UNA VIPERA SARÒ.
DIECI SFUMATURE DI FEMME FATALE
(SECONDA PARTE: 1915-1927)
6. L'ispiratrice: Musidora
(esordio da protagonista: 1915 – Les vampires)
"È priva di morale… e che problema c'è?", chiede Maggie Cheung in Irma Vep (2006) di Olivier Assayas. Il riferimento è, naturalmente, al personaggio scolpito nato da Musidora novant'anni prima, nei Vampires (1915) di Louis Feuillade. Musidora compare solo all’inizio del terzo episodio, Le cryptogramme rouge, annunciata su un manifesto di café-chantant che ne ritrae le sembianze stilizzate. Allo sguardo sospettoso del protagonista, il giornalista Philippe Guérande, le lettere maiuscole che formano il nome della vedette della serata, IRMA VEP, si animano e, danzando davanti ai nostri occhi, si ricompongono magicamente nell’anagramma VAMPIRE. Poi, tanto per non lasciare nell’ambiguità neanche lo spettatore più sprovveduto, si rimescolano ricreando il nome della cantante. All’interno, Musidora/Irma è già sul palco. Feuillade ce la introduce attraverso un piano americano che, attraverso il trucco e l’espressione del viso, la apparenta a una belva selvaggia.
L’immagine, ingenua quanto si vuole, aspira a un effetto di tremebonda seduzione. L'iconografia è quella delle vamp del periodo: occhi accalamarati, ghigno sardonico, denti digrignati, capello scarmigliato. Irma Vep appare così, un diavolo di Tasmania in agguato per ghermire la preda con un balzo al momento opportuno. Ci guarda in faccia, Irma Vep, ma con uno scatto dirige le pupille a destra come un felino attento ai rumori del sottobosco, al frusciare delle foglie al vento, a un pericolo nell’ombra, prima di riportarle su di noi, voltare lo sguardo sull’altro lato delle quinte e concludere la sua performance tra uno scroscio di applausi.
Pochi secondi in tutto, ma il personaggio si imprime indelebile nel DNA dello spettatore. Pochi secondi, ma sufficienti per farci capire che non di una ennesima vamp in salsa francese si tratta, non di un’altra femme fatale dall’appetito sessuale incontrollato, ma di un essere che condisce tutto ciò con perversione criminale, il che ne accentua vieppiù il carattere trasgressivo e antisociale.
Finito lo spettacolo, Irma e gli altri vampiri si ritrovano nel sottoscala del café-chantant ad assistere a una danza apache. Irma non è più al centro della scena, ma seduta all’estrema sinistra dell’inquadratura. Osserva, spettatrice tra gli altri spettatori, le evoluzioni dei ballerini. E, non più vamp, lo fa quasi con spontanea curiosità e con quella misura che costituisce il secondo tratto caratteristico della sua recitazione, oltre che in generale la forza evocativa del serial di Feuillade. Irma è l’ispiratrice dei vampiri e capace di azioni tra le più nefande senza un battito di ciglio, si muove nelle lugubri periferie parigine o nelle dimore altolocate delle sue vittime con naturalezza e economia di mezzi espressivi. Uno sguardo in tralice per un’idea malvagia che le attraversa la mente, un sollevare di ciglia per un’illuminazione improvvisa (plop!, sembra quasi di vedere la lampadina che si accende sulla testa come nei fumetti di Paperino) o per accentuare l’effetto sorpresa di un rivolgimento insospettato. Una sobrietà di movenze che solo contrasta con il luccicare maligno degli occhi.
Se Theda Bara e Louise Brooks si ricordano soprattutto per la forza delle loro immagini, così come traspaiono dalle fotografie prima ancora che dai film, Musidora si è fatta strada nell’immaginario di chi non ne ha mai visto i film per la dimensione simbolica associata al suo personaggio. Irma Vep e la sua banda trascorrono tutto il loro tempo a escogitare sempre nuovi espedienti per destabilizzare la società e sovvertirne l’ordine costituito. Sono le ombre che si annidano fra il luccichio della modernità e del progresso. Sono i fantasmi che turbano le coscienze borghesi degli spettatori e continuano a ossessionarli all’uscita della sala. Non è un caso che André Breton e Louis Aragon, due campioni del surrealismo in preda al fascino eversivo di Irma e la sua banda, così si esprimessero: “È nei Vampires che si devono cercare le grandi realtà di questo secolo. Al di là della moda. Al di là del gusto corrente”.
7. La scomposta: Pola Negri
(esordio da protagonista: 1918 – Sumurun)
Una sommessa confessione personale: se c'è una femme fatale al cui richiamo seduttivo sono sempre stato insensibile, questa è Pola Negri. So di non essere l’unico, se è vero che – narrano i biografi – persino i suoi ammiratori reagirono con insofferenza, avviandone la carriera verso il declino, dinanzi allo show da vedova nera e inconsolabile, tutta svenimenti e urli in stile tenètemi-che-se-no-faccio-un-subisso, da lei orchestrato al funerale di Rodolfo Valentino. Triste, peraltro, che sia stata questa la sua più memorabile apparizione pubblica.
Pola Negri, insomma, ci metteva la faccia. E infatti è uno dei pochi casi – nel melting pot delle femmes fatales del muto – in cui il personaggio scenico appare così inscindibile dal temperamento dell’attrice che lo impersonò. Vero è che, volendo inquadrare le cose nel giusto contesto, la recitazione della Negri, fatta di gesti esasperati e gusto per la pantomima, discende in linea diretta dalla tradizione teatrale tedesca dell'espressionismo e dall'influsso di registi come Max Reinhardt. Ma non si confonda la causa con l’effetto. Se l’immagine di una Theda Bara e della stessa Garbo è il prodotto di un’operazione consapevole di coaching e marketing protohollywoodiani, di Pola Negri tutto si può dire tranne che sia stata creata a tavolino. Se Asta Nielsen e Francesca Bertini – lucide imprenditrici della propria carriera – seppero piegare la loro versatilità attoriale alla caratterizzazione di uno stuolo di tipi psicologici e sociali disparatissimi, Pola Negri rimane sé stessa anche quando è Carmen, la Dubarry o Saffo. I suoi personaggi sono altrettanti avatar, altrettante declinazioni del suo temperamento travolgente, altrettante manifestazioni dell’argento vivo che ne percorreva fibre e precordi. E per la proprietà transitiva, la sua vita privata divenne essa stessa un film con tanto di sceneggiatura e ciak, si gira!
Nelle sei pellicole girate dal 1918 al 1923 con il suo mentore Lubitsch ci appare tale una mènade selvaggia, un’erinni dalle chiome arruffate e in perpetua agitazione, sia che interpreti una dama tutta imbellettata dell’aristocrazia francese sia nel ruolo di popolana intabarrata in stracci zingareschi. Nello Scoiattolo (Die Bergkatze, 1921), eccentrica parodia del militarismo germanico, è la figlia del capo di una banda di ladri, in realtà la domina della ghenga. Lubitsch ce la presenta nell’atto di svegliarsi con un sorrisone a tutto dente e allargare le braccia per spazzare gli ultimi residui di sonno. Ed eccola già fuori dalla capanna per mettere in riga i suoi compagni di scorribande. I quali, sia detto per inciso, non aspettano altro. Dopo una breve corsa sulla neve, la sadica Biancaneve prende voluttuosamente a scudisciate il suo personale corteo di nanetti masochisti, i quali peraltro reagiscono con gran sollazzo.
Bella, non c'è che dire. Ma di una bellezza scomposta e sudaticcia non messa in particolare risalto dalla regia né dall'interpretazione, agli antipodi quindi della valorizzazione che facevano della loro avvenenza le altre fatalone del periodo. Il che può spiegare il parere vagamente maldisposto di storici francesi come Sadoul ("singolare viso squadrato, mascella piuttosto brutale ma straordinari occhi di brace nera") o, peggio, Charensol ("Non si riesce a capire in verità in virtù di che cosa si siano tributati cotanti omaggi a questa donna dal viso inespressivo e corpo sgraziato"). Di tutt'altro avviso, ovviamente, Lubitsch, che di lei diceva nel 1938: "Credo che sia una delle persone più vitali che io abbia mai conosciuto". E aggiungeva: "Abbina questi due requisiti fondamentali: il colore naturale (l'arte di far parlare e scrivere di sé) e un istinto artistico altamente sviluppato e sensibile". Soprattutto i suoi grandi occhi neri non lasciano indifferenti e si prestano a un ventaglio di interpretazioni, consegnando allo spettatore impressioni diversissime come sensualità e incostanza, meglio se di marca orientale, risolutezza e decisione, ma anche languore e vulnerabilità.
Pola Negri non conosce la staticità delle pose sovrabbondanti nei film della Garbo, così intense da essere quasi sospese in una dimensione temporale a parte rispetto alla trama del film. La posa per lei è sempre semanticamente rilevante e punta dritto all'espressività. In realtà può aver colto nel segno quel recensore coevo di Madame Dubarry (id., 1919), secondo cui, pur essendo bella, non faceva il minimo sforzo per sembrarlo. Che sia arrivato il momento di guardarla con occhi nuovi?
8. L'ineffabile: Greta Garbo
(esordio: 1923 – Gösta Berlings saga)
Scrive Luis Buñuel in un articolo del 1927 che il cinema trova il suo linguaggio nel primissimo piano. Se così è, mai volto è stato più cinematografico di quello della Garbo. Un volto perfetto, di luminosa bellezza, capace – anche e soprattutto nella totale immobilità dei tratti – di trasmettere un prisma di emozioni costantemente cangiante.
Il tutto con la nostra complicità di spettatori. Anzi, la verità è che siamo noi spettatori a scorgere ciò che ci pare trasparire da quel volto multiforme, a vedere nel volto della Garbo ciò che vogliamo vedere, a cogliere in quella eccezionale fotogenia – ognuno per proprio conto – la nostra personale risposta al mistero Garbo. Eterna come le sabbie del deserto, ineffabile come la Monna Lisa nella descrizione di Walter Pater, enigmatica come la Sfinge, volto d’uomo trasmutato in strangolatrice per accidente della storia. In questo è veramente cinematografico il volto della Divina: nella sua capacità di non dire, ma di evocare. E nel farsi strumento principale di un'abilità attoriale forse mai superata nella storia della settima arte.
I close-up della Garbo si contano a decine, ed è pur vero che ogni film ne conteneva un certo numero per contratto. Ma se mi chiedessero di sceglierne uno solo da tramandare ai posteri, non avrei esitazioni. Non sarebbe il citatissimo finale della Regina Cristina (Queen Christina, 1934), in cui una Garbo al culmine della carriera fa leva su un corredo ben rodato di strumenti interpretativi, dilavando il viso da ogni passione terrena. La regina svedese non è una donna reale, ma un’immagine idealizzata e quintessenziale della femminilità, uno di quei personaggi romantici senza tempo come la Gruzinskaja, Margherita Gautier, Maria Walewska o Anna Karenina, a cui l’intensità va come un guanto e non teme il ridicolo. Più difficile trasferire tale intensità, mantenendola credibile, in un contesto contemporaneo in cui la Garbo interpreta non il mito, di fronte al quale ogni uomo è spiazzato, ma una donna del suo tempo. Ed è nella fase muta della sua carriera, con film come Il destino (A Woman of Affairs, 1928), Donna che ama (The Single Standard, 1929), Il bacio (The Kiss, 1929) che la Garbo appare in ruoli sorprendentemente attuali, giovane protagonista del suo tempo, lontana dal cliché senza tempo dell’eroina passionale e infelice. E per questi motivi il primo piano che più prediligo è quello tratto dalla scena del boudoir nel film di Jacques Feyder Il bacio.
La sequenza si apre su un ingrandimento della parte superiore del volto, dall'attaccatura dei capelli al naso. Gli occhi vengono a trovarsi al centro dell'inquadratura, le palpebre appena socchiuse. L’incarnato è di un chiarore lunare, il viso è definito dalla precisa linea degli zigomi.
Lo sguardo della Garbo è vertiginoso e insondabile, può esprimere tutto e il suo contrario. Dall'autocompiacimento per la propria avvenenza, a una lontana melanconia, dalla malizia di chi si accinge a sedurre, alla meditazione. Fra un momento, il velo delle ciglia potrebbe abbassarsi del tutto mostrando il personaggio in preda allo sconforto. Oppure le labbra potrebbero schiudersi nel riso più sguaiato. Tutto è possibile. Sennonché succede qualcosa di ancora diverso. La Garbo si passa un dito sul labbro inferiore per sfumare il rossetto, dopo di che la macchina indietreggia per rivelare che quel viso, in realtà, non è che un'immagine allo specchio. Il riflesso di quel riflesso della complessità umana che è il viso della Garbo.
Sarebbe iniquo non riconoscere che la fotogenia è solo un aspetto – magari il più eclatante, ma non l’unico – dell'intelligenza drammatica della Garbo. Persino nei film muti la sua immagine, comprensione del ruolo e tecnica recitativa appaiono così moderne che, come Michelangelo dinanzi al Mosè, spesso ci sorprendiamo che le sue labbra non emettano suono. Guardiamola ancora nel Bacio, nel momento in cui, seduta sul divano, assiste all’ingresso in casa del giovane Pierre. I suoi movimenti sono fluidi, ritmati e naturali. L’anticonvenzionalità della recitazione della Garbo è particolarmente palese nel confronto con le performance dei colleghi, specie nelle scene d’amore. Movimenti parsimoniosi, come il sollevamento infinitesimale del mento, comunicano molto più di quanto non facciano gli occhi sbarrati e il sorriso ordinario di un John Gilbert. E per inciso ci consegnano una grande lezione sulle differenze di tecnica recitativa che di lì a poco si sarebbero palesate tra il vecchio mondo del muto e la nuova fase del sonoro. Greta Garbo sceglie di non emulare i modelli di recitazione che andavano per la maggiore – tranne, forse, il naturalismo della grande collega scandinava Asta Nielsen – ma crearsi e imporsi una cifra stilistica propria alla quale resterà sostanzialmente fedele fino a Ninotchka (mentre Non tradirmi con me [Two-Faced Woman, 1941] va visto appunto come tentativo malriuscito di rinnovare la propria palette interpretativa). Ed è sintomo di preveggenza e grandezza che quella tecnica, traghettata senza sforzo – caso peraltro più unico che raro – nel passaggio dal muto al sonoro, abbia dettato lo standard recitativo di generazioni di attrici a seguire.
9. L'iconica: Louise Brooks
(esordio da protagonista: 1926 – A Social Celebrity)
Solo almeno tre i motivi che fanno di Louise Brooks una figura singolare nella storia del divismo. Il primo consiste nell’essere diventata una delle icone dell'era del muto avendone percorso solo una traiettoria relativamente breve: giusto i quattro anni che vanno da The American Venus (1926), il primo film in cui sia accreditata, al Diario di una donna perduta (Tagebuch einer Verlorenen, 1929). Il secondo è quello di aver visto la propria fama seguire una curva esponenziale soprattutto dopo il ritiro dalle scene, mentre durante la sua carriera non risulta che sia stata oggetto di interesse o culto al di là del normale. Il terzo motivo, quello che più interessa in questo contesto, è quello di essere assurta a emblema della femminilità carismatica non tanto sulla base del suo gioco scenico quanto dell'immagine, come testimoniano le tante copertine di volumi sul cinema che ancora oggi recano il suo volto. I capelli a caschetto, certo, che restano un marchio di fabbrica come, anni dopo, la pettinatura peekaboo di Veronica Lake. Ma soprattutto l'allure di femmina perduta, dove l'angelicità dei tratti fa letteralmente a pugni con la tossicità del personaggio. E dei 24 film girati, due terzi dei quali nel periodo muto, si ricordano soprattutto i due che più veicolano l'idea di perversione: Il vaso di Pandora (Die Büchse der Pandora, 1929) e, appunto, Il diario di una donna perduta, entrambi di Pabst.
Lo stile di Louise Brooks non potrebbe essere più lontano dai virtuosismi mimici delle dive del decennio precedente. A prima vista è persino difficile parlare di stile, visto che il più delle volte la Brooks non sembra neanche investire il suo corpo nella recitazione, ma abbandonarsi con una certa sorpresa alle emozioni del momento. I movimenti sono fluidi e plastici, mai troppo dinamici. La tensione, la rabbia, l'indignazione vengono contrappuntate da un leggero aggrottare delle ciglia, da un infantile atteggiare degli occhi al pianto, dal dimenarsi ritmico delle ciocche laterali, al limite dal pestare – non troppo convinto – dei pugni. Ma altrettanto misurati sono i momenti di trionfo. Quando la fidanzata di Schön lo sorprende tra le braccia di Lulù, quest'ultima si lascia andare a un sorrisino di vittoria appena accennato. Dopo di che si tira su rapidamente e, radiosa, esce a lunghi passi dalla scena. Quanto questa apparente noncuranza nei confronti della macchina da presa fosse consapevole e non solo istintiva, nella ragazza del Kansas che avrebbe voluto diventare ballerina, è difficile a dirsi. I suoi estimatori invece non sembrano nutrire dubbi. Henri Langlois parlò di "un'arte così pura da diventare invisibile". E Kenneth Tynan aggiunse che, pur senza averne l'intenzione, Louise Brooks reinventò l'arte della recitazione cinematografica. Sennonché – penso io – non tutti ci sarebbero riusciti con mezzi così risicati. Perché è vero sì che l'espressività della Brooks non è mai troppo marcata neanche nelle scene più drammatiche, ma a soccorrerla interviene una sensualità prepotente che poche attrici nella storia del cinema hanno potuto vantare.
L'understatement di Louise Brooks appare di stupefacente attualità rispetto alla maggior parte delle sue conteemporanee, e sembra precorrere di decenni certe tendenze posteriori. È nella sua arte che un critico accorto come Alan Stanbrook trova le origini di memorabili performance a noi più vicine. Dall'ellissi emozionale della grande Monica Vitti dell'Avventura (1960) all'espressione della sofferenza, più nel corpo che nelle parole, nella Meryl Streep di Kramer contro Kramer (Kramer vs Kramer, 1979), alla Anna Karina di Questa è la mia vita (Vivre sa vie, 1962), in cui Jean-Luc Godard cercò intenzionalmente – e vanamente – di ricreare Lulù anche sul piano fisico. Vanamente, perché, per citare ancora Henri Langlois "non c'è Garbo! Non c'è Dietrich! C'è solo Louise Brooks!".
10. La bipolare: Brigitte Helm
(esordio: 1927 – Metropolis)
Brigitte Helm nasce, sul piano cinematografico, come immagine stessa della doppiezza. In Metropolis (1927) il continuo gioco di contrapposizioni e sovrapposizioni di significati simbolici la obbliga a una versatilità interpretativa che ha del sublime, il sogno di ogni attrice che si rispetti. Brigitte Helm si trasfigura con efficacia, riuscendo a conferire a ciascuno dei due personaggi sfumature intermedie alla polarizzazione tra bene e male assoluto. Maria è l’astrazione della virtù angelicata quando spiega in tono asciutto, quasi indifferente, ai bambini degli operai che quell’uomo e quella donna che si rincorrono e ruzzano spensierati nel giardino dei piaceri sono loro fratelli, sia pure fratelli di un dio maggiore. Ma è anche una donna che prova passioni terrene: terrore dinanzi al tentativo di rapimento di Rotwang, amore romantico per Freder, compassione per il destino dei lavoratori di Metropolis. È la mamma che si prende cura dei figli di questi ultimi durante la scena dell’inondazione e, con piglio pratico e deciso, li conduce verso la salvezza.
All’angelo Maria, annunziatrice e madre del Verbo che si transustanzierà nel giovane Freder, fa da contraltare diametralmente opposto la grande tentatrice Maria, che cerca di arginare il processo salvifico a cui aspirano i diseredati della città sotterranea. Il robot non è un automa che si limiti a eseguire passivamente le istruzioni di Rotwang, ma un essere dotato di vita propria con facoltà di scegliere il modo migliore per operare il male. L’ambiguità è allo zenit quando, in uno straordinario primo piano, la perfida Maria strizza l’occhio al proprio creatore, lasciandogli intendere di aver capito (obbedienza) e suggerendogli di lasciar fare a lei (libera iniziativa). Maria ammicca in modo lento ed esitante, bizzarro e innaturalmente goffo, proprio come si conviene a un umanoide di ferraglia. Ma al tempo stesso lo fa con lascivia tutta umana, utilizzando lo stesso codice comunicativo e semantico di cui si servirebbero in modo spontaneo due esseri senzienti. Il sospetto è che la Maria indemoniata sia in fin dei conti il doppione nascosto della Maria angelicata; la mistress Hyde che esce allo scoperto nelle ore notturne quando il benefattore dottor Jekyll è fuori campo; il perverso dottor Moriarty, così opposto negli intenti eppure così simile per intelligenza al suo eterno inseguitore Sherlock Holmes.
E Brigitte Helm non fa che sottolineare tale ambigua perversione. Lo fa con la bellezza atipica del suo viso – il naso aquilino, il lieve strabismo, il mento puntuto e la bocca a cuore –, che rimodella continuamente per esprimere pensieri e passioni contrastanti. Ma soprattutto con il suo muoversi schizofrenico di fronte alla macchina da presa. Dall’incedere impettita delle prime scene allo sgattaiolare, strisciare, ondeggiare, contorcersi, ancheggiare voluttuosamente, indietreggiare inorridita, con quelle mani e quelle spalle che sembrano vivere di vita propria. E sì che aveva appena diciannove anni.
Metropolis, insomma, si preannunciava come punto di partenza ottimale per affinare una tecnica recitativa già solida, per forza di cose non ancora del tutto matura, ed esplorarne le potenzialità grazie a un ventaglio di ruoli variati. Invece rimase un punto di arrivo insuperato. I film successivi di Brigitte Helm, penso a L’argent (id., 1928) di L’Herbier e ad Alraune la figlia del male (Alraune, 1930) sfruttano ancora l’idea di depravazione latente che l’attrice sembrava suggerire a registi e spettatori, e che già era stata alla base di Metropolis. Mentre i tentativi di scrollarle di dosso l’immagine di vamp e rinnovarne il curriculum grazie a ruoli di eroina romantica finirono per renderla una specie di clone della Garbo.
Nel frattempo, un mondo tramontava e l’avvento del sonoro iniziava a scompigliare le certezze. Nuovi volti, nuovi modelli recitativi, in cui la parola detta contava quanto e più di quella solo suggerita dall’espressione del viso, e con essi nuovi tipi di femmes fatales, si andavano stagliando inesorabilmente all’orizzonte. Per parafrasare Levi, furono più i sommersi che i salvati. La Helm, pur essendo inequivocabilmente un volto da cinema muto, rientrò a suo onore in quest’ultima categoria. Ma durò poco, per sua volontà, e in fondo si capisce. Chiunque, dopo aver girato un film come Metropolis, avrebbe pensato in cuor suo – anticipando in questo la Norma Desmond di Viale del tramonto – che il cinema era ormai diventato piccolo, troppo piccolo.
Riferimenti bibliografici:
Buñuel L., "Del plano fotogénico", in Gaceta Literaria, 7, 1927, pp. 154-157.
Charensol G., Panorama du cinéma, J. Melot, 1947.
Eyman S., Ernst Lubitsch: Laughter in Paradise, JHU Press, 2000.
Sadoul G., Eisenschitz B., Histoire général du cinéma. 4. Le cinéma devient un art: 1909-1920, Denoël, 1973.
Stanbrook A., "The Legend of Lulu", 7 Days, 28.1.1990, pag. 12.
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