Mi vien da pensare, se provo a guardarlo negli occhi, che c’è qualcosa di me in lui. O meglio, di ognuno di noi in lui. Perché Gene Hackman è l’identificazione più immediata dell’uomo comune in un’epoca di transizione come la nostra. Dopo che nella vecchia Hollywood cominciava a scarseggiare l’alone di “mito” intorno ai bei avventurieri del bianco e nero, ecco che trovano il loro giusto spazio attori ordinari, né belli né brutti, né eroi né criminali. Tra loro primeggia con naturalezza il nostro Gene Hackman, nato a San Bernardino il 30 gennaio del 1930.
Gli esordi e i riconoscimenti. Cresce a Danville, Illinois. A 16 anni scappa di casa e si arruola nei marines mentendo sulla propria età, dove viene preparato come operatore radio. Dopo il congedo, studia giornalismo e produzione televisiva all’Università dell’Illinois; poi si sposta a New York, dove segue i corsi di tecnica radiofonica, sostentandosi intanto con i lavori più strani. Lavora come annunciatore in piccole radio e TV locali, finché non sente che la sua vocazione doveva portarlo altrove e si iscrive alla Pasadena Playhouse di Los Angeles. Comincia solo a trent’anni a studiare recitazione drammatica.
Nel 1956 ha come compagno di corso un certo piccoletto di nome Dustin Hoffman. Sono entrambi studenti alla Pasadena. Dustin, dopo un anno al City College era andato alla Pasadena perché aveva un sacco di brutti voti e si diceva che a recitazione non bocciavano mai. Durante il primo mese s’incontra con Gene, con cui aveva delle lezioni insieme. Gene era lì per il progetto GI perché veniva dai Marines. Gene era il più vecchio della loro classe, e veniva valutato sempre con 1,3 quando il minimo dei voti era circa 2. Dopo solo tre mesi lo cacciano via. Va a New York e Dustin lo raggiunge due anni dopo e verrà ospitato in casa di Gene e della sua prima moglie Fay Maltese, con cui ha avuto tre figli e da cui si separerà trent’anni dopo. In seguito Dustin finisce con Robert Duvall che lavorava alle poste con Gene. Stavano sulla II° Avenue e la 30°, o giù di lì. Sulla 26° strada, dice Gene. E qui salivano sul tetto a suonare. Gene suonava la conga e Dustin i bongos, perché a loro piaceva Marlon Brando e si diceva che andasse nei nights a suonare appunto gli stessi strumenti.
Nonostante non avessero mai lavorato insieme al cinema fino al 2003, i due avevano avuto modo di recitare insieme in una scena di Uomini e Topi – Dustin nel ruolo di George e Gene di Lanny, o così si ricorda l’attore. Poi hanno fatto anche Uncle Remus – il nostro zio Tom di colore – dove Gene faceva appunto lo zio, e La Bisbetica Domata entrambi nel ruolo di Petruccio in due tempi diversi – Gene il primo, Dustin il secondo. Dal ’63 al ’67 Gene Hackman recita off Broadway, o come dice lui “off-off” Broadway. Parallelamente inizia anche la sua avventura cinematografica con Mad Dog Call - Gangster contro gangster (1961). In seguito, dopo l’esperienza di Lilith Warren Beatty lo volle per Bonnie and Clayde (1967) con cui arriva la prima inaspettata nomination agli Oscar come miglior attore non protagonista, ne seguiranno altre cinque: nel ’70 per Anello di sangue sempre come non protagonista, nel ’71 per Il braccio violento della legge, che gli valse la statuetta come protagonista, nel ’74 per La conversazione, nell’88 per Mississippi Burning dove a rubargli il riconoscimento ci pensò l’amico Dustin per la sua memorabile interpretazione in Rain man, ed infine nel 1992 viene nominato di nuovo come non protagonista per Gli spietati, suo secondo Oscar.
Può comunque vantare altri prestigiosi riconoscimenti come la Palma d’Oro a Cannes nel ’73 per il suo personaggio in Lo spaventapasseri – la sua interpretazione preferita – e per quello de La conversazione l’anno successivo, oppure l’Orso d’Argento al Festival di Berlino nel 1988 per Mississippi Burning e da ultimo nel 2002 il Golden Globe come migliore attore per I Tenembaum, più ovviamente quello alla carriera nell’edizione del 2005. Per non contare i numerosi riconoscimenti delle varie associazioni critiche e della stampa.
Attore e personaggio. La carriera di Hackman è stata costellata da una continua innovazione nella scelta dei personaggi a cui l’attore ha sempre affiancato la sua particolare linea interpretativa. Nonostante sia stato uno studente del metodo e fan di Marlon Brando, come di Errol Flynn e Lon Chaney quand’era un bambino e un adolescente, Hackman è un caso a parte nel panorama recitativo statunitense. Come tutti i professionisti si avvicina con serietà e impegno allo studio del personaggio, ma invece di estenuanti prove di autoimmedesimazione e autosuggestione, Hackman preferisce provare direttamente con le cineprese, con la troupe, con tutta la scena pronta. «Preferisco avere la tensione del momento, l’immediatezza, cercare di farlo in quel momento preciso e provare con la troupe» confessa in occasione de La giuria (2003). «La tensione è un bene. Perché in un modo strano ti mantiene vivo. Non sei mai sicuro. Sei sempre incerto. Se qualcuno mi chiedesse cose specifiche sulla recitazione potrei solo parlare di intuizione» continua evidenziando chiaramente l’importanza dell’istintualità nei confronti della preparazione accademica.
Hackman non preparerebbe mai tutta una gamma di possibilità del personaggio, come l’amico Dustin, ma farebbe una sola scelta giusta, la migliore, e interpreterebbe quella scelta due o tre volte fino a trovare la versione perfetta. Questo ci fa capire come i grandi attori non devono per forza di cose aderire al celebre trasformismo di De Niro o Pacino o seguire una ricerca troppo cerebrale nell’individuazione dei tratti del proprio personaggio. Un grande attore deve semplicemente fare una scelta e portarla avanti mettendoci un po’ di sé e un po’ del personaggio. Un carattere porta sempre qualcosa di chi lo interpreta, come un’opera letteraria parla in fondo in fondo del suo autore, e il quadro del suo pittore. Anche Hackman attinge così ad una tavolozza di suoi personalissimi colori e li confonde con quelli del personaggio nato in fase di sceneggiatura.
Se Gene Hackman passa alla gloria come uno dei migliori attori di tutta la storia del cinema non è solo per la sua istintualità, ma anche per una dote naturale che nessun accademia poteva instillargli. Hackman attore/uomo risponde con durezza alla durezza del mondo. I suoi personaggi, buoni o cattivi che siano, portano nei loro occhi inquieti quella durezza che genera poi nell’atto interpretativo quel distacco e quella gestualità pesante che lo hanno sempre distinto. Le sue performance nascono dal suo interno, senza troppi versi autoriali e introspettivi. La sua attorialità sta tutta nel decifrare il personaggio sulla carta e codificare le espressioni, gli atteggiamenti, le pose e i gesti che meglio esprimerebbero il suo personaggio.
Gene Hackman non si trasforma di film in film, di personaggio in personaggio. La sua cifra stilistica è quella di sempre. Piuttosto si rinnova, cambia. A lui dobbiamo l’umanizzazione dei cattivi tout court: «Io cerco sempre di trovare qualcosa in quei cattivi ragazzi, che sia umano, e che perciò li renda ancora più diabolici. Se tu vedi qualcuno che è totalmente cattivo, lo metteresti nella categoria dei “mostri”; ma se vedi qualcuno che è sì davvero cattivo, ma è anche un padre, un nonno, o qualcuno del genere, lo troverai ancora più cattivo, penso». Ecco che le sue carogne, invece che essere stereotipati Principi del Male, portano addosso tutta l’ambiguità dell’uomo moderno, senza perdere di vista l’aspetto ludico, archetipale e iconografico del puro villain.
L’innovazione in Gene Hackman sta nel non dover sottostare al personaggio in un impari rapporto di subalternità. Il nostro attore trasmette tutto il suo universo emozionale, da sempre ambiguo, contraddittorio ed inquieto, attraverso gli elementi interdipendenti dell’oralità: gli elementi cinetici e quelli paraverbali. I primi coincidono con i gesti, le maniere e le posture e traducono gli elementi interni del personaggio in elementi esterni, tangibili dal fruitore che può essere lo spettatore come l’attore stesso durante la sua performance. I secondi invece, quelli paraverbali, coincidono soprattutto con la voce, elemento fondamentale e principale di un attore, e poi anche con le vocalizzazioni e tutte le emissioni vocali che non sono parole vere e proprie, ma che ugualmente servono per evidenziare il tono dell’interpretazione. In definitiva, gli elementi cinetici dell’interpretazione traducono l’emozione del personaggio che non può essere quella dell’attore perché è esclusiva del personaggio, mentre quelli paraverbali sottolineano ed evidenziano il tono di tale emozione. Gli elementi cinetici traducono tangibilmente il sentimento, quelli paraverbali gli danno un tono, un’emozione. In definitiva: l’attore come segno.
Giocoforza sono anche i personaggi che sceglie di interpretare a rivelarne la grandezza autoriale. Una scelta tipologica supportata da un istrionismo mai gigionesco – i termini sono sinonimi ma conta la sottile differenza di grado – che allontanando dai suoi personaggi lo spettro dell’immedesimazione stanislaschiana li risalta con l’apporto estremamente fisico dell’attore come segno. Se il volto di Gene Hackman segna la rottura con l’estetica dello “studio system”, la sua voce modula la modernità dell’attore dei ’60, mentre il gesto è quello del performer esterno tutto diretto all’uso del corpo come segno attoriale. Attore per addizione – rispetto a quello per sottrazione alla Clint Eastwood – Gene Hackman non ha mai superato il limite, mai s’è compiaciuto di una gigioneria che il più delle volte ha usato solo come motivazione brillante del suo personaggio in titoli come Cartoline dall’Inferno (1990), Get Shorty (1995) o Heartbreakers – Vizio di Famiglia (2001). Ha sempre trattenuto l’impeto senza nasconderlo. Difficile rendere l’idea teoricamente se non si pratica l’arte attoriale, ma bastano illustri esempi di maiuscola resa caratteriale come Mississippi Burning e La giuria per definire la grandezza scenica del grande attore americano.
Questa strada, che da Stanislavskij virava verso il metodo Strasberg, ha trovato in Hackman il suo miglior rappresentante, inimitabile ed insostituibile. Chiaramente io ho dato una mia interpretazione al suo stile attoriale considerando che lui è il mio primo modello di riferimento attoriale insieme a Clint Eastwood e che la mia intima idea di recitazione è quella che ho appena espresso.
La carriera. La carriera di Gene Hackman è così vasta e varia che bisogna farne una mappatura abbastanza precisa. É stato un protagonista positivo, un antieroe, una carogna, un caratterista e infine il cattivo dei cattivi. Al 2004, anno di La giuria e di Due candidati per una poltrona, Hackman ha archiviato 79 film in 42 anni di carriera. Nessun film horror, qualcosa come 21 polizieschi tra cui anche le spy-stories, 6 film di guerra, più o meno 11 commedie, 4 legal-thriller e 7 film western. Tutto il resto sono drammi sentimentali o di impianto sociale. É stato all’incirca 14 volte il cattivo di turno. Il motivo dell’incertezza sta nel fatto che alcuni suoi personaggi si muovono tra il bene e il male con un’ambiguità tale che ne è impossibile una distinzione chiara e netta. Per il resto è sempre stato un duro, un antieroe di quelli tosti, ruvido, scontroso, ambiguo, a tratti tenebroso e misterioso, per nulla patetico anche se sensibile a suo modo: «Le persone soffrono in modo diverso, signora McDeer» confessa in Il socio (1993).
La sua carriera è costellata di ottimi film, perfette interpretazioni, premi, applausi e riconoscimenti dal mondo della critica e dal grande pubblico. Ci sono state però anche tante occasioni perse. Nel 1991 gli fu chiesto di interpretare Hannibal Lecter e dirigere Il silenzio degli innocenti. Lasciò il ruolo di Franklin Roosevelt a Jon Voight in Pearl Harbor (2001) – diversamente sarebbe diventato l’attore ad aver interpretato più volte il Presidente degli Stati Uniti. Rifiutò il ruolo di protagonista in film come Lo squalo (1972), Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975), Quinto Potere (1976), Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), Il salario della paura (1977), Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta (1981) e Rambo (1982) – ovviamente nel ruolo che poi andò a Brian Dennehy.
Se li avesse interpretati tutti ci troveremmo di fronte al più grande attore della storia del cinema. Fa comunque piacere che ha dimostrato di esserlo partecipando anche a film di più piccolo spessore. È stato tra l’altro l’unico attore a lavorare per ben tre volte in un film tratto da John Grisham – Il socio, L’ultimo appello (1996) e La giuria. Sulle sue fattezze è stato disegnato il Generale Mandibola di Z la formica (1998) a cui Hackman ha poi dato la voce. Inoltre è apparso sulla lista nera di Nixon nel 1972, ha sventato il furto della sua macchina lottando con due giovani teppisti nel 2001 e dopo Gli spietati ha deciso di non fare più film pregni di violenza. Dipinge e scrive romanzi: Escape of Andersonville: A Novel of the Civil War (2008) e Wake of the Perdido Star (2012) in coppia con Daniel Lenihan; il western Payback at Morning Peak (2011) e Pursuit (2013) in solitaria. La band australiana degli Hoodoo Gurus gli ha dedicato una canzone che porta il suo nome.
Il poliziesco. Il primo ruolo a farlo conoscerlo al grande pubblico e alla critica è quello di Butch il fratello di Clyde interpretato da Warren Beatty in Bonnie and Clyde, che gli valse la sua prima nomination agli Oscar. Il ruolo che però lo fece diventare icona del suo tempo, di una generazione e di un “tono” è stato l’agente Doyle de Il braccio violento della legge. Uscito nei cinema americani il 7 ottobre del 1971, anticipa di poco il dirty Harry di Clint Eastwood in Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo, uscito il 22 dicembre del 1971, ed è mutuato dalla società urbana dei primi anni ’70 che già aveva sfornato in Italia i primissimi polizieschi violenti e brutali che poi fecero scuola. É infatti del 1968 Quella Canaglia dell’Ispettore Sterling con Henry Silva nel ruolo di un commissario bastardo dai metodi duri e discutibili. Oppure un anno più tardi il maestro del genere, Fernando Di Leo, firma I ragazzi del massacro con cui il poliziesco passava dalle solite sparatorie tra polizia e delinquenti del precedente filone “banditesco” dei pieni anni ’60 italiani a un noir urbano, più violento, più brutale e più reale. Nel ’71 seguirà Riccardo Freda con L'iguana dalla lingua di fuoco, in cui Luigi Pistilli interpreta un ex commissario tra i più violenti e rabbiosi che il cinema ricordi, personaggio a cui si è ispirato anche Gary Oldman per il suo detective in Léon (1994) di Luc Besson. Poi arriva nuovamente Di Leo con il film che apre un’intera stagione: Milano Calibro 9 (1972).
Insomma, i cattivi poliziotti americani arrivano, nonostante le autorevoli paternità, poco dopo i nostri. Questo ci fa pensare, più che ad una mutuazione tra i due come avvenne per il western con Sam Peckinpah e Sergio Leone, che i tempi erano ormai pronti per raccontare certe storie con certa crudezza. Il Popeye Doyle di Gene Hackman, che da noi suona come Papà Doyle, entra in scena inseguendo e pestando un uomo di colore. All’epoca un’immagine fortissima. Continua con una serie di abusi del proprio potere per incastrare il cattivo trafficante Fernando Rey. In questo ruolo, come in molti altri polizieschi, Hackman è il protagonista sì positivo, ma non senza macchia. La sua durezza è appunto quella con cui rispondere alla durezza del mondo. I modi spicci e poco ortodossi fanno dei suoi personaggi non i soliti poliziotti hollywoodiani duri e reganiani, bensì uomini inquieti in un’epoca di transizione sociale, politica e culturale, di cui Hackman è attore perché interpreta e attante perché portatore di un’azione specifica e contestualizzata. Tra lui e Clint Eastwood la differenza è minima. Individualista, anarchico e irriverente l’ispettore Callahan, all’epoca tacciato ignorantemente di fascismo; arrabbiato, duro e inquieto il Popeye Doyle di Hackman. I termini usati per descrivere i due poliziotti simbolo dei bellissimi polizieschi anni ’70, a cui va aggiunto il Charles Bronson de Il giustiziere della notte (1974), sono tutti termini appartenenti alla stessa sfera semantica che si rifanno all’uomo moderno nell’accezione autoriale eastwoodiana e in quella performativa e “arrabbiata” di Hackman.
Personaggi. Il grande attore americano ha dato le sue prove migliori anche in quei ruoli canaglieschi che se non sono propriamente dei cattivi, hanno molti tratti discutibili. Il duro e disilluso fratello di Warren Beatty in Bonnie and Clyde; il burbero personaggio di Lo spaventapasseri, duro, ma dal cuore d’oro; il mitico Henry Caul de La conversazione, animo inquieto e minacciato dalle manipolazioni del sistema: forse il suo ruolo più d’autore insieme a quello del precedente film di Schatzberg; l’intrepido e sacrificale prete del Poseidon (1972), il disincantato cowboy de Stringi i Denti e Vai (1975), il burbero ma buon marito di Una donna chiamata moglie (1974) o il detective di Bersaglio di notte (1975) un perdente nella disperata presa di coscienza dell’impossibilità di qualsiasi conciliazione.
Arrivato il 1977 di Star Wars, il cinema cambia. Il genere diventa blockbuster e l’orizzonte dell’industria cinematografica si fa più consumistico. Nonostante il successo di Superman (1978), film che l’attore disconosce insieme ai suoi seguiti, anche Hackman entra negli anni ’80 avvolto in un cono d’ombra come altri attori che erano state le icone della New Hollywood, lasciando spazio agli eroi muscolari del primo decennio edonista come Stallone, Schwarzeneggher, Russell, Van Damme, Willis e altre meteore. Questo non fa in modo comunque che le sue interpretazioni passino inosservate o che il suo lavoro attoriale subisca smacchi artistici. In titoli come Eureka (1983) Reds (1981), All Night Long (1981), Sottotiro (1983), Misunderstood (1984), Colpo vincente (1986) e soprattutto Bat 21 (1988) il suo carattere energico, duro e brutale, riempie sempre lo schermo, ruba la scena, emana mitologia.
Grandi prove lo attendono al varco: con nomination agli Oscar, ai Golden Globe e ai David di Donatello, Orso d’argento a Berlino e altri riconoscimenti critici importanti in tutto il mondo per Mississippi Burning, il suo capolavoro, traghetta Gene Hackman negli anni ’90, gli anni della consacrazione. Iniziano con Gli spietati (1992) per proseguire con altri ruoli emblematici, sempre più frequentemente cattivi o almeno “opposti” al protagonista. C’è spazio anche per la commedia, che Hackman aveva già ben interpretato nel celebre Frankenstein Jr. (1974). Poliziotti a due zampe (1990), Get Shorty, Piume di struzzo (1996), Le riserve (2000), Heartbreakers, Due candidati per una poltrona e soprattutto I Tenembaum il cui ruolo gli regalerà l’ultimo premio sul campo come miglior attore brillante ai Golden Globe.
I cattivi. A ricordarcelo per sempre saranno i suoi ruoli da villain. Da Il giorno dei lunghi fucili (1971) suo primo spaghetti-western e primo ruolo da cattivo, passando per Arma da taglio (1972), Cisco Pike (1972) – dove conobbe e divenne amico di Kris Kristofferson – La bandera (1977), i tre Superman, Senza via di scampo (1987) e i più recenti Gli spietati, Il socio, Pronti a morire (1995), Allarme rosso (1995), Extreme Measures (1996), Potere assoluto (1997) e La giuria, Gene Hackman ha dato inconsapevolmente un fondamentale contributo per la ricostruzione del valore letterario dell’antagonista. Il suo ruolo più feroce è senza dubbio quello del despota di Redemption, il John Herod di Pronti a morire, che fa il paio con il mefistofelico manovratore di giurati de La giuria.
Il viscido Rankin Fitch è la teorizzazione del Male Assoluto. Ancora più luciferino di Pacino in L’Avvocato del diavolo (1997). Hackman, nella pellicola di Gary Fleder, batte anche se stesso. Raggiungendo il più cattivo dei suoi villain, John Herod, riesce a creare un personaggio più spietato del Little Bill Dagget de Gli spietati; più corrotto del Ministro della Difesa Brice di Senza via di scampo; e anche più stronzo del Presidente Richmond di Potere assoluto. La parabola criminale a cui dà vita in La giuria, supera la finalità puramente cinematografica e va oltre. Entra nel mito. Hackman dà vita ad un Diavolo dei giorni nostri, completandolo con il suo personale carattere inquieto, l’uomo tutto di un pezzo con piccole crepe distruttive.
Il duro. Gene Hackman è l’alter ego cinematografico del duro che va per la sua strada. Senza retorica o moralismo nello zaino, vestito solo della sua concretezza che maschera abilmente un animo inquieto e tormentato, quello di un uomo che non è mai quello che sembra. Ne è la prova la sequenza finale di Nemico pubblico (1998) in cui Brill/Hackman se ne va sotto la pioggia rimboccandosi il bavero, senza salutare, girando semplicemente le spalle ad ogni legame. La proverbiale inquietudine dello sguardo hackmaniano fa dei suoi occhi il mezzo fisico con cui codificare tutta la sua poetica, il suo personalissimo stile – per esempio, gli occhi della tigre con cui Hackman divora Frances McDormand nella scena dei tromboncelli in Mississippi Burning.
Hackman è stato il più duro interprete dei più bei polizieschi dai ’70 ad oggi – in compagnia di Bronson e di Eastwood; è stato l’uomo scontroso e burbero che nasconde il suo cuore in pellicole tese e appassionanti come Misunderstood, Un’altra donna (1988), L’ultima luna di agosto (1988), L’ultimo appello, I Tenembaum; il badass che ha innervato film deboli trasformandoli in piacevoli visioni come Fratelli nella notte (1983), Due donne nella vita (1985), Boxe (1988), Conflitto di classe (1991), Spie contro (1991) e Behind Enemy Lines (2001). È stato infine protagonista assoluto o caratterista di razza in film irrisolti e mediocri per certa critica, ma non per chi, come il sottoscritto, si rifà più volentieri a una politica degli attori che degli autori. Pellicole come Under Suspicion (2000), L’ultimo appello o Extreme Measures si impreziosiscono della dura e granitica presenza di Hackman tanto quanto i più nettamente riusciti Rischio totale (1990), Geronimo (1993), Nemico pubblico, Twilight (1998) e The Heist (2001).
Il western. Non può mancare nella carriera di un grande attore americano il genere americano per eccellenza. Stupisce che i film western interpretati da Gene Hackman si concentrino tutti o agli inizi degli anni ’70, in piena New Hollywood dove il genere veniva rivisto e ripoliticizzato, e poi in pieni anni ’90, epoca postmoderna per eccellenza dove un genere così codificato ed emblematico viene rivisitato dall’estetica e dalla poetica del “dopo”.
Da poco sceso dallo spazio, Marooned (1969), Hackman salta in sella per la prima volta nel 1971, in Almería. Dopo Sergio Leone il western non è più stato lo stesso. Tutta la rappresentazione dell’uomo occidentale moderno non è più stata la stessa. Così anche gli americani finiscono nel deserto spagnolo a girare i loro western adottando i codici e le iconografie del recente successo italiano. Con Il giorno dei lunghi fucili, Gene Hackman dà vita ad un folle e sadico all american che non ha tanto a cuore la propria donna rapita dai banditi – la bellissima Candice Bergen – quanto l’esigenza di spargere sangue, lui che non è in grado di spargere sperma. Troviamo già tutto nella prima emblematica sequenza in montaggio parallelo dove il suo Rutger cerca di possedere la battona cinese mentre gli stacchi nervosi ci propongono scene di vacche al macello. Sarà una carneficina. Una scia di sangue e sopraffazione che sa di epico, mitologico e biblico allo stesso tempo.
Ritorna al genere nel 1974 con Una donna chiamata moglie, un antiwestern privo delle azioni topiche del genere quanto piuttosto di approfondimenti psicologici, in linea coi tempi e la rivisitazione del genere. L’anno successivo invece, l’azione torna potente in Stringi i denti e vai, senza per questo sminuire le connotazioni politiche, ribelli all’ideologia nazionalista americana, tutte volte a mitizzare la frontiera come un luogo e un tempo apolitico, benché la realtà storica sia altra cosa. Il suo “sentirsi poco americano” che confida a James Coburn mentre stanno tutti e due immersi nella tinozza a fare il bagno – già di per sé immagine poco virile, o se virile certo simboleggia la nudità del pistolero fondatore davanti alla Storia – è un elemento narrativo che in bocca a un cowboy col volto di Gene Hackman in pieni anni ’70 significa molto in termini di aderenza alla poetica del genere.
Si deve aspettare il 1992 con Gli spietati, per riveder Gene Hackman in un western. Pellicola definitiva del genere, di tendenza crepuscolare, dal taglio critico e pessimista circa la possibilità di redenzione del popolo americano nato nel sangue e che sul sangue ha esteso i suoi poteri e costruito la sua democrazia. L’apporto di Gene Hackman è indiscutibilmente fondamentale. Il suo Little Bill Dagget è sì l’antagonista, anche sadico, della storia, ma il suo sogno è solo quello di starsene sotto il portico a vedere il sole tramontare. Suo malgrado si trova in una situazione in cui il distintivo che indossa può permettergli di fare il buono e il cattivo tempo, un richiamo tutto machista a cui l’uomo storicamente ha ceduto facilmente. Ancora una volta sono i suoi occhi a svelare la sua anima. La sua preghiera finale in punto di morte, fatichiamo a non accettarla.
Con l’epocale successo de Gli spietati per Gene Hackman si apre un decennio incredibilmente buono, se non ottimo. Mai una prova sbagliata. Forse i film, ma mai la sua interpretazione. Un decennio che nella rivisitazione concettuale del western si serve proprio di Hackman per legittimare il genere. Walter Hill lo dirige nel 1993 in Geronimo: An American Legend, al fianco dell’amico Robert Duvall. Non solo il film è tra i più riusciti del decennio, ma i loro personaggi portano alla pellicola quel fattore westerner senza il quale difficilmente si sarebbe raggiunta l’epicità del racconto. Allo stesso modo Wyatt Earp (1994), che pecca di manierismo e lunghezza, con la presenza di Hackman all’inizio del film nel ruolo del padre degli Earp si assicura almeno un incipit dove la frontiera scolpita sul volto dell’attore permette all’operazione di partire col piede giusto, salvo poi girare su stessa fino ad annoiare. Non succede lo stesso con il successivo Pronti a morire, l’ultimo western interpretato da Hackman e diretto da Sam Raimi. Qui, il regista, giocando sugli stilemi dello spaghetti-western confeziona un bellissimo fumetto dai toni sempre alti, dove le caratterizzazioni dei personaggi e degli ambienti goticheggianti sono straordinariamente azzeccate e conferiscono al genere quella misteriosità e quella bizzarria che la frontiera aveva incarnato fin dalle sue origini. Il John Herod interpretato da Hackman, non è solo uno dei più bei villain del suo repertorio, ma è uno dei personaggi più cattivi e meglio resi nella storia del cinema. Battute tra il cinico e il lapidario che freddano per malvagità la parola altrui. Cattiverie gratuite, sguardi laidi e sadici, un’aggressività fisica senza limita, un superomismo che travalica l’accettabile. Il tutto in un unico personaggio glorificato da un finale tra i più spassosi ed epici mai visti.
Paradigma. Come Moby Dick è il grande romanzo nazionale, Gene Hackman è il grande attore che fa un Paese. Se Clint Eastwood è la coscienza critica americana più lucida del novecento cinematografico, Gene Hackman è l’attore che dà ossatura a tale critica. I suoi personaggi, anche se solo funzionali ad una semplice spy-story o polizieschi senza problematicità alcuna, rendono sempre l’idea di un irrisolto con il mondo. L’esterno in Hackman predomina e si fonde e confonde con l’esterno profilmico, senza gli sterili compiacimenti dell’introspezione. Questo lo porta ad incarnare meglio di chiunque altro in quasi 120 anni di cinema il sano spirito americano di praticità, sfida e sana individualità che spesso viene strumentalizzato con retoriche di bassa lega. Nonostante nel 2008 abbia annunciato l’addio alle scene, Gene Hackman resta il Grande Attore Americano che insieme a Clint Eastwood mi ha fatto credere nel cinema e nel potere della rappresentazione e della performazione attoriale che pratico con coerenza dal 1992. Recitazione che non è finzione intesa come menzogna, bensì finzione intesa come immagine critica e problematica del mondo.
Hackman, in conclusione, è il paradigma più riuscito di tutto quell’universo emotivo che ci portiamo dentro e che abbiamo paura di mostrare al mondo, prima che ci scopra deboli e bisognosi di affetto.
Frasi famose.
«Senti a me villano fottuto culo merdoso: hai circa due secondi per far uscire Stuckey o sfondo la sua porta a calci».
(Mississippi Burning, 1988).
«Le persone soffrono in modo diverso, Signora McDeere».
(Il socio, 1993)
«Devi trovare te stesso? Quando ti trovi dimmelo, mi piacerebbe conoscerti».
(Poliziotti a due zampe, 1990)
«I cavalli sono stupidi come lampioni, ma intuitivi come le pupe del liceo. Non hanno materia grigia, ma sanno quando qualcuno vuole montarle».
(Allarme rosso, 1995)
«Sono nervoso. Ce ne vuole per farmi paura. Adoro questa sensazione».
(Pronti a morire, 1995)
«Uccidere un essere umano è come fare l’amore, già, e dopo la prima volta diventa facile».
(Il principio del domino, 1977)
«Il baseball è l’unico momento in cui un negro può agitare una mazza davanti ad un bianco senza aver paura di essere ucciso».
(Mississippi Burning, 1988)
«Lei è arrogante per quanto è stupido».
(Mississippi Burning, 1988)
«Non so, io mi alzo la mattina e prego dio di arrivare alla sera senza che si accorgano che sono fasullo. La vita è tutto fumo e apparenza. Credevo di fare la cosa giusta, ma avevo torto, non so».
(Conflitto di classe, 1991)
«Noi siamo qui per preservare la democrazia, non per praticarla».
(Allarme rosso, 1995)
«Io decido chi vive e chi muore».
(Pronti a morire, 1995)
Link utili:
a) Gene Hackman – 7 cattivi che fanno un mito. //www.filmtv.it/playlist/49484/gene-hackman-7-cattivi-che-fanno-un-mito
b) Gene Hackman – 7 western che fanno un genere. //www.filmtv.it/playlist/46550/gene-hackman-7-western-che-fanno-un-genere
c) Svisceramenti. //www.filmtv.it/post/30760/svisceramenti
ALCUNE SCENE TOPICHE SENZA LE QUALI NON CI SO STARE.
Gene Hackman is badass in Mississippi Burning "Barber Scene"
Gene Hackman is badass in Mississippi Burning "Members Scene"
Gene Hackman is the absolute villain in The Quick and the Dead "This is my town" Scene
Gene Hackman in the explosive The Quick and the Dead "Harod Death" Scene
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