Ora noi si potrebbe discutere per ore sul concetto di “commedia all’italiana”: per alcuni è una categoria dello spirito, per altri non esiste in quanto genere, per altri ancora è una forzatura critica. La lettura più equilibrata mi sembra quella offerta da Masolino D’Amico (in estrema sintesi: sono film comici che affrontano temi drammatici e riflettono la loro epoca), ma fare grandi rivelazioni in materia non è l’obiettivo di queste righe. Qui mi interessa sottolineare un altro concetto: la cosiddetta commedia all’italiana è un’opera collettiva. Gli autori della commedia all’italiana sono i registi, gli sceneggiatori, gli attori, i tecnici, i produttori. Apoteosi di una sorta di consociativismo professionale oppure macedonia indistinta e contraddittoria, ognuno la veda come vuole. L’occasione per questa piccola riflessione è il quarantesimo anniversario dall’uscita nelle sale di C’eravamo tanto amati. Che, con un’esagerazione astorica, in virtù della sua uscita nel ventuno dicembre, lo si potrebbe definire il cinepanettone del millenovecentosettantaquattro.
Ovviamente è una forzatura, ma ragioniamoci un attimo. I quattro film italiani del Natale settantaquattro (quando il Natale era una roba seria) rispecchiavano perfettamente i gusti del pubblico: c’erano i beniamini del western all’italiana (Porgi l’altra guancia: terzo incasso stagionale, quattro miliardi e duecento milioni di lire circa), la nuova coppia del cinema commerciale e d’autore (Travolti da un insolito destino: undicesimo posto, tre miliardi e seicento milioni circa), un attorone che domina un altro prodotto tra l’autorialità e l’industria (Profumo di donna: quattordicesimo incasso, quasi tre miliardi) e poi c’era C’eravamo tanto amati, che si piazzò tra la Wertmuller e Risi con tre miliardi e mezzo. I motivi del successo possono essere individuati facilmente (Manfredi e Gassman, Scola e storia patria vista da sinistra, non so), oppure no.
Se consideriamo il film una specie di grande “spettacolo d’autore” di sinistra, il suo ampio riscontro commerciale è dovuto alla sapiente sintesi di pubblico e privato, eventi nazionali e storie personali, omaggio al cinema e storie d’amore e d’amicizia, palazzinari e re delle mezze porzioni De Sica e Resnais, «sceglieremo di essere onesti o felici?» e «volevamo cambiare il mondo, invece è il mondo che ha cambiato noi». In una recente intervista su altri temi, Pietro Citati sostiene che la società non esista, che sia completamente inventata dagli scrittori, che perfino Balzac, scrivendo la “Comédie”, abbia creato una società altrimenti tutt’altro che interessante.
Qual è la società di C’eravamo tanto amati? Si dice spesso, in particolare nelle recenti riletture del film, che Age, Scarpelli e Scola abbiano realizzato un film che dialoga e si confronta con la società del trentennio raccontato, ed è anche vero. Ma la società dei tre autori, al netto della felicità del racconto e della sua riuscita espressiva, ha degli indubbi elementi di manicheismo e schematismo. Lasciando stare per un momento i tre protagonisti maschili, tutta la maggioranza politica è incarnata dal mitologico fascio Romolo Catenacci marchese di Cazzuola, palazzinaro spregiudicato e sgrammaticato («tu non scappi e io nun moro!»), e dai notabili democristianoni di Nocera inferiore («è inferiore perché ha dato i natali a individui ignoranti e reazionari come voi tre!»). Ed è certamente una cosciente presa di posizione che rispecchia la visione socio-politica-culturale dei tre autori.
E infatti la descrizione del trio ha luogo con un’esemplificazione sublime. Antonio Cotichella è la sinistra di partito, riformista, dai grandi ideali ma anche pragmatica, col posto fisso e la speranza di un futuro migliore. Il personaggio più positivo ed empatico, senza essere idealizzato. Gianni Perego è la sinistra che viene a patti col potere, diciamo un socialista che si vende, dominato dai tormenti e dal disincanto. Il personaggio più tragico ma anche l’anima nera della sinistra italiana, il lato oscuro sempre in luce. Nicola Palumbo è la sinistra velleitaria, settaria, intellettualoide, che vuole cambiare il mondo senza poterlo o saperlo fare. Il personaggio che può tranquillamente essere antipatico o simpatico a seconda delle convinzioni, ma sicuramente il più malinconico.
E poi ci sono le donne: Luciana Zanon che, in una lettura semplice ed affascinante, è l’Italia contesa dalle tre sinistre, è Adriana Astarelli di Io la conoscevo bene che si salva, è “la ragazza con la valigia”, è la donna normale par excellence dell’universo maschile del film; e Elide Catenacci, la figlia buona, grassoccia e fessa che si lascia addomesticare dal marito intellettuale con Dumas e “gli idrocarburi”, fino a sfociare nelle “eclissi dell’Antonioni”, capendo infine come il suo amore non risponda a nulla e scegliendo la via della morte che sublima. Inutile a dirsi, perché ormai pacificamente appurato, che tutti gli attori del film registrino interpretazioni magnifiche.
Assurto nel corso degli anni a film mitologico e seminale, la cui fama sta progressivamente crescendo presso le nuove generazioni (ed è un discorso interessante, considerando l’inesistente interesse nei confronti degli altri film del filone, penso a Una vita difficile o La terrazza), C’eravamo tanto amati può essere letto secondo la teorie delle tre scatole di Strehler. La prima scatola è quella del vero: il racconto in sé, le storie umane che coinvolgono ed appassionano. La seconda è quella della Storia: il racconto è lo scopo, i personaggi rappresentano caratteri sociali in rapporto dialettico tra loro. La terza è quella dell’avventura umana: la parabola eterna degli uomini che vivono e crescono. Ogni scatola ha un pericolo: la prima, il gusto della ricostruzione dal buco della serratura; la seconda, l’eccessivo isolamento delle figure eluse dal loro contesto narrativo; la terza, l’astrazione e il simbolismo.
Al quarantesimo anniversario di C’eravamo tanto amati, mi piacerebbe capire perché sia in definitiva un capolavoro; e ho trovato una risposta, forse insoddisfacente ma che mi pare affascinante: è un film in cui le tre scatole si compenetrano perfettamente, in cui tutto è al suo posto, in cui la scissione in tre scatole è un mero giochetto da studiosi della domenica. È un film che si muove meravigliosamente tra narrazione, Storia e metafora, senza mai essere soltanto una cosa o soltanto un’altra, in cui l’Italia è il punto di coagulazione della storia, che si vede e si sente quasi mai, ma c’è ed è sempre in primo piano. Poi, certo, è un film nostalgico (i partigiani e Mike Bongiorno), melanconico (le sconfitte e «la nostra generazione ha fatto veramente schifo»), struggente (De Sica e le fototessere), divertente (casa Catenacci e Strano Interludio), avvincente (i matrimoni imprevisti e le morti annunciate), riflessivo (il fallimento politico e la speranza nel futuro), traumatico (gli amori impossibili e le amicizie infrante)... e potremmo parlarne per altri quarant'anni.
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