Naturalmente, come quasi ogni anno, possiamo limitarci a ciarlare sulle nomination all’Oscar senza aver visto la maggior parte dei film in gara per motivi squisitamente di uscite nelle sale. Dopotutto a che servono gli Oscar, specialmente nel mercato extra americano? Tanto a spingere qualche film bisognoso di allori da sparare sui flani pubblicitari e sulle locandine quanto a coronare grosse produzioni che necessitano dell’aurea del premio e talora costruiti apposta per essere premiati. È comunque l’apoteosi dell’industria americana, malgrado strizzi più di un occhio alle realtà più indipendenti e riesca a celebrare, nei momenti di maggiore felicità, film onestamente ottimi.
Queste righe, non a caso, dimostrano l’incidenza degli Oscar nell'immaginario collettivo. Mi capita non di rado di parlare con miei coetanei di attori, registi, film e quando cercano di motivare i propri gusti tirano spesso in ballo la magica frase: ha pure vinto l’Oscar (variante: e però ha vinto anche l’Oscar). Prendi Ben Affleck: dici che magari non è poi ‘sto grande attore, e quelli puntuali “e però ha vinto l’Oscar”. Gli esempi sono tantissimi, sta di fatto che l’Oscar tira ed è un investimento per il futuro di un lavoratore dello spettacolo. (Ventisei anni fa, il divino Mastroianni, candidato per Oci ciornie, disse che era molto improbabile una sua vittoria: che senso ha, sosteneva, premiare un sessantenne europeo che poco può dare all’industria americana? Vinse Michael Douglas). Va preso per quel che è: un grande gioco socio-economico-culturale che deve spaccare gli osservatori, celebrare le grandi rimonte, incoronare il divo in perenne ascesa e dare l’idea di un anno di cinema specialmente americano.
Cinque punti per ragionare su queste candidature.
- Morten chi? Tra i film in gara che ho visto, The Imitation Game è sicuramente uno dei più banali. Ha però un grosso padrino: Harvey Weinstein, dominus delle statuette da più di un ventennio. Harvey ha deciso che questo è Il discorso del re di quest’anno: alta scuola britannica, storia avvincente e sconosciuta, sapore retrò eppure contemporaneo. Piccolo particolare: Il discorso del re era un buonissimo film, questo no. Ciononostante, pioggia di candidature (8). La più assurda è quella per il miglior regista, specie in un’annata che poteva accogliere nella categoria gente come David Fincher (che avrebbe meritato e basta), Clint Eastwood (che, benché premiato due volte, perlomeno ha un suo sguardo) o perfino Ava DuVernay (che almeno avrebbe dato un po’ di sentimentalismo black/femminista). E invece no, ecco Morten, anonimo allestitore di un film senza stile accanto, per dire, ad un grande virtuoso della macchina da presa, che comunque non vincerà, alias Inarritu con Birdman (9).
- American carramba. Non ci credeva nessuno, nonostante qualche segnalazione dell’autonoma National Board of Review (che ha premiato come miglior film il qui totalmente ignorato A Most Violent Year), eppure il cecchino ha sparato al cuore di qualche membro dell’Academy (6 candidature). Accanto alla comprensibile esclusione tra i migliori registi dell’ottantaquattrenne già celebrato Clint, American sniper si porta a casa tre nomination pesantissime: miglior film (rivincita dell’estetica sull’etica: a me non ha fatto impazzire come a mezza Italia, ma è un film con una sua idea di cinema), miglior sceneggiatura (che poi bah, ma tant’è) e miglior attore (terza candidatura consecutiva e terzo probabile buco nell’acqua per Bradley Cooper, la cui prova è comunque dignitosa).
- Indiester. Grand Budapest Hotel non è soltanto il film che ha mandato in delirio frotte di hipster in tutto il mondo, ma è soprattutto un film spettacoloso, per cui è un assoluto piacere vederlo primeggiare (9 candidature). Boyhood non è soltanto il film che ha mandato in delirio frotte di indie in tutto il mondo, ma è soprattutto il più bel film dell’anno e una pagina fondamentale del cinema contemporaneo (6). Entrambi, intendo Anderson e Linklater, provengono da una tendenza malinconico-nostalgica del cinema americano d’oggi finalmente celebrato dai maggiori riconoscimenti. Accanto all’ancora inedito (per me) ma comunque indie Whiplash (5), confermano l’idea di un cinema umano che conosce i propri limiti, osa con coerenza senza manierismi e esprime con serietà due sguardi autonomi e personali.
- Da una storia vera. Chi dubitava sulla presenza di The Imitation Game e La teoria del tutto (5), film pensati per questa competizione? Nessuno. Come nessuno dubitava di Selma (2), stranamente ignorato nonostante il tema very liberal. Probabilmente sconta il fatto di arrivare dopo 12 anni schiavo che fu il modo con cui Hollywood ha pulito la propria coscienza civile. Tutti e tre parlano di “storie vere”, altra espressione magica che spalanca le strade degli Oscar. Sono storie vere anche Wild con Reese Witherspoon a caccia della doppietta e la rediviva Laura Dern (2), Foxcatcher con Steve Carrell col nasone e Bennett Miller candidato miglior regista ma bislaccamente non per il film (5) e Turner che la sfanga sulle categorie tecniche ma non tra gli attori, compreso Timothy Spall già Palma d’Oro a Cannes (4). E si noti che i tre cavalli di questa tornata sono tre finte storie vere (Boyhood, Birdman, Grand Budapest Hotel).
- Sorprese, esclusioni, delusioni, perplessità. Gone Girl è in gara solo con la strepitosa Rosamund Pike (avrebbe dovuto gareggiare almeno anche per il film, la regia, l’adattamento e la musica). Inherent Vice del grande Paul Thomas Anderson porta a casa segnalazioni per adattamento e costumi che sanno di stima ma anche di contentino (2). Interstellar si accontenta, giustamente, di segnalazioni tecniche malgrado le ambizioni (5). Marion Cotillard fa la rimontona ed entra in gara con Due giorni, una notte. Al contrario di Jessica Chastain di A Most Violent Year, che manca ancora una volta la consacrazione definitiva dell’alloro massimo, e Jennifer Aniston, che ci credeva davvero di poter fare il colpaccio con Cake. Così pure Lo sciacallo Jake Gyllenhaal, forse troppo sgradevole per piacere alla platea vecchia e bianca dell’Academy. Ida gareggia anche per la miglior fotografia. The Lego Movie manca clamorosamente la nomina per il film d’animazione. Infine, l’enorme ottantaquattrenne Robert Duvall, che ha in bacheca un Oscar e sei candidature, e Meryl Streep, che, benché confermi di essere una delle personificazioni di dio in terra, è alla diciannovesima nomination: non era forse il caso di segnalare qualcuno più debole cui dare una spinta, anche minima?
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