A Xavier Dolan, canadese francofono nato a Montreal nel 1989, sta ormai stretta la definizione di enfant prodige con cui è stato salutato al suo precoce esordio se oggi, dopo 5 lungometraggi, è oggetto di rassegne monografiche come quella - affollatissima - che si è tenuta in gennaio alla Cineteca Spazio Oberdan di Milano. Personalità estrosa e grande determinazione, il giovane regista/sceneggiatore/attore/montatore si è imposto rapidamente all’attenzione di critica e pubblico e, anche se non sempre mette tutti d’accordo, è attualmente uno degli autori più interessanti tra quelli che hanno ancora una lunghissima carriera davanti a se’.
J’ai tué ma mère (2009) ***1/2
Strano aver visto J’ai tué ma mère (2009) solo dopo il più recente Mommy (2014) con il quale ho conosciuto e in qualche modo identificato Xavier Dolan, ma è ciò che capita spesso a causa della flemmatica prudenza con cui la distribuzione nostrana considera i giovani autori, inducendo gli spettatori a un percorso di scoperta che procede cronologicamente al contrario. Il confronto retrospettivo si è rivelato illuminante poichè le due pellicole non possono che richiamarsi l’un l’altra: stesso tema (il rapporto conflittuale madre-figlio), stesse attrici negli stessi ruoli femminili (Anne Dorval e Suzanne Clément), stesso allontanamento forzato del giovane da casa come presunta inevitabile soluzione.
J’ai tué ma mère, scritto dal giovanissimo Dolan a 16 anni e da lui stesso interpretato a 19, è un esordio che colpisce per come l’urgenza personale di esternare il tormentato rapporto con la madre si fronteggi ad armi pari con una brillante capacità di scrittura, dando vita a un lavoro fitto e dominato con disinvoltura, viscerale ma dotato di ironia e di un tono vivace e deciso. Amore e odio legano Hubert a sua madre, donna forse inadeguata ma anche stremata dal continuo testa a testa con un ragazzo dalla personalità fortissima, e l’incredibile energia verbale di cui entrambi sono dotati (l’unica cosa che li accomuna) rende il confronto tra loro talmente travolgente e incessante che è impossibile parteggiare soltanto per l’uno o per l’altra. Elementi di respiro rispetto al conflitto familiare e, specularmente, elementi di apertura del focus del film risiedono nella vicinanza di un adulto esterno alla famiglia (la giovane professoressa) e nel tema personale dell’omosessualità, che si svela gradualmente rimanendo però saggiamente decentrato e riflettendosi nelle figure di tre adolescenti già molto consapevoli, che nonostante gli umori dell’età sembrano sapersi relazionare tra loro in un modo sano. Già evidenti in questa prima prova alcuni elementi caratteristici che ricorreranno anche in seguito: cromatismi accesi, compiaciuto gusto camp, dialoghi brillanti, un uso travolgente della colonna sonora che assegna alla musica un ruolo di primo piano nella scena creando degli inserti dotati dell'identità di un videoclip.
Ripensandoci, è possibile che chi ha ravvisato in Mommy un certo compiacimento sotto la veste ammaliante, possa invece riconoscere e apprezzare in questo precedente lavoro il suo nucleo originario, la sua versione primigenia, similmente verbosa ed energica ma più autentica e molto più originale e creativa. Tra i due film, idealmente contigui anche se distanti tra loro circa un lustro, è questa opera prima del 2009 che preferisco. C.I.C.A.E. Award, Prix Regards Jeune, SACD Prize, Cannes 2009
Les amours imaginaires (2010) ***1/2
Dopo avere sviscerato la questione della conflittualità familiare, Xavier Dolan appena ventenne si concentra sull’altro nodo esistenziale imprescindibile durante la giovinezza (e non solo): l’amore. Di nuovo attore nella parte di Francis, il regista condivide il ruolo di protagonista con Monia Chokri che interpreta l’amica Marie, entrambi si innamorano dell’attraente Nicolas (Niels Schneider, il ragazzo del collegio in J’ai tué ma mère) che nel suo essere aperto e amichevole indistintamente con tutti incarna alla perfezione l’oggetto del desiderio: bello, ambiguo e, proprio per questo, molto ambito.
Più rilassato rispetto all'esordio, Les amours imaginaires è forse il film più francese di Dolan, che riesce a restituire tutto il (delizioso) corollario emotivo e comportamentale dell’amore anelato ma non ancora conquistato, senza far sembrare minimamente insolito che si tratti di un maschio e una femmina che puntano lo stesso ragazzo. Assenti gli episodi di diluvio verbale e di violenza presenti negli altri film, questo lavoro dotato di piacevole leggerezza si caratterizza anche per essere intervallato da testimonianze di giovani che, pur non avendo altro ruolo nel film quasi fossero inserti documentari, parlano delle loro esperienze d’amore pronunciando con noncuranza piccole-grandi verità, con la naturalezza di chi si confida tra amici, come quando alle feste si è fatto molto tardi, si è rimasti in pochi e le chiacchiere si fanno via via più intime.
Accattivante e sincero, anche se per certi versi ancora adolescenziale, Les amours imaginaires costituisce, insieme al film precedente, quello che si può considerare il dittico di esordio con cui Dolan si è imposto all’attenzione di critica e pubblico, e se fino a qui è ragionevole apprezzarne i risultati anche considerando la giovane età, è con la prova successiva Laurence Anyways che si ha la netta sensazione di passaggio evolutivo e ci si trova di fronte a un lavoro davvero notevole a prescindere dall’anno di nascita dell’autore. Sezione Un certain regard, Cannes 2010
Laurence Anyways (2012) ****1/2
Attenzione a Laurence Anyways perchè non è il più famoso dei film del giovane canadese ma è stato un'autentica rivelazione, senza dubbio il suo risultato più brillante e maturo anche a livello di contenuto pur rimanendo formalmente – e fulgidamente - assai rappresentativo dello stile dolaniano: tonalità pop, inserti music-video, decor vintage anni '80, esplosioni di rabbiosa autodeterminazione e un’ironia che aggira puntualmente banalità e pathos. Per la prima volta, in questo suo terzo lavoro Dolan resta dietro la macchina da presa eleggendo un protagonista-altro da se’, che gli consente una maggior distanza prospettica rispetto ai lavori precedenti: il film, frutto di felicissima ispirazione, acquisisce così il respiro di una riflessione universale sul coraggio di affermare la natura più profonda di noi stessi e sulla capacità di chi ci sta accanto di accettare decisioni e cambiamenti imprevisti.
Professore di letteratura trentacinquenne, Laurence si sente ormai pronto a vivere pubblicamente il lato più intimo della sua personalità, che lo porta a desiderare di assumere fattezze femminili, senza con questo mettere minimamente in discussione nè la propria eterosessualità nè tantomeno la relazione appassionata e vivace che lo lega alla compagna Frédérique.
Che dire, se non che queste 2 ore e mezzo caleidoscopiche, che nonostante il soggetto queer travalicano i confini del cinema “di settore”, le ho amate senza riserve dall'inizio alla fine: zero retorica, zero dejavu, due protagonisti eccezionali (Melville Poupaud, classico tipo francese, non appariscente ma sexy e naturale anche con il tailleur e Suzanne Clément, strepitosa nel meritato ruolo di coprotagonista) diretti con mano sicura e sensibile, dialoghi raffinati e soluzioni brillanti padroneggiano ogni scena rischiosa (una su tutte la prima volta che Laurence si presenta in aula vestito da donna), un universo di personaggi di contorno ben scritti e rispettabili nelle loro naturali ma non scontate reazioni, campioni di un’umanità ritratta in technicolor ma vera e accettabile anche nei casi più apertamente eccentrici. La visione è un vero e proprio viaggio all'interno di un film acuto, umanissimo, ricercato e pieno di vita. E tutto questo, senza risparmio alcuno di energia e di idee, è in dono sopra una storia d’amore che prescinde dalla forma, dalle vicende della vita, dalle opinioni degli altri, addirittura dallo stare insieme oppure no, tra un uomo che pur cambiando pelle rimane comunque se’ stesso - “Laurence Anyways” per l’appunto - e una donna che arriva a pronunciare una frase inaudita che si vorrebbe contronatura: “Ti amo più di quanto amo mio figlio”. Titolo cardine tra i primi cinque di Dolan e, in senso assoluto, un film indimenticabile. Queer palm, Cannes 2012
Tom à la ferme (2013) ***
Per i primi venti minuti di Tom à la ferme ci si ritrova, istintivamente, a cercare tracce dell’estro che riconosciamo come tratto distintivo del regista candese, dopodiché è pacifico che in questo lavoro, adattamento di una pièce di Michel Marc Bouchard, Xavier Dolan si è voluto mettere alla prova proprio rinunciando all’abituale verve estetica e creativa per adottare uno stile scarno, di impostazione formalmente minimalista, concentrandosi su una storia fatta di situazioni distorte e di tensione tra i personaggi.
Il giovane Tom ha perso il suo compagno in seguito ad un incidente, mentre è in visita alla famiglia del ragazzo per partecipare ai funerali comprende di non poter rivelare la natura della relazione che lo legava a Guillaume e diventa oggetto delle attenzioni ambigue del fratello Francis, un soggetto violento che prima lo minaccia e poi gli impedisce di andarsene.
Riservando nuovamente per se’ il ruolo di protagonista, il regista incupisce i toni del suo cinema dando vita a una vicenda dalle tinte noir, che sembra nascere dalla necessità di esorcizzare delle paure attraverso la rappresentazione, anche simbolica, della violenza omofoba. I personaggi del film si ritrovano tutti in un ruolo più o meno falsificato dalla situazione che si è venuta a creare e la tensione che si produce tra loro, dominata dalla personalità psicotica di Francis, crea in certi passaggi atmosfere vagamente fassbinderiane. Difficile stabilire quanto Tom à la ferme sia centrato rispetto alle intenzioni dell’autore, l’effetto artificioso delle alterazioni che avvengono sullo schermo riflette un’idea di straniamento e distorsione dei rapporti umani che Dolan ha voluto esplorare, in questo caso, con un registro torbido e violento anzichè, come d’abitudine, furibondo ma vitale. Dopo un film come Laurence Anyways è comprensibile provare una sensazione di smarrimento di fronte a Tom à la ferme, pur riconoscendolo come un apprezzabile tentativo di sondare altri sentieri senza adagiarsi sugli allori, e forse proprio l’ulteriore inversione di rotta intrapresa con il successivo Mommy su soggetto nuovamente originale dimostra che il percorso del giovane Xavier è in continua evoluzione. Premio FIPRESCI, Venezia 2013
Mommy (2014) ***
La matrice di Mommy è indubbiamente Je tué ma mère, le analogie tra i due film sono tali da indurre a leggere quest’ultimo film in termini di evoluzione rispetto al primo: sempre Anne Dorval nel ruolo della madre alle prese con un ragazzo problematico e sempre Suzanne Clément in quello della figura di appoggio esterna alla famiglia, stesse lotte e riappacificazioni furiose con inevitabile decisione finale di separazione tra madre e figlio. Nel caso di Mommy, però, Xavier Dolan assegna la parte del protagonista all’eccezionale Antoine Olivier Pilon e l’ambivalente rapporto con la madre è estremizzato dalla patologia comportamentale che induce il giovane ad accessi di violenza incontrollabile, tanto da dover appellarsi ad una – ipotizzata nel film – legge che permette alle famiglie di ricoverare d’ufficio i minori quando le crisi si fanno pericolose.
Alla sua quinta prova Dolan si dimostra ormai cosciente dell'interesse e dell'attesa creatisi attorno a lui e consapevole che questo sarebbe potuto essere il film della consacrazione internazionale. Rivedendo Mommy, soprattutto dopo aver conosciuto le opere precedenti, si ha effettivamente l'impressione che il regista abbia lavorato con la certezza di rivolgersi ad un pubblico potenzialmente molto più ampio e forse non è un caso se il risultato è quello che potremmo definire il più americano dei suoi film. La forma di Mommy è smagliante, ai limiti del compiaciuto, ma nella sua concezione risulta in fin dei conti un film piuttosto classico: dialoghi, tempi, situazioni e sviluppo sono guidati in modo impeccabile e attraente ma con attenzione a non disorientare troppo il pubblico, adottando di fatto una grammatica filmica abbastanza collaudata (vedi ad esempio tutto l'episodio nel locale del karaoke, perfetto e di notevole impatto ma ma senza particolari segni autoriali).
La pellicola si regge fondamentalmente su personaggi fortemente caratterizzati e molto ben interpretati, che però a tratti possono risultare molto costruiti (troppo smarrita e imbranata Kyla, troppo appariscente e esuberante Diane) poichè, come si diceva, sono orchestrati in modo abile ma non particolarmente originale e questo è tanto più evidente se pensiamo che dall'estro di Dolan abbiamo accettato figure e situazioni ben più eccentriche e lo abbiamo fatto senza battere ciglio perchè si muovevano in un contesto filmico altrettanto creativo e anticonformista - diciamo pure in un'altra idea di cinema, molto più ricercata - che le anticipava e supportava ottenendo un effetto di paradossale naturalezza e senza che ci fosse più nessuna necessità di giustificarle. Intendiamoci, Dolan oltre alla grande sicurezza conserva i suoi assi nella manica infatti sa come far decollare il film in alcune scene davvero ammalianti, inoltre si riconferma sempre un eccezionale direttore degli attori, ma per la prima volta dall'esordio adotta canoni, codici e tempi di un cinema che non è riconducibile a lui soltanto. Premio della Giuria, Cannes 2014
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