Mercoledì 10 dicembre torna al cinema sul grande schermo nel suo 35° anniversario, Quadrophenia (versione restaurata e digitalizzata).
Che dire al riguardo se non che si tratta di un avvenimento da non lasciarsi sfuggire? Quadrophenia è infatti molto di più di una semplice pellicola: è un poema sonoro e visivo che ambisce ad essere lo specchio di un’intera generazione (ed è proprio in questo che sta il suo valore e la sua peculiarità “documentale”).
E’ comunque sopra ogni altra cosa una storia, quella di Jimmy, “uno dei Mods”, e attraverso di lui, quella dei contrasti, delle rivalità, delle aspirazioni, della gioventù inglese degli anni ’60 che si divideva appunto fra i Mods(giovani ben vestiti che guidavano scooter italiani) e i Rockers (seguaci del rock and roll americano anni ’50, vestiti con giubbotti di pelle e sempre in sella a grosse motociclette).
Si potrebbero spendere molte parole per inquadrare meglio anche storicamente le vicende che prendono spunto e vigore dall’omonimo disco altrettanto epocale degli WHO del 1973: io preferisco farlo invece usando principalmente quelle utilizzate dal critico musicale Ernesto de Pascale prematuramente scomparso qualche anno fa, che in occasione della edizione in VHS della pellicola (a suo tempo distribuita anche in edicola insieme al giornale L’Unità negli anni in cui era direttore della testata Walter Veltroni) ce le raccontò così:
La storia di Jimmy
Non era facile la vita per Jimmy. Il mondo che lo circondava non era il suo. Quando tornava a casa c’era sempre qualcosa che andava storto. Neanche un rispettabile posto da “ragazzo alla porta” del principale albergo delle sue parti lo rendeva felice. A casa era incompreso. Jimmy non era il solo, come lui, molti altri. Ragazzi provenienti da famiglie per bene, né poveri né ricchi, ragazzi educati ai quali era stata data una certa sicurezza. Qualcosa, però, non funzionava.
A quell’epoca Jimmy guadagnava 3 pounds e 10 pennies (questo è l’attuale valore equivalente, naturalmente!) alla settimana. Il suo ultimo acquisto, un abito visto sulla rivista Tailor and Cutter, ne costava da solo 35. Diceva orgoglioso: “Quando lo indosso mi sento totalmente diverso. E’ come se la mia vita cominciasse da capo”.
Il senso di depressione, il sentire la necessità di essere padroni di qualcosa, riempiva la testa del nostro e di tanti altri ragazzi come lui. Per troppo tempo si erano sentiti dei lunatici, additati come stravaganti nelle metropolitane che da Shepeerd’s Bush portavano in pieno centro. Adesso era invece chiaro che il loro stile, inimitabile se pur estremamente semplice, era la chiave di volta per un’affermazione collettiva. Adesso erano qualcuno, si riconoscevano e non avevano più paura di essere additati. Adesso erano i “Mods”.
Ma questa è la storia già del 1965, che è poi l’anno descritto dallo stesso Pete nella “Quadrophenia” discografica e poi ripresa dalla pellicola, quando i “Mods” sono all’apice del movimento, quando il giovane Pete Townshend scrive con gli appena nati “The Who”, l’inno del movimento, My Generation.
Questa storia ha, però, dei precedenti che vanno raccontati. Nel 1960 Mark Feld da Forest Hill, ha solo 12 anni. Ricorda di quei giorni: “Senza uno specchio mi sentivo perso. Mi lavavo ogni ora, una doccia due volte al giorno; per farlo usavo colonia Vart di Carvin. Non c’era niente di casuale nel mio modo d’essere. Perfino d’estate mi sentivo più a mio agio se indossavo un abito di tweed e un impermeabile.” Per Mark non era una questione di uniformi come lo era, proprio in quei giorni, per i Teddy Boys alla Gene Vincent. Per Mark era un’esercitazione di stile, puro narcisismo da dandies. Il giovane Feld diventa un’influenza locale. Lo conoscono in pochi ma, non appena si muove, tutti lo additano. Lui pare non curarsi degli altri. “Scopro in poco tempo – racconta – che solo nella mia zona, Forest Hill, siamo in sette. Poi diventiamo venti. Tutti fra la mia età e i quattordici anni, tutti ebrei, piazzati in casa con i genitori, nessuno impegnato con il lavoro, poco interesse per la scuola. L’unica cosa veramente importante è l’abito.”
La musica, le pillole, gli scooters non sono ancora arrivati sulla scena e per un po’ non si fanno vedere. E’ il 1962 quando Mark Feld appare sulle pagine della rivista Town: indossa una giacca tre quarti con spacchi laterali alti, un impermeabile lungo di pelle nera, un fazzoletto gli spunta dal taschino della giacca e la camicia è di quelle con colletto duro e stondato sulle punte. L’effetto è fortissimo ma assolutamente inclassificabile. E’ qui che spunta il termine Mod: per i ragazzi non fa differenza. E’ una classificazione e basta e a loro non interessa. E’ qui che musica, immagine, vita di strada, ideali, falsità e tutto il resto, si mixano in un unico grande calderone: quello che genera il fenomeno di massa.
Da Richmond emergono i “Rolling Stones”, amanti del blues, che vengono subito adottati dai “Mods” locali e supportati mentre il loro diciannovenne manager, Andrew Loog Oldham, non fa niente per mettere chiarezza contando sulla forza autopromozionale della ghenga locale. Non appena il gruppo raggiunge il successo nazionale i “Mods” li mollano per gli “Yardbirds” capitanati dal biondo Keith Relfe con uno spaurito Eric “Slowhand” Clapton alla chitarra solista che ben presto saluta tutti per tornare al suo vero amore: il blues. Nascono programmi tv come Ready Steady, Go!, un “must” del sabato pomeriggio, basicamente un programma televisivo mod. Anche Carnaby Street, per un breve tempo, viene additata come Mod.
Mark Feld continua con i suoi ricordi: “Era il 1964 e la situazione mi sembrava prendere una cattiva piega. Io prendevo le cose con infinita serietà mentre i “Mods” dell’ultima ora mi sembravano solo dei pupazzi.”
Quello che lui non stava capendo, era che, anche per lui, come per tutti gli iniziatori del movimento, era venuto il momento di mettersi da una parte e guardarsi intorno senza troppo apparire e molta circospezione… stava arrivando, insomma, il momento di Jimmy..
Jimmy, poi, a vedere bene, non era nemmeno tanto distante da Mark: i due erano, in fin dei conti, coetanei, entrambi intorno ai sedici. Jimmy era solo più casinaro, più dentro il movimento di massa. Erano arrivate le lambrette, la musica, le pillole uppers e downers e lui aveva accettato tutto subito, così senza riflettere, solo perché tutto questo era parte della scena. Era anche lui, comunque, un puritano. Se a Carnaby Street cercavano di infinocchiare i turisti con i gadget di bassa lega, lui e quelli del suo gruppo evitavano il luogo; avevano ampliato e migliorato il guardaroba con copriabiti simili a giacconi da guerra chiamati Parkas su cui cucivano colli di pellicce di volpe; usavano esclusivamente cravatte strette, scarpe di camoscio marrone o polacchine desert boots di marca Clarke.
Portavano i capelli corti e non appena si trovavano in prossimità di uno specchio potevano passare lunghi minuti a specchiarsi.
Qualcuno, fra gli amici di Jimmy, si dava mascara e si faceva il rigo nero agli occhi ma non vi erano implicazioni sessuali, era solo il desiderio di stranezza. Si dice anche che uno dei suoi migliori amici, un certo Bernard Coutts, non avesse accettato l’invito di una ragazza perché lei, in casa non aveva uno stendi pantalone con ferro da stiro. E la riga, si sa, deve essere fatta almeno una volta al giorno!.
Jimmy e i suoi amici arrivavano nel West End durante i fine settimana e vi rimanevano per trentasei ore filate. Gravitavano in clubs, bars, agli angoli delle strade e quando si sentivano sfatti si tiravano su con pillole chiamate Purple Hearts. A parte questo, non facevano un bel niente. Ballavano fra di loro – le ragazze erano praticamente inesistenti – perché solo la musica batteva loro in testa. Sembravano senza emozioni, passivi a tutto fuorché al proprio narcisismo. Se c’era qualcosa che li galvanizzava era la musica di questo riottoso diciannovenne nasone che si chiamava Pete Townshend. Il suo gruppo si era chiamato per un po’ “The High Numbers” poi decise che “The Who” suonava meglio, era più consono al movimento.
Il martedì sera era la loro serata fissa al Marquee Club di Wardour Street. Ed era, naturalmente, una serata speciale. Jimmy era sempre lì in prima fila e poteva vantarsi di essere un loro conoscente. Sua sorella infatti per un periodo era uscita con il bassista del gruppo, un tipo sempre taciturno che loro salutavano sempre, anche se forse neanche sapevano come si chiamava. Mark Feld invece li andò a vedere una sola volta, poi disse che in quel locale c’era troppo casino e che quei “Mods” si stavano comportando con uno stile troppo uncool, erano poco “stilosi”, diremmo noi. Gli “Who” sapevano il fatto loro: il batterista Keith Moon era un ragazzo forsennato e il suo stile di accompagnamento non aveva riferimenti, il cantante faceva roteare continuamente il microfono e più volte colpì qualcuno in testa nell’angusto spazio del club di Wardour Street. Del bassista, poi, abbiamo già detto. Pete, il chitarrista e mente del gruppo, dava poi l’impressione di essere addirittura monomaniaco: spendeva cento pounds la settimana in vestiti e si era fatto fare una giacca con la bandiera britannica, perfettamente in tono con la loro canzone Happy Jack. Keith, il batterista, vestita, invece, delle fantastiche magliette in stile Pop Art e nessuno fra i “Mods”presenti, riusciva a capire dove fosse riuscito ad ottenerle. Erano insomma, uno schianto!
Townshend era comunque andato oltre: difficile dire se per ispirazione o per raziocinio, aveva scritto quella “My Generation” che recitava più o meno così: People try to put us down / just because we get around / thing they do look awful cold / hope I die before I get old. Da quel momento in poi, ricorda Mark Feld, il movimento cominciò a sfrangiarsi. Forse proprio per questo motivo, per scontare le sue colpe, Townshend avrebbe scritto otto anni dopo, nel 973, “Quadrophenia”.
Jimmy però non sapeva tutto questo, non sapeva nemmeno che sarebbe diventato il personaggio di quel “Quadrophenia” e neanche lontanamente immaginava la sua fine. Jimmy sapeva solo che troppe cose intorno a lui cominciavano ad essere apostrofate come “Mod”. Perfino i barbieri, i “Beatles”, gli attori e i nuovi libri. D’estate si migrava a Brighton così come oggi, più di quarant’anni dopo, da tutte le parti d’Europa si cala a Rimini per Pasqua. Allora e oggi, lo si faceva per cercarsi, per contarsi. Ma in quei giorni, in quel 1965 i “Mods” cominciano a diventare un fenomeno troppo serio per non creare contrasti fra bande e giovani di differente estrazione. Tra i veri “Mods” si insinuano centinaia di falsi, ragazzi violenti, uncool, direbbe Mark Feld, poco “stilosi”, diciamo noi. L’evento di massa porta perciò tante ritorsioni sociali con sé. Poco possono i veri “Mods”: di quelli come Jimmy, e degli altri venti della prima generazione, non resta più neanche il ricordo! Al Nord, nelle città industriali i giovani si incazzano pesantemente. Come spiegare loro la differenza fra veri e falsi “Mods”, fra casinari che urlano e si ubriacano nelle dance-halls (finendo per infastidire tutti nei weekend passati a Soho) e quelli veri di soli pochi mesi prima? Al nord si formano gruppi agguerriti, si fanno chiamare “Rockers”, sono della stessa matrice dei “Teddy Boys”, solo più violenti e più poveri, per loro il Mod è un essere molle, inutile. Difficile dire se questi “Rockers” credono a quel che dicono: la loro filosofia è di terza mano, la brillantina nei capelli non ha nulla a che vedere con l’olio “STP” che si passava Elvis Presley o Jerry Lee Lewis la mattina, i loro abiti sono sdruciti, le giacche di pelle vengono dai mercatini di Salvation Army, i fregi sono stati cuciti dalle mamme la sera prima.
Per mesi e mesi le due fazioni si scontrano settimanalmente sul lungomare di Brighton, lasciandosi Londra alle spalle, fornendo così gran rumore alla stampa e alla televisione. Nessuno capisce che così facendo si fa il gioco altrui. O forse qualcuno lo capisce: lo capiscono i gruppi come gli “Who” che vanno avanti per la propria strada, i veri “Mods” come Mark Feld, che se ne sta rintanato a First Hill a vivere la sua vita imparando a comporre canzoni, lo capisce Jimmy che non vuol proprio saper niente di tutte queste storie. “Cosa c’è che non va nella mia vita?” si domanda Jimmy.“Non c’è posto per me, non c’è posto più neanche fra i “Mods”, ora loro sono così diversi da allora! A casa sono uno zombie, gli “Who” da quando hanno avuto successo non mi salutano più e l’ultima volta che uno di loro mi ha rivolto la parola mi ha chiesto se mi ero trovato un lavoro. Io odio chi mi parla di lavoro.”
Jimmy scrive il suo destino in solitudine. Il mondo intorno a lui sta cambiando. A nessuno importa più dei “Mods”. La stampa li ha definitivamente abbandonati e gli scontri non divertono più neanche coloro che li aizzano. La gente comincia a portare i capelli lunghi, al posto delle pillole arriva la marijuana (poi ci saranno le droghe più pesanti) e quando si parla di rivolta se ne parla (ancora) in termini propositivi. Gli “Who” dal canto loro sono, alle porte del 1966, già lontani mille miglia dai giorni del marquee, dei “Mods”, degli stessi primi scontri di Brighton. La vita va avanti. Per tutti la vita va avanti, ma non per Jimmy. L’unica cosa da fare è farla finita, pensa. Come in “My Generation” non c’è più tempo per diventare adulti. Gli resta solo l’abito, il Parka e la sua lambretta. Simboli, lo ha capito, ormai vecchi. Solo il mare e gli scogli davanti a Brighton potranno accoglierlo. Quando Mark Feld verrà a sapere della scomparsa di Jimmy così commenterà: “A volte mi guardo indietro e quel che è stato mi fa sentire molto stanco.”
Da lì a poco Mark cambierà nome, scegliendo quello di Mark Bolan, un nome e un cognome che gli porteranno fortuna. Intanto, quel giorno, si chiude un capitolo. Definitivamente. Ci penserà, come abbiamo prima accennato, a riaprirlo proprio Pete Townshend nel 1973 con la composizione di “Quadrophenia”, un’opera rock non troppo lontana da queste vicende dove tutti hanno un posto all’infuori del povero Mark Feld, in quei giorni del ’73 con i suoi “T.Rex”, troppo famoso per essere menzionato in una storia senza vincitori quale quella dei “Mods”.
Bye bye Mark… Addio Jimmy! (Ernesto de Pascale)
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I 35 anni che si porta sulle spalle non avranno sicuramente lasciato completamente indenne Quadrophenia, e i più esigenti potranno anche individuare qualche piccola ruga, poiché si tratta indiscutibilmente di un titolo che più di altri è figlio del suo tempo.
Io sono però fermamente convinto che ci si trovi ancora oggi di fronte a una pellicola che può essere definita a pieno titolo “storica e leggendaria” e soprattutto “fondamentale” come lo è stata per la mia generazione e per quelle immediatamente successive, e che il restauro effettuato sul suono e sulle immagini sia riuscito davvero a riportarla al suo antico splendore (anche cromatico)..
A Quadropheniadeve essere infatti riconosciuto il merito di aver saputo utilizzare al meglio il linguaggio del rock (e delle sue fibrillazioni musicali), per descrivere e mettere a fuoco la realtà (e il senso) di un periodo così ben definito e carico di fermenti come quello dei mitici anni ’60 del secolo scorso, rendendo palpabili non solo le aspirazioni, ma anche il disagio (e le contraddizioni) di chi allora aveva vent’anni o poco più, di quella generazione insomma tanto mitizzata ma ormai così lontana dal presente, da sembrare quasi la proiezione utopica di un sogno che non si è mai pienamente realizzato.
Il regista Frank Roddam per altro, ha molto ben mediato proprio attraverso le immagini, tutte le suggestioni scaturite dalle vibrazioni di una colonna sonora di straordinaria presa, sulle cui note ha costruito un racconto di “formazione” pieno di implicazioni anche sociali, che ha il suo punto di forza (e la sua principale fascinazione) nel sound adrenalinico creato da Peter Townshend e dagli Who, che resta la cosa più importante e coinvolgente dell’intera operazione, e che di fatto rappresenta non solo la vera strabiliante innovazione, ma anche la “provocazione” più potente e destabilizzante della pellicola. Sul versante musicale infatti, gli anni hanno contato poco o nulla, e quella partitura memorabile risulta ancora adesso imprescindibile. Anche al solo ascolto, l’impatto emotivo è fortissimo, proprio perché è sostenuto da un estro compositivo già bastevole a se stesso che aveva già mietuto molti allori ben prima che il film fosse portato a compimento (il vinile, la base oggettiva del progetto, fu registrato e messo in vendita nel 1973, mentre invece come ben sappiamo, la pellicola fu realizzata e distribuita solo nel 1979, quando gli Who e il suo mentore, avvertirono il bisogno di tornare a rivisitare l’Inghilterra del decennio precedente, quella degli anni in cui il loro complesso si era affermato clamorosamente insieme ai Beatles, ai Rolling Stones e a tutte le la altre espressioni della rivolta giovanile musicale e non, per celebrarla a loro modo, magari con qualche nostalgia, ma senza alcun rimpianto.
Ne è di conseguenza uscita fuori un’opera che spero abbia mantenuto intatto il pregio di veicolare una continua, costante esortazione “a osare”, un invito palese a vivere spudoratamente e fino in fondo la propria vita, anche se questo significava poi dover fare i conti con la violenza limitante e vessativa dell’ordine costituito, oltre che con le imposizioni della famiglia inglese a quei tempi ancora troppo conservatrice e un po’ castrante, e soprattutto ancorata ai suoi “sani” principi “reazionari”.
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Sulla falsariga delle canzoni firmate da Pete Townshend, il film ci delinea dunque il ritratto di un tipico figlio del novecento (o meglio dei primi decenni della seconda metà di quel secolo) che diventa la storia di una ribellione - e dell’impulso ad infrangere le regole che si sviluppa e si espande dal singolo individuo a gruppi giovanili sempre più ampi e determinati, testimonianza evidente della ricusazione di una omologazione orizzontale che la società imponeva a quei tempi ancora più di adesso, soprattutto nel e col lavoro.
Come si è visto, qui si parte da Jimmy (un ottimo Phil Daniels, Jimmy, vero e proprio “eroe da canzonetta” che emana un fascino speciale e induce alla tenerezza)., un fattorino poco più che adolescente, incompreso e ribelle anche in famiglia, che si lega con appassionato, idealistico vigore, al gruppo giovanile in cui si riconosce maggiormente e nel quale finirà per imbrancarsi “corpo” e “anima” fino alla consunzione. E’ l’unione infatti che fa la forza, e questo impone necessariamente di aggregarsi e di riconoscersi in un branco che acquisisce il senso di una “appartenenza condivisa”.
La guerra dei due gruppi “avversari” e contrapposti, i Mods e i Rockers (che era serrata per più di una ragione, e si consumava in quel tempo soprattutto nelle strade di Brighton) rivive così nella rievocazione nitida e netta, frutto di una rilettura appassionata (e anche un po’ malinconica) della storia di quegli anni, fatta dal regista insieme a Townshend e il suo complesso che figurano anche fra i produttori. Due gruppi antitetici dunque, ma uniti alla base da una comune volontà di infrangere (ciascuno a suo modo) i tabù imperanti e le convenzioni imposte dalle regole sociali e familiari, entrambi alla ricerca di nuovi ed inediti “modelli comportamentali”. In comune fra loro avevano la voglia di scardinare dalla base la società e le sue convenzioni e la “ritualità” delle pasticche e dell’”impasticcarsi”. Non bastava infatti portare la cravatta giusta e l’impermeabile ed avere i capelli tagliati in un certo modo, od ostentare in maniera trasandata il giubbino di pelle : per darsi coraggio, per affrontare certe situazioni , per “riconoscersi” meglio e per dimenticare lo squallore delle loro vite suburbane, trascorse in quartieri anonimi fatti di case comunque tutte uguali, si aveva bisogno di qualche adrenalinica gratificazione necessaria per sostenere il ruolo, ed era di conseguenza indispensabile ricorrere sempre più spesso ai cosiddetti “cerchi farmaceutici” che precederanno la mistificazione dello sballo prima dell’avvento della marijuana e poi delle droghe più pesanti..
Pasticche, molte pasticche (gialle, rosse, blu), necessarie per sostenere il ruolo e la parte e per digerire tra le altre cose anche l’autoinganno che pure c’era (anche se non ammesso e non considerato): la grande truffa di una felicità artificialmente indotta, che nel film di Roddam può essere sintetizzata in un altro personaggio centrale, quello di Ace Face (che un grande Sting qui al suo esordio sugli schermi tratteggia con efficace vigore) il più “grande” di tutti i Mods, il ballerino migliore, il più bello, quello con la moto più figa. Il più ribelle di tutti .. quello insomma da emulare e da venerare… ma solo fino a quando Jimmy scoprirà invece che si tratta di uno ritratto “inglorioso” e di un’immeritata fama perché il suo idolo “puro” e adamantino nelle parole, nei fatti si sta invece abbassando a fare proprio uno di quei lavori umilianti (il facchino in un albergo, il mestiere di quelli che portano le valige ai ricchi clienti sopportando passivamente l’umiliante situazione del servilismo, mance comprese) a cui lui aveva invece rinunciato scientemente per affermare se stesso nel gruppo, connotando così con prepotenza la sua genuina voglia di essere diverso fino in fondo per sfuggire davvero al sistema e provare una volta per tutte a “stritolarlo”.
Ora che ha scoperto non solo che l’idolatrato capobanda è un bugiardo, ma anche che la ragazza che ha amato lo ha tradito, la caduta delle sue illusioni è verticale e nemmeno l’appartenenza al gruppo dei Mods può continuare da sola a riempire la sua vita.
L’infrangersi del suo piccolo grande sogno che lo respinge prepotente nel passato, rinchiude Jimmy nel nichilismo della propria delusione, e l’ammissione della sconfitta diventa insostenibile.
Ed ecco allora che il piccolo grande Jimmy invece di tornare indietro, sceglie di andare avanti… ed a suo modo prova a volare… inforca la motocicletta e fa un romantico salto dalle bianche scogliere, come un piccolo Werther o uno Jacopo Ortis del rock (Tullio Kezich) che è tutt’altro però che una vittoria.
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