926 – A 45 minuti da Hollywood (45 minutes from Hollywood), di Fred Guiol

1926 – Cinema Star (Ella Cinders), di Alfred E. Green, con Colleen Moore

1927 – Il bacio di Mary Pickford (Poceluj Meri Pikford), di Sergej Komarov

1927 – Maschere di celluloide (Show People), di King Vidor, con Marion Davies

1928 – Il cameraman / Io e la scimmia (The Cameraman), di Edward Sedgwick e Buster Keaton, con Buster Keaton.

1929 – L'uomo con la macchina da presa (?elovek s kino-apparatom), di Dziga Vertov

Riferimenti bibliografici:

F. Ballo, Il cinema di Buster Keaton: Sherlock Jr., Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2013, p. 60.

Brownlow K., Alla ricerca di Buster Keaton, Bologna, Edizioni Cineteca di Bologna, 2009, p. 92.

Cherchi Usai P., "Show People", Les cahiers du muet N° 20, Bruxelles, Cinemathéque Royale, 1993.

Finler, J. W., The Hollywood Story, New York, Crown Publishers, 1988.

Gaberscek C, "Bertini, da diva a friulana stuprata", in Messaggero Veneto, 6 ottobre 1999.

Shiel Mark, Hollywood Cinema and the Real Los Angeles, London, Reaktion Books, 2012.

Thompson K., "Potseloui Meri Pikford", Les cahiers du muet N° 28, Bruxelles, Cinemathéque Royale, 1993.

Zagarro V., ""Mariute", un metafilm del muto", in Immagine. Note di storia del cinema. Fascicolo sesto, Associazione italiana per le ricerche di storia del cinema,ottobre-dicembre 1983.

 

 
 
 

 

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