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OLTRECONFINE (4): ANGELINA (JOLIE) VA ALLA GUERRA; ATOM EGOYAN TORNA SULLE TRACCE (INNEVATE) DELLE SPARIZIONI CHE LO HANNO RESO GRANDE; LA DIGNITA' ORGOGLIOSA DI UN NATIVO AUSTRALIANO SECONDO DE HEER; ISAAC/CHASTAIN NELLA VIOLENZA NEW YORKESE ANNI 80
di alan smithee ultimo aggiornamento
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"Appunti veloci e primo impatto sul cinema che ci precede, su quello che ci sfiora, o addirittura ci evita; film che attendiamo da tempo, quelli che speriamo di riuscire a vedere presto, ma pure quelli che, temiamo, non riusciremo mai a goderci, almeno in sala."

Sempre meno paga di essere la più fotografata, la più bella, la più remunerata, la più vista (cfr. gli incassi italiani di Maleficent), la più invidiata moglie del marito più bello, la più perfetta mamma di gemelli e figli adottivi di ogni angolo del globo, Angelina Jolie ha da qualche anno mostrato un'attenzione ed una passione nei confronti della regia che la vede impegnata ora alla sua seconda, impegnativa, complessa direzione di una grossa produzione: una biografia di un reduce della Seconda Guerra Mondiale, l'eroico ed “immortale” Louis Zamperini, italo-americano campione olimpionico di atletica, costretto ad interrompere la sua eccelsa e promettente carriera di corridore perché impegnato nelle forze armate dell'aeronautica durante il secondo conflitto. Una serie di vicissitudini avventurose e drammaticissime faranno sì che l'eroe sia costretto a superare prove estreme ed apparentemente al di sopra delle possibilità di sopravvivenza per un essere umano: atterraggi di fortuna sempre più pericolosi, sopravvivenze per decine e decine di giorni abbandonato nell'oceano assieme a pochi sventurati, prigioniero dei cattivissimi giapponesi, salvo in extremis per poter raccontare tutta la sua incredibile storia, e riprendere a correre anche negli anni della vecchiaia per scopi di solidarietà verso buone cause.

 

 

Nonostante quello che (malignamente) si potrebbe pensare, UNBROKEN (INVINCIBLE nella traduzione-interpretazione francese) non è per nulla diretto male: anzi la Jolie sembra molto a suo agio, soprattutto nelle scene drammatiche degli atterraggi o nella lunga parte dedicata alla drammatica deriva a bordo di una scialuppa gonfiabile; attori bravi ed in parte, tra cui spicca il valido e già apprezzato (in '71 era eccezionale!!) Jack O'Connell, e il già noto “pelo rosso” Domhnall Gleeson (figlio smilzo dell'opulento, spesso grandioso Brendan) e l'inevitabile, fastidiosa retorica tutta americana che fa inevitabilmente capolino rendendo il film, nonostante l'impegno ed i mezzi spesi, un filmone tutto chiari e scuri, senza sfumature, dove ci sono i bravi ed i cattivi, la vita e la morte, la bellezza ostentata dei soldati americani (tutti con fisico da culturisti e visi simmetrici e da divi) che si antepone alla decadenza di fisici (gli stessi di prima, dopo la cura dimagrante imposta dalla crudele Angelina strega come in Maleficent) consumati dalla fame e dalle insidie di una natura inconciliabile.

VOTO **1/2

 

Atom Egoyan, regista canadese di origini armene che fu il mio preferito (o comunque nella manciata dei miei eletti) ai tempi di Exotica, Il dolce domani, Il viaggio di Felicia, torna con CAPTIVE, alle tematiche, dure e spietate, che lo resero grande: le violenze e gli abusi sui minori, la perdita di un proprio caro, il dolore atroce, insopportabile di chi resta, l'impotenza di chi si trova solo e senza gli affetti che giustificano un'esistenza che non sa dove andare e come organizzarsi senza la propria ragion d'essere.

La sparizione di una promettente pattinatrice sul ghiaccio di nove anni (tetro riferimento, certamente involontario, con drammatici recenti episodi veri di cronaca nera tutti italiani), svanita nel nulla dopo l'allenamento dalla macchina del padre il tempo che questi sbrighi una veloce commissione in una panetteria, getta sospetti sempre più devastanti e difficili da gestire sul povero straziato padre (Ryan Reynolds), sospettato di aver prima solo “affittato”, poi definitivamente “venduto” la figlia ad un clan di pedofili per questioni di lucro.

In realtà la ragazza è prigioniera di un insospettabile maniaco posto in alto nella gerarchia sociale di quella piccola comunità in una zona innevata e fredda del grande Canada e, dopo otto anni di dorata prigionia (si fa per dire), la stessa ha imparato a convivere quasi amorevolmente con il carceriere che ci si è affezionato e la usa come adescatrice di altri minori, non interessandole più sessualmente perché troppo adulta.

Seguiamo parimenti le concitate indagini di una tenace e temeraria poliziotta (Rosario Dawson) e del suo collaboratore-amante (Scott Speedman), che finiscono loro malgrado invischiati di persona in un intrigo giallo magari poco plausibile, ma di una certa efficacia narrativa, grazie anche ad un montaggio tutto flashback che il gran regista canadese dimostra di saper controllare e giostrare con la maestria che gli si riconobbe a metà anni '90.

 

 

Criticato o trattato freddamente a Cannes 2014, dove partecipò in Concorso, THE CAPTIVE ha il gran merito di restituirci il migliore Egoyan che conosciamo, lontano dalle incertezze ed i tentennamenti di Chloe e di Devil's Knot, e ci tiene incollati allo schermo, consci dell'inverosimiglianza di una a tratti forzata costruzione thriller magari un po' troppo scenica, ma di sicura presa emotiva. Nel variegato pregevole cast, segnalo in particolare Mireille Enos, madre coraggio vittima di un complotto che la distrugge lentamente aggrappandola ad una speranza sadicamente procrastinata all'infinito, e soprattutto il diabolico, mellifluo Kevin Durand. Il pedofilo insospettabile: un grande attore per un grande malvagio dalla organizzazione impeccabile, a prova di FBI.

VOTO ****

 

Con A MOST VIOLENT YEAR, il bravo regista dell'incalzante thriller “borsistico” Margin Call, J.C. Chandor, lascia gli oceani un po' castranti in cui rimaneva imprigionato un immedesimato ma un po' vanesio Robert Redford ne All is lost, per (ri)condurci nei primi anni '80 della New York: una metropoli piena di buoni motivi per arricchirsi ed accrescere il proprio giro d'affari con la società di trasporti condotta con tenacia da un attento imprenditore immigrato (Oscar Isaac): la sua società si occupa di trasporto di combustibile, e le mire astute dell'uomo di acquisire, da una società del giro del ceto ebreo, un lotto pregiato di terreno per stanziarvi il greggio, in modo da acquisirlo a prezzi favorevoli, fa maturare invidie e gelosie da parte di tutti i concorrenti che iniziano ad organizzarsi per boicottare in tutti i modi l'attività dell'uomo, arrivando a minacciare seriamente anche la tenace moglie (Jessica Chastain, la vera dura di famiglia) ed i figli piccoli.

 

 

Forte di una fotografia meravigliosa che riesce a rendere grandiose le immagini pertinentemente vintage di una Grande Mela degna difficilmente resa così splendida e nostalgica prima, A most violent year si fa forte di una tensione di natura più psicologica che fisica, in grado di devastare interiormente la tenacia e la scaltrezza imprenditoriale di un uomo che lotta in modo impari contro una casta che cerca tendenziosamente e con l'inganno più subdolo di metterlo a tacere per sempre. Nel gran cast di nomi già citati, un Albert Brooks trasformista e perennemente con le mani nel sacco completa un terzetto che merita la nomination all'Oscar.

VOTO ****

 

Nell'australiano CHARLIE'S COUNTRY, ritroviamo l'ottimo e volitivo regista Rolf De Heer, quello dell'horror cult-futurista-postatomico Bad Boy Bubby, nuovamente alle prese con gli aborigeni della propria terra natale e nuovamente dietro le spalle del più famoso attore aborigeno, quel Favid Gullpilil che ha già incontrato diverse volte, visto in molte altre produzioni, a volte anche di grosse majors (Australia su tutte).

L'attore interpreta Charlie, appunto, che si intestardisce a tornare a vivere secondo le origini della propria razza e civiltà, e per questo compie un percorso alla deriva che lo vede poi riunirsi ad un gruppo di suoi conterranei, schiavo come lui dell'alcolismo, e per questo perseguiti tutti con tenacia dall'autorità di polizia, tutta di razza bianca.

Ne esce un ritratto malinconico e pure dolce di un uomo solitario che suscita tenerezza per la confusione che anima le proprie intenzioni, tra spirito di ribellione ed indipendenza e necessità di conformarsi alle regole, pagando anche con la detenzione certe ribellioni fiere e risolute.

Dal Certain Regard di Cannes 2013, un film quasi documentaristico che trasuda di antipodi e di natura selvggia ed incontaminata.

VOTO ***

 

 

 

LA BELLE JEUNESSE è la traduzione francese dallo spagnolo Hermosa Juventud, opera quinta del regista iberico di Barcellona Jaime Rosales. Racconta le storie minime ma di vita di una coppia di ventenni che, senza soldi e senza un lavoro sicuro nella Spagna della crisi odierna, decidono di sfruttare una certa avvenenza che i reciproci corpi giovani trasmettono, per farsi ingaggiare da un regista di filmini porno, esibendosi per lui e ricavandone cifre per loro impossibili da ottenere in altri modi. Ma l'arrivo, inaspettato e certo inatteso, di una figlia, responsabilizzerà soprattutto la ragazza, che deciderà di tenerla e di dare un senso più compiuto ad una esistenza troppo logorata e banalizzata da una latente incorreggibile incertezza.

Ancora dal Certain Regard cannese, ma del 2014 stavolta, un piccolo film che si fa forza della severa attinenza alla vita e alla quotidianità di oggi, trovando la forza di sorreggere i suoi confusi protagonisti grazie alla consapevolezza delle proprie potenzialità umane, più che attitudinali, utili a sconfiggere lo sconforto e a superare le mille difficoltà del mal vivere quotidiano.

VOTO ***

 

AU REVOIR L'ETE' è un film giapponese che porta originariamente il titolo in lingua francese, ed opera seconda del regista Kiji Fukada, regista nipponico molto legato al mondo francofono e, probabilmente, amante dello stile “naturale” e quasi abbandonato a se stesso proprio di tanto meraviglioso cinema rohmeriano.

Senza (apparentemente) una direzione della fotografia, con una telecamera a mano che filma senza osservare nessuna tecnica o soluzione di ripresa se non il naturale, scoordinato seguito dei personaggi protagonisti, il film racconta dell'arrivo in una cittadina di mare di una traduttrice di trattati etnografici, Mikie, che, impegnata in una complessa traduzione di un testo in indonesiano,

 decide di trasferirsi in quel posto tranquillo con la diciottenne nipote Uchiki, per ultimare il lavoro. L'occasione per la donna di ritrovare un fidanzato di un tempo, ora impegnato a gestire un albergo ad ore piuttosto equivoco, farà in modo che la ragazzina, in piene vacanze estive, conosca un suo coetaneo rifugiatosi là dopo la catastrofe di Fukushima, impiegato pure lui in quella struttura. Sarà per la ragazzina l'estate delle prime esperienze amorose e delle incertezze che caratterizzano quell'età vulnerabile assalita da dubbi e da incertezze, oltre che dalle insicurezze che l'inesperienza acuisce e rende più fragili. In un Giappone sempre un po' inquietantemente grigio ed ordinario, cementificato e sin troppo ordinario e ben poco seducente, Au revoir l'été appare a tratti un po' disarmante ed irrisolto, senza la grazia e la magica ironia che un grande come Rohmer era in grado di evocare nelle sue storie apparentemente semplici, laddove l'ordinario incedere del tempo, delle stagioni, della vita quotidiana e la fluente retorica dei suoi brillanti protagonisti, riusciva ad arricchirci di passione per le cose semplici e per una teorica, matematica consapevolezza della capacità dell'amore di valicare con disarmante destrezza il flusso lento e spesso deludente che troppo spesso caratterizza il corso degli eventi.

VOTO **

 

 

 

Questa settimana escono in Francia anche due validi film visti in occasione dell'ultimo Festival di Venezia:

Loin des hommes, emozionante film di David Oelhoffen, con due grandi attori in rilievo, Viggo Mortensen e Reda Kateb (VOTO ****

 

 

 

e il ritorno atteso di Fatih Akin con The cut, che da noi uscirà come "Il padre" (VOTO ***1/2),

 

 

 

 

e l'ottimo insolito horror americano di una regista iraniana da tenere assolutamente d'occhio, Shila Vand, A girl walks home alone at night (VOTO ****), che ho visto e che mi ha incantato a Roma al Festival Internazionale: un film magnifico, che vi consiglio di annotarvi e di cercare di recuperare a tutti i costi.

Di questi ultimi tre film potete leggere le mie impressioni cliccando sul titolo.





 

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