Di cosa stiamo parlando quando parliamo di True Detective? Per il pubblico di massa è la serie televisiva del terzo millennio, un capolavoro senza sbavature, mentre per i non pochi detrattori è una serie mediocre che gioca su facilità visive e ricatti morali con un elenco chilometrico di difetti e puerilità.
Chi loda la serie antologica di HBO parla soprattutto della bella fotografia, dei due personaggi bellissimi sulla carta e perfettamente resi da Matthew McConaughey e Woody Harrelson, dei riferimenti letterali e delle citazioni pop-horror, del fascino del folklore cajun e delle location malsane della Louisiana, della struttura narrativa a incastro dove vengono alternati i tre piani temporali della diegesi e del già culto piano sequenza della sesta puntata.
Chi invece critica True Detective parla quasi sempre di una fotografia troppo edulcorata che serve solo a ben confezionare un prodotto insipido; parla dei due protagonisti come terribilmente stereotipati e noiosi, soprattutto quello di McConaughey; parla del fascino ricattatorio dell’ambientazione e delle locations; parla delle citazioni letterarie e dei riferimenti extratestuali alti e bassi come di un frullato pop a uso e consumo dell’americano medio incolto; parla del famoso piano sequenza della sesta puntata come di una ripresa del livello del piano di gioco di un videogame e soprattutto parla dell’operazione estetizzante della serie, dietro cui si nasconderebbero tutti i suoi difetti “hipster”.
Personalmente ho apprezzato True Detective. Appena iniziata la visione, complice una title song da brividi, musica e testo insieme, la Far From Any Road di The Handsome Family, l’ho apostrofato il “Twin Peaks del terzo millennio”, forse impropriamente e ben consapevole delle più che dovute proporzioni, visto che il capolavoro di David Lynch è ancora oggi una scuola di narrazione seriale insuperabile, un thriller/horror perturbante dalle significazioni universali. Il fascino indiscusso di True Detective l’ho percepito sicuramente fino alla morte di Reggie Ledoux. Dopo di che tutto s’è fatto più stagnante e seppur l’interesse c’era, compreso quello per la sola performance di McConaughey, mi son reso conto che qualcosa non andava. Qualcosa non filava più bene come prima. Qualcosa scivolava un po’ troppo spesso. Qualcosa, in definitiva, aveva perso l’originalità delle prime puntate. La scrittura.
Molti detrattori infatti criticano a Nic Pizzolatto di aver scritto da solo l’intera serie, mentre i prodotti più interessanti della serialità americana nascono a più mani in quella writers’ room dove i cambi di sceneggiatori e registi aiutano a migliorare l’universo narrativo, le originalità e i colpi di scena.
In rete si possono trovare, limitatamente all’area italiana, molti articoli, più o meno competenti, più o meno professionali, che criticano senza mezzi termini o che lodano estasiati la serie HBO, creando una piccola rete fognaria di pensieri e riflessioni forse anche allo sbaraglio dilettantesco. Il problema di internet è quello di aver aperto indiscriminatamente le gabbie e aver dato la possibilità a chiunque di parlare e sentenziare su questioni di cui forse non conoscono nulla. Compreso il sottoscritto.
A tutti sono chiare due cose: i riferimenti letterari e le performance dei due attori. Lovecraft, Chambers e Thomas Ligotti, riconosciuto anche da Valerio Mattioli di L’ultimo uomo (1) come la principale fonte di ispirazione dell’intera serie, sono i rifermenti maggiori a cui attinge l’ideatore della serie. La concezione pessimista del weird writer, un’umanità condannata a vagare per un mondo le cui apparenze celano una realtà angosciante e aberrante, è in definitiva la sinossi di True Detective.
Più o meno tutti d’accordo sulla performance dei due attori protagonisti. A Woody Harrelson viene criticato di essere Woody Harrelson che fa Woody Harrelson, anche se il suo personaggio gode di maggior simpatia anche tra i detrattori per essere più sanguigno, borderline e credibile del suo socio. Per Matthew McConaughey invece, come se ne loda la bravura recitativa, se ne critica la presunta statura demiurgica, vista più come una spocchiosa sociopatia intrisa di qualunquismo mistico. Tra i più critici e impietosi c’è Lenny Nero (2) che scomoda Nietzsche, la New Age, Baudelaire, Charles Manson e Kurt Vonnegut per definire “corbellerie” le biascicate di Rust Chole.
È sempre Lenny Nero, nella sua impietosa analisi di True Detective, a proporre un punto di vista interessante e non accomodante, che coinvolge tutti i blogger, gli opinionisti e i tuttologi che internet ha concesso di uscire dalle gabbie. Dice: «[…] il capolavorismo è il vero male di ogni critica come lo è ogni cieca acclamazione di massa, perché trasforma la critica in semplice opinione, che ognuno ha la sua e non va oltre le elementari categorie di mi è piaciuto/non mi è piaciuto». Sante parole.
Peccato che il suo intervento condanni la lentezza della storia e del linguaggio cinematografico utilizzato per raccontarla, definendola estenuante tanto quanto le corbellerie proferite da Rust Chole, quando invece credo che uno dei tanti valori aggiunti di True Detective sia appunto questa indolenza, questa inanità a procedere, questo sforzo enorme per portare avanti la storia nella sua impostazione generale. Ci sono infatti twist e climax notevoli sparsi lungo gli otto episodi, ma è l’apatia canicolare del sud afoso e ristagnante a dettare i ritmi della storia e del modus vivendi dei suoi personaggi. Il Rust Chole di McConaughey, pur non essendo un locale, sembra essere la antropomorfizzazione dell’ambiente paludoso louisiano.
Lenny Nero condanna anche l’ipotetico pretesto giallo, crimenovelesco, che sarebbe solo «uno specchietto per le allodole, perché il giallo è solo la cornice, sbiadita, che avvolge il presunto contenuto: l’ambientazione, la gente del sud, le puttanate di Rust, la rozzezza di Marty». Credo invece che sia palese e lampante come il “pretesto” giallo sia funzionale al vero contenuto di True Detective: i caratteri opposti, antitetici e irrimediabilmente complementari dei due personaggi. È sì un pretesto, reso tra l’altro con notevole incisività, ma serve per raccontare l’asocialità di Rust e le illusioni da americano medio di Marty che alla fine convolano a nozze sotto le stelle e lasciano dietro di loro la zavorra che non gli permetteva di elevarsi come esseri umani. Dopotutto non è una novità che il genere giallo, il noir o la crime-story in generale, siano sempre state usate in cinema e letteratura anche per fotografare la società con i suoi problemi e le sue ipocrisie. L’indagine investigativa come paradigma dell’indagine su se stesso.
Lenny Nero, in soldoni, accusa Pizzolatto e l’intera prima stagione di True Detective di essere più interessati alla mistica, alla filosofia e all’umanità, spicce a suo dire, «liofilizzate a uso e consumo degli yankee, ma con una confezione patinata che soddisfacesse i palati più esigenti costellata di molliche di Lovecraft e Ambrose Bierce […]», invece che di concentrarsi sulla trama poliziesca e creare un ottimo prodotto di genere. Lo sbaglio del blogger è di interpretare il lungo film di Pizzolatto solo superficialmente. O almeno questo è quello che ci fa credere dal suo intervento, confondendo i punti di forza della serie tv con la puerilità che condanna.
Quit the Doner, il blogger di Vice.com (3) critica addirittura la riproposta della classica coppia di sbirri, di cui uno, Woody Harrelson, sarebbe il neanche poi tanto diverso “burbero dal cuore d’oro” del cliché trito e ritrito di decenni di cinema e serialità poliziesca, scagliandosi contro quei saggi apostati che non sprecano occasione per insultare le fiction italiane incentrate sui soliti preti, medici e poliziotti buoni dell’Italia beghina – e mi unisco al coro – per poi lodare la presunta rivoluzione di True Detective, serial americano che ripropone un cliché vecchio come il cucco.
Personalmente credo fortemente negli archetipi e nella loro continua riproposizione con variazione sul tema. È proprio attraverso a loro, alle “ombre”, che riusciamo a veicolare e rappresentare fuori di noi il nostro vissuto e tentare un’interpretazione di questa cosa strana e a volte incomprensibile che chiamiamo vita. Senza l’archetipo, ogni nuova figurazione del modello resterebbe un simulacro arido e sterile. Mentre invece, la sua proprietà intertestuale ci permette di riflettere e saper leggere il typos, il topos e l’archetipo narrativo con cognizione di causa.
Inoltre, altro tassello che ci permette di vedere come le critiche mosse a True Detective siano in buona parte dovute ad una omologazione culturale di cui si finge non esserne influenzati, lo individuiamo nella critica di Quit the Doner quando accusa il plot e la sceneggiatura della serie di essere incongruenti e scricchiolare qua e là a causa di diversi buchi. Ora, quando sento parlare di “buchi di sceneggiatura” penso sempre che chi sta parlando voglia solo riempirsi la bocca aggrappandosi a un falso mito della critica. Tant’è che il blogger in questione sostiene che «[…] a un certo punto ad esempio un detenuto, potenziale testimone chiave, muore, e Pizzolatto non riterrà mai necessario farci sapere chi l’ha ucciso». Ripeto: lo spiegazionismo è un procedimento retorico per correre incontro alle ristrettezze mentali del fruitore. Proprio l’assenza di spiegazioni aiuta ad avvolgere l’intera narrazione in un’atmosfera straniante, inquietante, impalpabile, su cui no si riesce ad avere il dominio dei materiali. È anche questa la forza di True Detective.
Le critiche continuano chiamando in causa l’uomo in rivolta metafisica di Camus che qui sarebbe solo uno sciagurato che «ogni volta che apre bocca due volte su tre tira fuori un monologo sull’assenza di senso dell’universo»: la vita fa schifo, l’universo è governato dal caos, il mondo si sta disgregando ecc. Credo invece, che se la facilità stereotipica del personaggio di Rust Chole fosse stata maggiormente articolata in senso inverso, ovvero facendolo tacere più spesso, circoscrivendo così le sue tirate filosofiche e i suoi lamenti esistenziali, avremmo forse avuto tra le mani un personaggio più credibile, ma non avremmo avuto l’icona terzomillenaria che ci troviamo di fronte. Checché se ne dica, il Rust Chole di Matthew McConaughey resterà a lungo nell’immaginario popolare.
Tutto ciò che viene condannato a True Detective, ovvero la confezione azzeccatissima, ma priva di contenuti, sapientemente nascosti dietro di essa, credo invece sia la sua bellezza formale. Il paesaggio ferino e selvaggio dell’intrico bayou, le baracche, i relitti industriali, le catapecchie, l’archeologia urbana e rurale; l’ancestrale spirito tellurico rievocato nella messa in scena, dalla palude insana al bordello di minorenni, il circo religioso itinerante, la tana dell’orco, la “Carcosa” infernale persa nella palude, quell’acquitrino melmoso che intorpidisce acqua e terra e chi le abita; i riferimenti e i richiami a una cultura pagana, il simbolo a spirale, la donna-cervo, un “mostro” che vaga per il pantano a caccia di ragazzini; i colori desaturati, i personaggi perfettamente tipicizzati e perfettamente interpretati, i dialoghi complessi, brillanti e pieni di ritmo – “sei il Michael Jordan dei figli di puttana” è già una battuta cult; la struttura narrativa a tre piani temporali tra loro complessamente intrecciati – il presente che racconta il passato di diciassette anni prima; il presente che racconta il passato più recente; il presente dell’azione finale; tutto quello che viene riprovevolmente visto come ciarlataneria è in realtà la gioia di chi sa apprezzare il racconto archetipale e pieno di interpretazioni e sfumature, con abbondanza di non detti e privo di spiegazionismi.
Va detto anche che True Detective risente di qualche imperfezione. Lo so che il paragone non è giusto, ma non credo che dopo il ritrovamento di Laura Palmer nel pilot di Twin Peaks ci sia modo di eguagliare l’impatto visivo ed emotivo raggiunto da David Lynch del topos del “ritrovamento del cadavere”. La donna-cervo che ritrovano i due detective non inquieta, è una bambola posticcia messa a fare da ornamento. Allo stesso modo, il Reggie Ledoux che se ne va in giro in boxer, maschera antigas e machete in mano, è iconograficamente convincente, ma emotivamente non perturbante. Così come tante altre figurazioni del male, una su tutte il mostro, Errol, che se ha dalla sua la celebre “normalità del male”, non certo brilla per disturbing – a parte la laida scena pornosoft in cui si lancia con l’orrenda moglie.
Ciò che conta in True Detective è l’uso che si fa degli archetipi, dei tipi, dei moduli narrativi. Se non è un buon horror/thriller e nemmeno un buon procedurale e tanto meno un buon racconto di formazione, come accusa Cesare Alemanni, sempre di L’ultimo uomo, è sicuramente un buon character drama dove le incursioni nel thriller di taglio orrorifico non sono certo solo accessori e scenari sterili.
Anche l’accusa dell’ipotetico manicheismo lascia il tempo che trova. Non è vero che in questa lotta banalizzata tra bene e male, i personaggi secondari non sappiano essere incisivi e ben fatti. Nessuno si dimenticherà di Alexandra Daddario, classe 1986, e del suo corpo nudo e da reato che ci viene sbattuto in faccia senza troppi veli, così come ogni altra ragazzina che il buon rude Harrelson si cavalca per bene nel suo delirio adultero. Anche gli altri comprimari, come i vari detective, il capo della polizia, le giovani prostitute, politici clientelari e compiacenti, le figlie e la moglie di Harrelson, gli zotici redneck ambigui e ferali, i disumanizzati personaggi delle paludi e della marginalità americana, i superstiziosi e creduloni fanatici cristiani e ogni altra mostruosità antropologica, se sono soltanto figure di un diorama archetipale e forse stucchevole, funzionano sia narrativamente che iconograficamente.
Anch’io credo che nelle ultime puntate si sia persa un po’ di vista l’idea originale del serial che ci a fatto urlare al capolavoro, tant’è che a stagione conclusa non credo che True Detective sia più un capolavoro, bensì un’ottima serie che vuole giocare con degli stereotipi, con dei cliché in cui tutti sappiamo ritrovare e rileggere l’aspetto inspiegabile della vita, del mondo, del bene e del male.
Ecco di cosa parliamo quando parliamo di True Detective: di una serie, a detta di molti banale e irritante, che ha però prodotto una certa discussione. Se ha goduto di tanta considerazione è perché la sua archetipalità e le sue tipizzazioni hanno saputo coinvolgere, in un senso o in un altro, lo spettatore. Ecco cos’è in parte questa prima stagione di True Detective. È un racconto nero, ben giocato nell’alternanza tra buio e luce in luogo di bene e male, che sa trattare questioni alte, come il nichilismo, la metafisica antiumana, il disorientamento esistenziale, il pessimismo cosmico leopardiano, le patologie dell’asocialità e tutte le loro forme estetizzanti che le trasfigurano nel paesaggio selvaggio e oscuro, intricato e melmoso, stagnante e insano delle paludi del sud degli Stati Uniti, terra di gente ancora a stretto contatto con una interpretazione della vita semplicistica e pagana, una terra pregna di spiritualità antica di «quando a dominare la terra non era la Parola di Dio, ma esseri ancestrali, indifferenti alle sorti della scimmia uomo» (4).
L’espressione “scimmia uomo” la faccio mia per il parallelo con l’uomo plagiato, il credente fanatico che non ha i soldi per mangiare, ma da dare alla sua chiesa invece sì. La stessa fauna umana incapace di interpretare con razionalità il mondo, per mancanza degli strumenti adeguati, e preferisce lavare nel sangue ogni paura, ogni ambiguità, ogni mistero. Fauna che in True Detective esce con le ossa rotte, ma senza ghettizzazioni di sorta, è una spietata e impietosa fotografia socio-politica del ventre molle dell’America.
Se un minimo di didascalismo e retorica lo si avverte lungo le otto puntate, soprattutto sul finale, davvero non all’altezza dell’incipit, non credo che le critiche mosse a True Detective si siano fondate su questioni trattate con oggettività. Come dobbiamo guardarci dall’acclamazione di massa, in un’epoca in cui tutti credono di essere qualcuno unto dal divino con diritto all’ultima definitiva sentenza postando una frase o un pensiero nella rete, dobbiamo anche stare attenti ai giudizi del singolo individuo che può, per motivi strettamente personali, aver deciso a priori una crociata in un verso piuttosto che in un altro.
Se True Detective non è un capolavoro, è sicuramente un ottimo intrattenimento, magari furbesco, ma non certo puerile. La classica rappresentazione pop di questioni alte attraverso pratiche erroneamente considerate basse, ovvero il genere, l’archetipo, le tipizzazioni e la cura formale.
Abbiategrasso, 1 dicembre 2014
Riferimenti:
(1) http://www.ultimouomo.com/guardiamo-true-detective/
(2) http://lennynero.wordpress.com/2014/03/11/quer-pasticciaccio-brutto-di-true-detective/
(3) http://www.vice.com/it/read/true-detective-fine-serie
Altri rifermenti:
http://www.matteoporopat.com/opinioni-non-richieste/true-detective-le-paludi-della-natura-umana/
http://www.linkiesta.it/true-detective-analisi
http://www.caponatameccanica.com/true-detective-thomas-ligotti/
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