UNA VIPERA SARÒ.
DIECI SFUMATURE DI FEMME FATALE
(PRIMA PARTE: 1910-1915)
E il cinema creò la donna, o meglio il suo avatar. A quindici anni scarsi dall'uscita degli operai dalle fabbriche Lumière, nell'immaginario delle platee cinematografiche iniziava a insinuarsi la declinazione in chiave filmica di quegli archetipi – madre e moglie in primis, poi la vergine, l'angelo del focolare, la donna perduta e così via – che da sempre abitano l'umanità e le sue manifestazioni artistiche.
In principio fu il teatro, naturalmente. Come concordano tutte le storie del cinema, il nuovo linguaggio espressivo che si andò codificando nei primi decenni di vita della settima arte è una filiazione diretta di modelli e stilemi teatrali. Quasi tutti i grandi attori cinematografici la cui carriera prende il via in questa fase – e tanto più le attrici, a cui si chiedeva di incarnare una gamma di sentimenti umani più variegata, data la maggiore complessità psicologica dei loro personaggi – vengono direttamente pescati tra le scene teatrali. Nel contempo, tante vecchie glorie del teatro avvertono la necessità di rinverdire il proprio mestiere attraverso il contatto con la nuova estetica espressiva mutuata dal cinema, e cedono alle lusinghe dei produttori.
Non sempre si trattò di una transizione felice. Nei film a cui presero parte i mostri sacri del teatro di fine Ottocento – Sarah Bernhardt, Ermete Novelli, Eleonora Duse, che pure dette un esempio di grande arte in Cenere – si avverte sottotraccia come un imbarazzo nel trasferire la propria mimica dinanzi alla macchina da presa e, si è notato nel caso della Duse, quasi una volontà di eludere lo sguardo dell’obiettivo. Alcuni fallimenti sono imbarazzanti. Ida Orloff, stella del Burgtheater viennese e tra le maggiori attrici teatrali di lingua tedesca negli anni ’10, fu imposta dal premio Nobel 1912 per la letteratura Gerhardt Hauptmann come protagonista del film Atlantis (1913) di August Blom, tratto da un suo romanzo. Del tutto fuori tema nel ruolo di una giovane sfasciafamiglie, tutt’altro che avvenente e molto in là con gli anni, la Orloff, in tutte le scene in cui compare, rende penosa la visione di un’opera per altri versi notevole. In altri casi, invece, da interpreti teatrali non particolarmente brillanti, almeno a detta dei critici contemporanei, scaturirono attori che rivoluzionarono il linguaggio espressivo del cinema. E’ il caso di Asta Nielsen.
Il debito che il cinema delle origini deve al teatro è indubbio e non può essere minimizzato. Ma per correttezza andrebbe visto come un retaggio da cui i grandi attori cominciano presto a emanciparsi e imporre una personale griffe recitativa. Spesso, però, si presume che il palcoscenico sia stata l'unica fonte d'ispirazione per l'interpretazione cinematografica, mentre meno studiati sono altri tipi di contributi, ad esempio quello delle arti figurative. Sandra Pietrini è tra i pochi autori ad aver affrontato l'origine pittorica delle pose cinematografiche, ravvisando un'affinità tra certo repertorio gestuale di Pina Menichelli e le espressioni di Giuditta I e II di Gustav Klimt. L’argomento merita di essere approfondito. Riservandomi di farlo, mi limito per ora ad aggiungere che, qualche tempo fa, visitando la collezione di dipinti preraffaeliti alla Galleria Nazionale di Manchester, sono rimasto letteralmente folgorato davanti a un quadro di Lord Frederick Leighton di fine Ottocento, che riproduco. Il soggetto deriva dalla mitologia greca. La giovane Ero, sconvolta per la morte dell’innamorato Leandro (che nel quadro non si vede), si aggrappa plasticamente a un drappeggio. Come non riconoscere in questa posa una fonte d’ispirazione per tante future stelle del muto, a partire da Theda Bara, alla quale la accomuna peraltro una lontana somiglianza?
E giungiamo così alla donna fatale, la cui comparsa nel cinema avviene, quasi simultaneamente ma secondo dinamiche per lo più autonome, in tre punti del globo: Copenaghen, Roma e Hollywood. Le primedonne portano i nomi di Asta Nielsen, Lyda Borelli, Francesca Bertini e Theda Bara, e sono celebrate con appellativi diversi: femme fatale, per l’appunto, vamp, diva. A esse si aggiungeranno presto una terza italiana, Pina Menichelli, e una francese, Musidora. Seguiranno Berlino, dove si imporranno i calibri di Pola Negri, Marlene Dietrich e Brigitte Helm, e Stoccolma, da dove partirà il mito Garbo, destinato a trascendere l'età del muto.
La rassegna che segue può essere vista come una sintomatologia della femme fatale nel cinema presonoro. Ma ciò che mi ero riproposto di fare non era tanto un discorso sociologico su questa figura di virago e il suo rapporto malsano con gli uomini, su cui si è scritto tantissimo. Piuttosto, mi interessava il confronto sulla raffigurazione della femme fatale, così come è arrivato fino a noi tramite il prisma di dieci differenti modalità recitative. Dieci è un numero comodo e tondo, ma riduttivo rispetto alle tante interpreti che hanno incarnato questo ruolo fino ai giorni nostri. Ciò ha implicato delle scelte, soprattutto in termini di esclusione, che ho cercato di giustificare a me stesso prima ancora che a chi mi leggerà. Non c'è Marlene Dietrich e non c'è Joan Crawford, le cui carriere iniziano ai tempi del muto ma deflagrano letteralmente nel sonoro. C'è invece la Garbo, la cui produzione muta è almeno altrettanto significativa – e per certi versi lo è anche di più – di quella sonora. Non ci sono interpreti straordinarie o celeberrime come Gloria Swanson, che pure creò il più imitato stereotipo di fatalona del muto in Viale del tramonto, né ci sono Lillian Gish, Mary Pickford, Marion Davies e tante altre, la cui versatilità le identifica solo in parte con l’immagine della femme fatale. L'ordine scelto è cronologico, secondo l'anno di affermazione di ciascuna attrice.
1. L'ipnotica: Asta Nielsen
(esordio da protagonista: 1910 – L'abisso)
La prima inquadratura di Asta Nielsen nelle versioni più lunghe de L'abisso (Afgrunden, 1910,) ce la mostra di tre quarti. Ma è un attimo. Subito si volta, dando le spalle allo spettatore. Abitino leggero a frange e cappello piumato, spalle leggermente incurvate, ciondola lentamente verso il fondo della scena in una Copenaghen assolata. Dopo qualche passo si ferma e fa un lieve cenno a un tram ancora in movimento. È davanti a noi, finalmente. Lo sguardo assente, il viso anonimo. Sale con nonchalance sul predellino, si guarda attorno con indolenza non priva peraltro di sicurezza. A guardarla oggi senza conoscere la sua straordinaria carriera successiva, la si prenderebbe per una figurante qualunque. Questo l'esordio della Nielsen, discreto ma rivelatore, anzi rivelatore proprio perché discreto.
Il fatto è che Asta Nielsen non ha fretta. Asta Nielsen non spreca subito la sua forza d'interprete passando di scena madre in scena madre. Serba tale capacità per le sequenza successive, in un crescendo recitativo molto consapevole, e aspetta prima di sparare le sue cartucce.
Fino a quel momento gli attori avevano messo le proprie capacità al servizio di trame e vicende che valevano per ciò che raccontavano, non concepite apposta per loro. L'abisso è un film fondamentale nella storia del cinema, perché mostra per la prima volta come un lungometraggio poteva essere piegato a secondare le qualità drammatiche di un'attrice. È cio che avverrà di lì a poco con i film costruiti intorno a certe caratteristiche fisiche o psicologiche delle dive italiane degli anni '10 (il crepuscolarismo della Borelli, la ferinità della Menichelli, l'assertività della Bertini), complice lo stretto rapporto tra attrici e registi o attrici e produttori. Tra Asta Nielsen e il regista Urban Gad, suo marito, nasce un rapporto di questo genere in cui la creatività del secondo è tutta tesa a far risaltare le capacità recitative della prima. Urban Gad diresse trentadue film con Asta Nielsen come protagonista e ne sceneggiò trenta. Il repertorio è dei più vari: dalle tragedie ai melodrammi, ai film polizieschi e di spionaggio, alle commedie, con Asta Nielsen in ruoli estremamente diversificati: una donna nubile, una povera madre, una gitana, la moglie di un architetto, una ballerina spagnola, una modella, un Amleto en travesti, una ragazzina diciottenne che finge di avere dodici anni (all'epoca la Nielsen ne aveva trentadue!) e così via. Nonostante un fisico atipico, androgino e in teoria poco camaleontico – volto pallido, grandi occhi neri, capelli corvini, labbra sottili, fianchi stretti – la capacità di immedesimazione della Nielsen ha del miracoloso. La manciata di film che ci restano mostrano che, senza esagerazione, è stata una delle più grandi attrici di tutti i tempi, capace di dosare la caratterizzazione psicologica dei propri personaggi anche all'interno dello stesso film. L'Abisso è un caso da manuale, senza peraltro essere l'unico. La giovane ingenua dei primi fotogrammi si trasforma verso metà film in ferina predatrice sessuale nella scena della danza del gaucho, censurata all'epoca, la cui torrida sensualità ancora oggi non lascia indifferenti. Una seconda metamorfosi interviene nel dramma finale. Qui, nonostante la concitazione degli eventi, la Nielsen – occhi profondamente bistrati per accentuare l'irrimediabile volgarità del personaggio, nerovestita, capelli increspati, una strana analogia con la Magnani di trent'anni dopo – offre un'interpretazione sorprendente per realismo. Presa per il collo, strattonata, buttata sul divano, semispogliata, afferrata per i capelli e trascinata per la stanza, senza che nella sua espressività si ravvisi alcunché di eccessivo. E altrettanto misurata è la scena finale, in cui viene trascinata via da un poliziotto. La Nielsen evita ogni accenno di teatralità e si limita a guardare davanti a sé, spossata, come sorpresa dalla piega che hanno preso gli eventi, ma forse finalmente salva. Gira la testa per incrociare fuggevolmente lo sguardo di un astante, e la gira di nuovo per andare incontro al suo destino. Tutto con maestria straordinaria, e sì che era appena il suo primo film.
2. La crepuscolare: Lyda Borelli
(esordio da protagonista: 1913 – Ma l'amor mio non muore…)
Guardare Ma l'amor mio non muore nel bel restauro curato dall'Immagine ritrovata nel 2013, a cent'anni dalla sua realizzazione, significa sorprendersi a temere per la sua incolumità. Un attimo è dritta in piedi e fa la sua bella figura per quant'è statuaria; l'attimo dopo si accascia dove capita, a volte facendo pericolosamente pencolare i bibelots di cui abbondavano i salotti rarefatti di inizio secolo. In preda a improvvise quanto antiche malinconie, rivolge gli occhioni semichiusi al cielo, lo sguardo annegato nel vuoto. E tutto fa brodo come provvidenziale punto d'appoggio per non rovinare fatalmente a terra. Un tavolino, una sedia dalle esilissime gambette Biedermeier, il bordo del coperchio aperto di un pianoforte, la sponda arrotondata di un divano capitonné. A meno che non siano le mani, con quei suoi polsi mobilissimi, ad accoglierne il capo come un ricetto. O i gomiti, anch'essi spesso torti all'indietro in posizioni al limite del contorsionismo indù.
Nei Quaderni dal carcere Gramsci ne dà un giudizio vagamente ostile, apparentandola a una sorta di vestale del sesso, elemento – quest'ultimo – che ha "trovato nel palcoscenico la sua moderna possibilità di contatto col pubblico". Quanto alla sua arte, "nessuno sa spiegare cosa sia l'arte della Borelli, perché essa non esiste. La Borelli non sa interpretare nessuna creatura diversa da se stessa. La Borelli" – continua – "è l'artista per eccellenza della film in cui la lingua è solo il corpo umano nella sua plasticità sempre rinnovantesi" (ovviamente parla dei film muti, anzi “delle” film, come si diceva in quegli anni). Il giudizio è severo, ma forse si trattava solo di magnifica ossessione.
La Borelli, ricorda Sandra Pietrini, considera fondamentale la capacità di lasciar trapelare l'interiorità. Ma rispetto alla moderazione espressiva di un'Asta Nielsen, ciò che contava nella maggior parte dei cosiddetti diva film italiani dell’epoca, è il climax. Nella scena madre di Malombra (1917), Marina scopre gli oggetti appartenuti a Cecilia, la donna che lei crede stia rivivendo in sé, e "un alito di inquietudine e sofferenza si impadronisce della sua persona". Così, "comincia a contorcersi armoniosamente, mossa da un malessere indefinibile". Queste "evoluzioni serpentine" possono far sorridere ma non sghignazzare, perché coerenti con il quadro di riferimento storico e culturale in cui si inseriscono. Sono in altre parole sintomi di malessere interiore e tormenti indicibili non vacui, ma funzionali alla rappresentazione.
La riconoscibilità del "borelleggiare" che tanto spiaceva a Gramsci è ciò che oggi si chiamerebbe con un certo compiacimento intellettuale "cifra stilistica" dell’interprete, oltre che lo specchio dell'estetica dannunziana imperante in quegli anni. La tecnica così personale della Borelli è il risultato di quella ricerca che ogni grande artista di quel periodo ha portato avanti, chi più chi meno, per staccarsi dalla tradizione recitativa teatrale ottocentesca e trovare una propria maniera. Si tratta, in altre parole, della capacità di accomodare i personaggi alla personalità di chi li riveste, e non il contrario. In assenza di questo semplice assioma, le interpretazioni di tanti che hanno costruito la loro screen persona intorno alla propria individualità – le Bette Davis, le Marilyn Monroe, gli Humphrey Bogart – non sarebbero che stanche variazioni su un unico tema.
3. La dominatrice: Francesca Bertini
(esordio: 1913 – L'histoire d'un Pierrot)
Se pensando alla tecnica attoriale delle femmes fatales del muto ci viene in mente lo stereotipo tutto contorsioni e occhi levati al cielo, lo stile della Bertini rappresenta una bella iniezione di padronanza di sé. Agli antipodi tanto dell'ipersensibilità decadente della Borelli quanto delle pose barocche di Pina Menichelli, Francesca Bertini governa con decisione lo spazio scenico nel quale viene a trovarsi. Pochi gesti secchi e precisi, e la nostra idea di "teatralità" in relazione ai diva film dei primi decenni del cinema va in frantumi.
In Assunta Spina (1915) invade letteralmente il campo visivo dello spettatore, tanto negli esterni che hanno come sfondo la Napoli degli anni '10, i paesaggi incantevoli e i vicoli, quanto nelle scene di interni. Le prime inquadrature, che hanno una funzione introduttiva non funzionale al racconto, ce la mostrano di profilo. Altera, capo levato e braccia sui fianchi, nella posa ieratica e spontanea al tempo stesso che assurgerà nel corso del film a un vero e proprio Leitmotiv. Con studiata lentezza, come su un palcoscenico, compie un moto rotatorio in direzione degli spettatori perché possano ammirarla in tutto il suo fulgore. Ed è, effettivamente, una donna di straordinaria bellezza. Si sistema lo scialle con rapidi movimenti, poi si rimette di profilo e china piano la testa come se presaga delle tragedie che la vedranno protagonista. Tutto ciò con estrema naturalezza, senza nessuna impressione di artificio.
Eric de Kuyper, che ne ha analizzato approfonditamente la "purezza del gesto", porta ad esempio la prima scena d'interni. Assunta e Buttafuoco entrano da una porta sul lato destro, accolti dal padrone di casa, ma fatto qualche passo Assunta si dirige direttamente, con movimento rettilineo che “taglia” il fotogramma in due, verso il tavolo che campeggia al centro dell'inquadratura, oltre che verso lo spettatore. I due uomini restano sullo sfondo ancora qualche secondo, mentre il focus della sequenza si trasferisce su Assunta. Al momento di sedersi a tavola, sta per sedersi ma, colta da un pensiero improvviso, cambia idea. Afferra una sedia che (secondo la Bertini) era stata disposta male, cioè con la seduta rivolta verso lo spettatore anziché lo schienale, e la ruota con un gesto risoluto e esatto, il che le consente di sedercisi in modo "plastico". È solo un esempio fra i tanti della rivoluzione culturale che Francesca Bertini introduce nella cinematografia italiana imbevuta di dannunzianesimo estetizzante.
La recita della quotidianità forse non basta per definire Assunta Spina un antesignano del neorealismo. Troppo diversi i contesti storici, troppo diverse le motivazioni. Ma è certo che inaugura, assieme a Sperduti nel buio (1914), una corrente cinematografica veristica alternativa a quella salottiero-decadente. Corrente, peraltro, di cui la Bertini sarà pure protagonista con film come La signora delle Camelie (1915), girato subito dopo Assunta Spina, o Malia (1917), ma pur sempre salvaguardando la propria originalità espressiva. Contrariamente a Asta Nielsen, interprete eccelsa, ma mai troppo conosciuta né apprezzata al di là dello spazio europeo, la maniera recitativa inaugurata dalla Bertini e la sua grande versatilità nel passare dalla commedia alla tragedia, dal melodramma al dramma verista, presto varca i confini patri. La storia del faraonico contratto offertole dall'americana Fox, e rifiutato, fa parte della leggenda della sua vita. Su un piano più strettamente artistico, il suo modello nell'esprimere le passioni e padroneggiare la scena sarà ereditato e fatto proprio da tutta una generazione seguente di attrici, Garbo in testa.
4. La blasfema: Theda Bara
(esordio da protagonista: 1915 – La vampira)
Conversando nel 1983 con Gianfranco Mingozzi, Francesca Bertini accenna al termine "diva", creato – pare – per lei nel 1915 dal produttore della Cesar Giuseppe Barattolo, e poi diffusosi a macchia d'olio. Da come ne parla la Bertini, questo appellativo, che sembra alludere a qualcosa di estraneo alla natura di donna e attrice, non sembra essere mai stato di suo gradimento. Negli stessi anni, di là dall'oceano, Theda Bara viveva un'esperienza uguale e opposta. Per lei fu coniato nel 1915 il termine vamp, vampira, nell'accezione cinematografica di donna fatale. Ma si trattò di un'operazione di marketing consapevole e per l'epoca priva di precedenti. La donna che si compiacque di terrorizzare schiere di maschietti indifesi e altrettanti angeli del focolare era una delicata fanciulla di Cincinnati rispondente al nome di Theodosia Goodman. Il suo pseudonimo non era l'anagramma di Arab Death, come ancora oggi si legge, e meno che mai un richiamo alla terminologia funeraria italiana ( chi se ne sarebbe accorto?). Più prosaicamente Theda era la contrazione di Theodosia, e Bara una variante del suo secondo cognome Burr o di Barranger, altro nome di famiglia. Ma l'aura di leggenda che ancora oggi, a sessant'anni dalla morte, circonda le origini di Theda Bara dimostra che William Fox, suo mentore, aveva visto giusto.
Rivedendo il suo primo successo, La vampira (A Fool There Was, 1915), è difficile non convenire con Nino Frank che la definì un fenomeno da baraccone. Decisamente inguardabile la scena posta a premessa del film. La Bara, in pesante paludamento e cappellino intonato, appare come un ectoplasma davanti a un tavolino. Rigida come una scopa, stranita, guarda in alto con finta indifferenza, rotea gli occhi con aria stolida, poi si accorge della presenza di due fiori in un vaso. Con un sorriso malizioso sul faccione li agguanta, li annusa e poi ne strappa voluttuosamente la corolla, gettandone i petali. La simbologia non è delle più sottili, l'interpretazione di grana grossa. Come nota ancora Frank, anche la recitazione della Borelli, che pure aveva le sue pecche, di fronte a questo incipit fa figura di capolavoro. La Bara però è una fast learner, e nel corso del film i suoi movimenti diventano più fluidi e le espressioni del viso più naturali. E qualche scena coglie ancora nel segno. Ad esempio, quella in cui la Bara, stesa sul sofà in pieno taedium vitae, si avventa come una fiera sul cameriere che ci mette qualche secondo più del necessario a recepire i suoi ordini. O quella in cui esce da un taxi con aria da gran signora, mentre un poveraccio tutto lacero le si avvicina e le fa: "Guarda come mi hai ridotto, e tu ancora prosperi, gatta infernale!". Lei non fa una grinza, se non per alzare la testa e farsi una lugubre risatina di compiacimento, dopo di che chiama la polizia perché allontani lo scocciatore.
Non è facile esprimere un giudizio sulla recitazione di Theda Bara, data l'esiguità dei titoli a noi rimasti, e soprattutto capire se nel tempo la sua tecnica abbia subito una qualche evoluzione. Come capiterà anche a Louise Brooks, sia pure per motivi diversi, la sua immagine ha finito negli anni per assumere un richiamo di gran lunga superiore alla sua tecnica interpretativa, se di tecnica si può parlare. Il look caratterizzato da lunghissimi capelli corvini, enormi occhi bistrati sul viso gonfio e pallido, rinvia a un'epoca in cui, annota Emanuela Martini, "ad una quasi assoluta, per gli schemi del tempo, libertà sessuale si accompagna un dominio assoluto sull'uomo, metaforicamente avvolto nelle sue spire". Con tutto ciò che ne consegue in termini di pericolosità sociale. Le immagini che la ritraggono in compagnia di scheletri e ragnatele, o – per colmo di blasfemia – nei panni della Madonna con tanto di aureola e bambino in braccio, ci dicono del suo successo molto più di quanto non facciano i pochi film superstiti. Chi ancora oggi ne subisce il fascino non conosce l'attrice, e non ne conosce i film. Ma ne conosce l'immagine che lei scelse di proiettare di sé sullo schermo.
5. La ferina: Pina Menichelli
(esordio da protagonista: 1915 – Il fuoco)
Un ricordo di una ventina d'anni fa. In una saletta seminascosta della Cinémathéque royale di Bruxelles si proiettava, con accompagnamento dal vivo, Tigre reale di Giovanni Pastrone, protagonista Pina Menichelli. In genere i film muti incontrano i giusti di un piccolo ma non inconsistente pubblico di aficonados, e da molti anni la Cineteca ne proietta addirittura due al giorno, ognuno con accompagnamento live. Ma quella sera pare che tutti avessero altro da fare. Nella saletta, solo io e il pianista, un signore di una certa età: barba incolta, camiciola a quadri, pancia da birra e, sotto gli occhiali, sguardo dolce da intellettuale squattrinato (seppi poi che insegnava in un'accademia musicale cittadina). Lui avrebbe potuto lasciar perdere, mormorare una scusa per filarsela, ma con urbanità tutta belga non lo fece e quella sera suonò per me. Intanto, sullo schermo si succedevano le immagini esagitate di Pina Menichelli. Occhi iniettati di sangue, chioma tentacolare, labbra dischiuse e dentatura in mostra, risate isteriche, sadismo a gogò rivolto sul macapitato di turno, non un attimo di tregua per il tapino comprimario e per lo spettatore. Insomma tutto il più tremebondo repertorio di Nostra Signora degli Spasmi, come la chiamavano già all'epoca. Finisce il film, le luci si accendono. Il pianista si gira verso di me e io mi aspettavo quasi una sghignazzata liberatoria. Invece, gli occhi ancora abbacinati dalle movenze della Menichelli e con un sorriso complice da compagno di merende, mi fa: "Euh, la comtesse: quelle femme!".
Morale: è vano cercare di restare indifferenti alla recitazione di Pina Menichelli, forse la più vicina all'immagine parodistica che abbiamo delle dive del muto, e forse tra le più incomprese. La testa gettata all'indietro, le braccia spalancate senza motivo, l'ostentato sfinimento, tutto ciò è parte di quel repertorio scenico che un tempo veniva detto "menichellismo". Tuttavia, e malgrado le apparenze, la Menichelli non è sempre identica a se stessa, come mostra la visione successiva di due dei suoi più grandi successi, Il fuoco (1915) e, appunto, Tigre reale (1916), oltre che dei pochi altri film superstiti.
Nel primo, la Menichelli interpreta una donna che a sua volta recita una passione che non prova. La doppia simulazione comporta un'ostentazione e una mimica esagerata, dove il gesto enfatico finisce per non avere più un referente semantico, ma è fine a se stesso. Che dietro questa estremizzazione ci sia uno studio d'attore e un'applicazione alla costruzione del personaggio sembrano provarlo vari elementi. Anzitutto, sul piano fisico, il modo in cui la figura fine dell'attrice e le sue piccole mani si trasfigurano in un procace mostro di lussuria dagli artigli aguzzi. Come osserva acutamente Sandra Pietrini, che alla Menichelli ha dedicato un lungo e dotto saggio, la diva "inventa un tipo al di là della sua conformazione fisica", in cui "converte, e quasi perverte, le proprie caratteristiche fisiche naturali in segni espressivi di un certo tipo". Ma anche sul piano della caratterizzazione, è possibile riscontrare delle differenze tra le pose forzate del Fuoco e il maggiore riserbo con cui rende la contessa Natka, la cui passione non è simulata e si accompagna a un'intensa angoscia esistenziale. L'ingresso di Natka sulla scena salottiera è preceduto dai commenti, tra l'eccitato e l'inquieto, sulla sua pericolosità da parte degli ospiti maschili ("Ecco la contessa russa! Quella che spinse alla morte il suo ultimo amante…). "La Menichelli" – così la descrive con gusto Cristina Jandelli – "inspira vistosamente con aria sofferente, poi, come in apnea, si lancia in un sorriso che segna la sua entrata nello spazio funzionale del salotto mondano come frutto di un sapiente artificio. In una manciata di secondi Natka viene presentata come sofferente di tisi e amante della dissimulazione". Il tutto molto poco naturale, d'accordo. Ma ci sarà stato pure un motivo per far dire al mio amico pianista, abbacinato da lei dopo quasi un secolo: che donna!
(continua)
Riferimenti bibliografici:
Robert S. Birchard, The Woman With the Hungry Eyes, Timeline Films, 2006.
Cherchi Usai P., "Tigre reale", Les cahiers du muet, Bruxelles, Cinémathèque Royale, 1993.
De Kuyper E., "Assunta Spina", Les cahiers du muet, Bruxelles, Cinémathèque Royale, 1993.
Frank N., Cinema dell'Arte, Paris, Éditions André Bonne, 1951.
Gramsci A., Letteratura e vita nazionale, Roma, Editori Riuniti, 1971.
Jandelli C., Le dive italiane del cinema muto, Palermo, L'Epos, 2006.
Lizzani C., Il cinema italiano. Dalle origini agli anni ottanta, Roma, Editori Riuniti, 1982.
Pietrini S.,"Recitare la passione: Pina Menichelli e la mimica della femme fatale" in Acting Archives Review. Rivista di studi sull'attore e la recitazione, Anno IV, numero 7 – Novembre 2014.
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