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Rosi per sempre
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Mi ha un po’ sorpreso il vago disinteresse con cui è stata accolta la notizia della scomparsa di Francesco Rosi. Intendiamoci, le cause sono due: i fatti di Parigi che stanno giustamente monopolizzando l’informazione e l’età del regista (novantadue anni: voglio dire, è quasi nell’ordine naturale delle cose che a quell’età si trapassi). Tuttavia mi pare che si sia liquidata l’incidenza di Rosi nel cinema con qualche parola di circostanza o con superflue note a margine (esempio: perché repubblica.it, al di là delle foto e di qualche riga, sottolinea praticamente solo una conversazione tra Rosi e Saviano sulle “mani sulla città” per ricordare la cinquantennale carriera del regista?). Ora nessuno pretende di omaggiare meglio l’eccellente scomparso, però due o tre cose bisogna dirle anche per dovere d’occasionale riflessione.

 

 

Innanzitutto che il percorso cinematografico di Rosi è stato avventuroso e nemmeno tanto scontato. Penso che la fase più interessante della sua carriera sia quella, più o meno tre lustri, che va dall’apprendistato con Visconti fino a Le mani sulla città. Forse perché ho sempre covato un certo interesse nei confronti di quella generazione di napoletani che partirono “feriti a morte” («Viviamo in una città che ti ferisce a morte o t'addormenta, o tutt'e due le cose insieme») dalla città natale per conquistare Roma (a parte Rosi, pensiamo a Raffaele La Capria, Peppino Patroni Griffi, Giorgio Napolitano, a loro modo diventati tutti eccellenze nel loro settore), eppure, a mio parere, il tirocinio e i primi anni da regista di Rosi rappresentano bene il sistema del cinema italiano dell’epoca.

 

Il regista-star (Visconti), nonostante il carattere impossibile, forma un giovane di bottega che probabilmente poco a che fare con la sua idea di cinema (ma in realtà i punti in comune ci sono), e quel giovane parallelamente impara assistendo anche autori sideralmente opposti al Maestro (Emmer), scrivendo, tra le altre cose, un grandissimo film tra lo spettacolare popolare e l’impegno civile (il mai troppo ricordato Processo alla città) e perfino collaborando alla regia tanto di un tormentato regista redivivo (Alessandrini con Camicie rosse) quanto di un istrione esordiente dietro la macchina da presa (il Kean di Gassman). Prima del debutto, insomma, Rosi ha l’occasione di saltare dai pescatori di verghiana memoria de La terra trema ai quadretti popolareschi di Domenica d’agosto e Il bigamo fino al romanticismo disgraziato del capolavoro Senso.

 

 

Ed è secondo me questa la vera chiave di lettura del rosismo: una forte consapevolezza dei codici del popolare e una strenua volontà di voler incidere sulla società. Non è un caso che i primi quattro film della sua carriera da regista siano una incredibile sintesi di questa idea: La sfida ispirato a Pupetta Maresca; I magliari che commerciano stoffe in Germania, il capolavoro assoluto e seminale Salvatore Giuliano, che è un film sulla Sicilia e un appendice sulla sanguinosa nascita di una nazione; e il profetico e di anno in anno sempre più rivalutato Le mani sulla città (di cui mi pare sia imminente l’uscita in sala in versione restaurata da parte della benemerita Cineteca di Bologna).

 

L’altro snodo fondamentale della carriera di Rosi sta negli anni settanta, di cui è autore di riferimento per quello che ad oggi tendiamo a classificare come “cinema civile”, a braccetto col grottesco di Elio Petri con cui condivise una Palma d’Oro nel 1972. Rosi la vinse con Il caso Mattei che è un film incapace di invecchiare o di disinteressare, il suo Salvatore Giuliano del decennio per le modalità narrative e registiche con cui ricostruisce la misteriosa epopea italica dell’ex partigiano bianco fattosi magnate. Prima collaborazione con l’altro campione del cinema civile, quel Gian Maria Volontè che era già nel poco compreso e pacifista Uomini contro e che dominerà la scena anche in Lucky Luciano e nel Cristo si è fermato ad Eboli, primo segnale di un ritorno alla terra e di un recupero dell’intimità, seppur in funzione civile, che avrebbe poi trovato una sua dimensione nei tardi Tre fratelli.

 

 

In mezzo c’è lo sciasciano Cadaveri eccellenti, un film difficilissimo che guadagna col tempo un suo valore universale e premonitore, la testimonianza più barocca di un cinema stilisticamente asciutto eppure assai stratificato. È forse l’esempio migliore (e probabilmente mediato e mitigato) della tendenza più spettacolare del rosismo, autore capace di esplorare, invèro con alterne fortune, territori insoliti (la Spagna dei toreador de Il momento della verità; il meridione favolistico di C’era una volta; il film-opera Carmen; l’adattamento di Cronaca di una morte annunciata ancora con Volontè) e che forse riesce ad esprimersi in quel filone spettacolare solo nella congeniale dimensione del cinema civile.

 

La personalità dura, rigorosa e malinconica dell’uomo e la coscienza delle difficoltà della sua idea di cinema nel mondo contemporaneo l’avevano allontanato dalla macchina da presa da quasi vent’anni, dopo una tormentatissima riduzione de La tregua di Primo Levi, funestata dalla morte di due collaboratori storici (il direttore della fotografia Pasqualino De Santis e il montatore Ruggero Mastroianni) e probabilmente il suo esito più debole assieme a Dimenticare Palermo (in cui però ritrova Gassman). Rosi appartiene ad una splendida generazione di cinematografari baciati dalla grazia, che hanno raggiunto una posizione d’eccellenza dopo una vera gavetta da allievi-artigiani dietro le quinte o all'ombra di maestri, convinti che il cinema potesse fare qualcosa per la società.

 

 

Non lascia eredi perché il cinema di oggi è un'altra cosa rispetto alla sua idea, ma la sua influenza è indiscutibile: l'epica popolare di Giuseppe Tornatore (pensiamo a Il camorrista e allo splendido libro-intervista Io lo chiamo cinematografo) e l'etica civile di Marco Tullio Giordana (il film-inchiesta Pasolini - Un delitto italiano e il biopic militante I cento passi), l'essenzialità morale di Mario Martone (la Napoli antiretorica del dramma di ricerca Morte di un matematico napoletano) e il senso dello spettacolo di Paolo Sorrentino (Il divo è anche figlio di Cadaveri eccellenti), fino all'imminente Racconto dei racconti di Matteo Garrone (Gomorra non sarebbe stato tale senza Rosi) che ha più d'una parentela con C'era una volta.

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