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Una questione di cuore
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In occasione dell’uscita de Il nome del figlio, adattamento italiano del testo teatrale che ha dato origine al fortunato Cena tra amici, colgo l’occasione per riflettere sulla sua regista e ragionare sul perché la ritenga tra le più valide della sua generazione. Se volessimo discutere in termini sessisti, Francesca Archibugi è probabilmente la miglior regista italiana in attività (assieme all’assai parca Francesca Comencini).

 

Il nome del figlio (2015): Trailer ufficiale

 

Lina Wertmuller e Liliana Cavani hanno sostanzialmente ballato per pochi anni con risultati altalenanti al netto delle proprie stagioni di gloria (diciamo gli anni sessanta e settanta), segnalandosi soprattutto per una “questione di genere” nel cinema dominato dai maschi. Cristina Comencini si pone, benché più debolmente, sul medesimo piano di Archibugi ma con una maggiore ricerca di crossmedialità (con i romanzi e le opere teatrali che scrive a parte). Quelle di Alina Marazzi, Marina Spada, Wilma Labate, Asia Argento, Giorgia Farina, Fiorella Infascelli, Giorgia Cecere, Stefania Casini, Giada Colagrande sono esperienze, ora significative ora secondarie, da segnalare e discutere. Parallelamente, almeno due voci del documentario italiano: la grande vecchia Cecilia Mangini e la nuova leva Costanza Quatriglio.

 

Purtroppo questo discorso, pur soffrendo di un inevitabile vizio di forma, mette in luce la chiara difficoltà delle registe di farsi strada in un territorio assai maschile se non maschilista, in cui il fatto stesso che siano, ovviamente, donne suggerisce ai commentatori la ricerca di uno “sguardo femminile” e una severità con la quale probabilmente non si affronterebbe l’opera dei registi maschi. In questo panorama, però, Archibugi risulta infine la più costante e autentica autrice del nostro cinema, con una propria cifra stilistica ben riconoscibile e una sensibile attenzione a determinati temi che hanno segnato una tappa importante del cinema italiano prodotto dagli attuali cinquantenni.

 

 

Parlo, per citare i nomi più autorevoli, dei Daniele Luchetti, Paolo Virzì, Giuseppe Piccioni, forse Silvio Soldini nonostante la scelta di una produzione più di nicchia e votata ad una nuova milanesità così come Carlo Mazzacurati e il racconto del suo nord est: una generazione che, nei suoi esempi più alti, ha garantito un minimo di ossigeno nell’asfissiante cinematografia nostrana degli anni novanta. Quel cinema che ha trovato la propria dimensione più abbietta nell’espressione “due camere e cucina” e uno dei riferimenti preminenti proprio in Archibugi, in virtù di un’etichetta che le si affibbia non di rado: è una radical chic della Roma veltrona. Che probabilmente è vero, ma è soprattutto incompleto: Archibugi è una che conosce il proprio mestiere.

 

 

Il nome del figlio, a scatola chiusa, presenta qualcosa de La terrazza di Ettore Scola e non a caso Archibugi è allieva dell’indimenticato Furio Scarpelli, come d’altronde l’altro sceneggiatore principe del nostro cinema a metà tra l’autorialità e l’industria (Francesco Bruni). Eppure Archibugi la si può interpretare non solo come discepola del maestro della commedia, ma anche in quanto prolungamento del magistero di Luigi Comencini, alla cui delicatezza mi pare accostabile e non soltanto per lo sguardo privilegiato nei confronti dell’adolescenza e dell’infanzia. Come Comencini, Archibugi sa individuare il lato buffo della malinconia senza ammiccare superficialmente al suo pubblico di riferimento, con una pulizia e una grazia attualmente pressoché rare.

 

 

Così il racconto di formazione nella periferia romana di un malinconico e solitario ragazzino innamoratosi di una bella ed antipatica cugina francese non può fare a meno, nell’economia di una cronaca familiare intimista e sensibile, delle turbe amorose della mamma stanca e tradita che ha una tresca col cognato. Con quel bambino che involontariamente rischia di ammazzarsi con la naftalina, Mignon è partita presenta una dichiarazione d’intenti ben precisa: raccontare il quotidiano senza rinunciare all’agrodolce garbo del tatto truffautiano con qualche carezza materna ma non buonista (Archibugi lo diresse col pancione).

 

 

Come già aveva intuito Scola ne La famiglia, incorona Stefania Sandrelli come la madre italiana per eccellenza (ci penserà Virzì a renderla indimenticabile con La prima cosa bella) e quindi la recupera come madre sottomessa ma amorevole in Con gli occhi chiusi, ardimentoso tentativo di trasporre l’opera di Federigo Tozzi con uno stile quasi elegiaco eppure denso di una consapevolezza da “cinema delle piccole cose” (sulla scia anche de Il prete bello di Mazzacurati). Un’altra madre sarà al centro de L’albero delle pere, con un disegno più critico che è forse un duro preambolo allo smarrimento generazionale dell’ultimo lavoro, nonché un topos degli autori della sua generazione.

 

 

Sullo sfondo ci sono anche le madri assenti di Verso sera e Il grande cocomero: il primo è una quasi struggente commedia abitata da uno splendido Marcello Mastroianni, nonno comunista ed insoddisfatto alle prese con una nipotina capitata per caso in casa sua perché lasciata dalla mamma contestatrice (che gioia la scena della giostra che cita I quattrocento colpi); il secondo, storia di una bambina malata ma soprattutto incompresa dalla famiglia che guarisce grazie alla tenacia del dottor Sergio Castellitto, è quasi certamente il capolavoro della regista e la più grande prova recitativa dell’attore, uno spaccato memorabile sulla condizione umana dei cosiddetti matti attraversato dalla figura della grande zucca di Linus in cui riporre le proprie speranze.

 

 

C’è poi un film di Archibugi che ritengo degno di una rivalutazione: Domani, racconto di anime sedentarie e sole o in transito temporaneo nell’Umbria devastata dal terremoto, in cui le ferite di un evento deflagrante quanto il tradimento di un’amica nella preadolescenza e la ricerca di un’impossibile felicità si scontrano con la necessità di un ritorno alla normalità. Lo metterei accanto a Questione di cuore, uno dei film italiani più belli e commoventi del decennio (complici due straordinari Antonio Albanese e Kim Rossi Stuart), perché anche qui la consapevolezza di una vita sfuggente e provvisoria impone l’esigenza di godere del lato più lieto della vita (è anche un film sul mestiere di scrivere, sulla gioia del racconto, sulla felicità come guarigione).

 

 

Tralascio Lezioni di volo, di cui non ho mai capito del tutto le intenzioni, e mi soffermerei brevemente su Renzo e Lucia, contestato e personalissimo adattamento de I promessi sposi partendo dalla prima edizione del testo manzoniano: al di là delle ovvie differenze, pur rinunciando all’ironia del grande milanese, Archibugi architetta un altro racconto sulla difficoltà di crescere con uno sguardo fosco per certi versi simile a Con gli occhi chiusi (di cui ritrova Sandrelli come mamma Agnese). È comunque la prova di una regista che si misura con uno dei testi fondamentali della cultura italiana nello spazio del piccolo schermo popolare, proponendo una lettura coraggiosa e degna di un approfondimento.

 

Nell’arco di ventisette anni, la quasi cinquantacinquenne Archibugi ha realizzato appena nove film di finzione (più due documentari), testimoniando l’intelligenza di un’autrice misurata e non smaniosa, ironica ed autonoma, la cui opera si colloca accanto ai citati Virzì, Luchetti e Piccioni, Mazzacurati, Soldini perché tutte legate dall’ambizione di voler raccontare il proprio Paese attraverso codici personali eppure comuni, ora declinandoli secondo i canoni della commedia tradizionale benché rivista e corretta, ora, come nel caso di Archibugi, proponendo un percorso limpido e coerente, non immune da quel vago “sguardo femminile” di cui sopra ma soprattutto, piaccia o non piaccia, sincero, lucido ed umano, confermando l'idea che il suo cinema sia una questione di cuore.

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