"Appunti veloci e primo impatto sul cinema che ci precede, su quello che ci sfiora, o addirittura ci evita; film che attendiamo da tempo, quelli che speriamo di riuscire a vedere presto, ma pure quelli che, temiamo, non riusciremo mai a goderci, almeno in sala."
A Ridley Scott tuffarsi a capofitto nei dettagli delle grandi civiltà del passato piace parecchio, e sempre più spesso lo ritroviamo impegnato a confrontarsi con nuovi adattamenti di fatti, personaggi e miti del passato, già ampiamente rappresentati dal cinema in questi suoi oltre cent'anni di vita.
E dopo almeno due storiche riproduzioni, quella hollywoodiana sfavillante ad opera di Cecil B. DeMille con un torvo ed impietoso Charlton Heston, dopo la leggendaria versione televisiva italiana del '74 seguita a furor di popolo da tutta la Penisola, con l'ottimo e più tollerante e pacato (rispetto al precedente) Burt Lancaster e la regia del completamente dimenticato Gianfranco De Bosio, ecco che la vita, le imprese dell'uomo che liberò gli ebrei dalla schiavitù tentando di offrir loro una terra promessa e definitiva (quella che cercano ancora oggi, per la verità) viene riproposta con la magniloquenza ed il gran mestiere del grande regista inglese di Blade Runner.
Che, forte di un budget in linea con le produzioni dell'ultimo ventennio, con EXODUS: DEI E RE realizza un colossal visivamente stupefacente in stile DeMille, forte di un gran cast su cui primeggia, per risolutezza e tenacia, espressività e motivazioni non dissimili a personaggio reso da Heaton, un Christian Bale sempre più star incontrastata e dalla grande personalità.
La storia del Messia degli ebrei glissa velocemente sulla giovinezza di Mosè, tralasciando completamente la storia del bambino nella cesta salvato dalle acque dalla compassione della regina, e procedendo spedito sul finale con la stesura delle tavole dei comandamenti.
La storia infatti si concentra sulla cacciata di Mosé da parte del futuro faraone Ramses inizialmente suo amico fraterno, almeno fino a che quest'ultimo non ne intuisce le potenzialità in grado di estirpargli di mano le redini del potere. Scappato sino all'oasi di Madlan, Mosè si sposa con una bella giovane di nome Zippora e conduce una vita da pastore, fino a che non viene chiamato da un emissario di Dio che, nelle vesti di un bambino, lo educa e lo guida fino al percorso di salvezza che portò un intero popolo, soggiogato e ridotto in schiavitù, a lasciare l'Egitto per raggiungere l'agognata terra promessa.
Un Dio rancoroso, pieno d'ira incontenibile questo che parla a Mosè: che non esita a gettare sugli esseri umano usurpatori delle libertà inviolabili le dieci piaghe che decimarono gli Egizi: eventi che l'occhio acrobatico e sofisticato di Scott si esalta a mostrare in tutta la loro incredibile furia devastatrice, sotto forma di enormi coccodrilli, di morie di pesci che creano acque insanguinate, poi nugoli di rane, poi vermi, poi cavallette, grandine grossa come sassi, orribili piaghe virulente sulla pelle e quant'altro. Poi l'incedere delle tenebre che si porta via tutti i bambini non protetti dal sangue dell'agnello, e poi la rocambolesca fuga nel deserto di un popolo intero, la camminata tra le acque ritiratesi per travolgere poco dopo la truppa egizia. Un carosello visivamente fantastico per una rappresentazione definitiva e sin concisa del percorso terreno lungo, accidentato e travolgente del padre degli ebrei. Un film certamente non necessario, ma che si adatta perfettamente allo spirito (se ne esiste ancora uno) del periodo natalizio. Ed infatti un film che esce oggi con pertinente tempismo in Francia proprio la vigilia del Natale, circostanza non permessa in Italia dove l'esigenza di non ostruire troppo il percorso dei nostri terrificanti e quest'anno ben trini cinepanettoni, ne prevede la postergazione a metà gennaio.
Exodus: Dei e Re non accende nuove luci straordinarie su una carriera registica forte di ben quattro o cinque pietre miliari della cinematografia di tutti i tempi, ma è un film sontuoso che accontenta la nostra sete di meraviglia visiva ormai abituata a tutto: la rappresentazione delle piaghe che si abbattono su una umanità ormai deviata e imbestialita, la fuga in massa tra un mare impetuoso pronto a richiudersi in se stesso e la scena dell'inseguimento sui sentieri montani del Sinai degli egizi, con cadute rovinose di carri e cavalli e frane devastanti, sono comunque grandi momenti di cinema che seppelliscono qualche noioso siparietto familiare e fanno dimenticare qualche tempo morto di raccordo.
VOTO *** !/2
Per restare nelle grandi produzioni, IL SETTIMO FIGLIO del discontinuo ma talvolta notevole regista russo Sergey Bodrov (Il prigioniero del Caucaso, Decisione rapida, Mongol) è un fantasy tratto dall'omonimo romanzo di Joseph Delaney, che ci riporta in un passato lontano quanto imprecisato: un Medioevo dominato dalla stregoneria nera che soggioga quella bianca ed innocua per sottomettere le redini di una umanità sempre più indifesa e allo sbando. La strega più temuta, Mamma Malkin, si è liberata ed un cavaliere incappucciato già in età, ma ancora arzillo, sa bene che per catturarla ha bisogno dell'intervento del settimo figlio maschio di un settimo figlio precedentemente in attività. Una volta trovatolo, l'uomo ha tempo solo pochi giorni per insegnare al ragazzo, volonteroso ma acerbo, le tecniche per sconfiggere il male: la luna piena e rossa, condizione indispensabile per agire contro la strega e il suo esercito, sta per apprire in cielo e l'istruzione del novello messia deve limitarsi a pochi giorni.
Jeff Bridges, Julianne Moore, Olivia Williams, Ben Barnes, Djimon Hounsou sono solo i più noti tra i nomi di un cast potente che cerca di dare luce ad un filmetto molto banale e pieno di deja-vu.
Qui, a parte qualche panoramica da vertigine, ed un inseguimento-lotta con un gigantesco goblin apparso da sottoterra (una serie di belle sequenze, bisogna ammetterlo), il film frana in vezzi e macchiette da congrega di streghe e nella gigioneria di un Jeff Bridges pettinato ancora da Drugo, doppiato malissimo da una voce francese che lo rende un clown farsesco e, nuovamente come nel capolavoro dei Coen, affiancato da una (questa volta) manierata e smorfiosa Julianne Moore che pare divertirsi molto (beata lei), al contrario di tutti o quasi gli spettatori, stanchi del solito filone ormai davvero usurato e ripetitivo.
VOTO **
COMING HOME segna il ritorno sulle scene cinematografiche del gran regista cinese Zhang Yimou, dopo tanto tempo di nuovo assieme alla sua ex-musa Gong Li, e nuovamente su sentieri intimi che hanno contraddistinto gli esordi, dopo almeno un decennio consacrato al “cappa e spada” in stile wuxiapian. Ai tempi della Rivoluzione Culturale cinese, un professore dissidente viene arrestato e tenuto imprigionato lontano dalla moglie, professoressa pure lei, e la figlioletta, che crescendo diviene una promessa della danza, esibendosi in spettacoli organizzati e sponsorizzati dal partito al potere. Quando l'uomo scappa di prigione, e cerca di tornare a rivedere l'amata moglie, questa fa di tutto per aiutarlo e rivederlo, ma l'intervento molesto della figlia, infervorata col regime al potere, impedisce drammaticamente ai due di incontrarsi ad un appuntamento nei pressi della stazione, occasione drammatica in cui la moglie rimane ferita alla testa in un incidente che le toglie la memoria.
Quando il marito verrà rilasciato anni dopo, la donna, invecchiata e sempre più labile mentalmente, non riuscirà a riconoscerlo e l'uomo deciderà di assumere il ruolo del buon vicino che gli legge le lettere mai ricevute che egli stesso scriveva alla donna durante l'interminabile prigionia.
La grande occasione di rivedere Gong Li in un nuovo magico personaggio drammatico di donna svanisce nella prolissità e pesantezza d una vicenda strutturata in modo impacciato e bolso in cuo la presenza della star non pare mai determinante né in grado di suscitare molte emozioni.
Rimaniamo purtroppo sui binari desolati di un fumettone melò quasi caricaturale e davvero poco emozionante. Meglio sarebbe stato per il regista, rimanere sulle orme positivamente collaudate del wuxia, per quanto il genere pare ormai aver perso la magia dei tempi de La tigre e il dragone.
VOTO **
THE GATE invece segna il ritorno del regista di Indocine Regis Wargnier in un dramma ambientato in Cambogia nel sanguinoso periodo dei Khmer Rossi di Pol Pot. Un dinamico etnologo addetto al restauro di alcuni templi locali, impersonato dal divo nascente d'oltralpe Raphael Personnaz, viene catturato dai guerriglieri ed accusato di collaborare con la Cia. Imprigionato, riesce a stringere un accordo di collaborazione con il suo aguzzino e carceriere, e a guadagnarsi un espatrio che lo riporta nella natia Francia. Ma la necessità di condurre con sé la ragazza di cui nel frattempo si è innamorato e la sua famiglia, contraria al regime, mette in pericolo la sua vita e quella dell'intera ambasciata francese, nei giorni che precedono la chiusura forzata della struttura per la rottura dei rapporti della dittatura con l'intero Occidente.
Il film si risolve in una concitata fuga sullo sfondo di un genocidio che il cinema ha altrove e molto bene documentato. Ne L'immagine mancante un insieme di statuine ha reso indelebile nella nostra mente la testimonianza di un sopravvissuto: questa vicenda, pur concitata e drammatica, finisce per svilire la base ed il contesto della vicenda per chiudersi in atmosfere pseudo-thriller che banalizzano ed appiattiscono la sostanza, rendendo devastante il confronto tra le due opere.
VOTO **
Gran film, piccolo gioiello georgiano in lizza per lo stato dell'Est ai prossimi Oscar, è CORN ISLAND, conosciuto e distribuito in Francia col titolo appropriato “La terre ephémère”. Ben quattro anni di riprese per consentire al bravissimo regista George Ovashvili di riprendere la stagionalità che permette, lungo le acque del fiume Inguri, che scorre alle pendici della catena del Caucaso fino al Mar Morto, la formazione di isole di terraferma fertilissima ove alcun contadini locali si insediano per seminarvi il grano, farlo crescere, maturare in tempo per raccogliere il frutto prima che l'isola venga inghiottita nuovamente dalle acque pr formarsi da un'altra parte, magari nelle vicinanze, sempre diversa ma sempre della stessa terra di riporto.
Seguiamo il lavoro concitato di un anziano coltivatore, coadiuvato dalla preziosa presenza della giovane nipote quattordicenne, mentre sul fiume passano continuamente truppe armate delle due fazioni in guerra tra loro, e mentre un disertore in fuga e ferito chiede loro asilo e soccorso, nella piccola baracca al entro dell'isolotto.
Una accorta e suadente regia segue il lavoro dei campi, sorvola e circumnaviga l'isolotto, microcosmo di vita e fertilità, luogo di riparo e di sopravvivenza, almeno finché la natura, l'unica veramente potente ed eterna, decide di riprendersi inesorabilmente tutto ciò che le appartiene, in una scena finale incredibile per efficacia e resa scenica, in cui dall'alto vediamo sfaldarsi letteralmente l'isolotto, che si scioglie velocemente come uno zuccherino un un bicchiere d'acqua bollente.
Un film di sapore neorealista unico, sensazionale, da premiare davvero con l'Oscar.
VOTO *****
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