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Cinelavorando: Intervista a Ludovico Caldarera
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Ludovico Caldarera è quello che in gergo si definisce un cavallo di razza. Abituato alle grandi corse, ha fatto della recitazione la sua vita, passando da set prestigiosi al piccolo teatrino palermitano in cui diverte soprattutto i bambini con degli spettacoli all’insegna della semplicità ma senza mai dimenticare l’arte. A fronte di una carriera trentennale, Caldarera non si è fatto mai mancare nulla: teatro di strada, teatro di figura, teatro impegnato, marionette, pupi e cinema, commerciale o d’autore che sia. È stato diretto da Francis Ford Coppola e da Paolo Sorrentino ma non per questo disdegna la commedia, come ad esempio Andiamo a quel paese dei concittadini Ficarra e Picone. Lo abbiamo intervistato in esclusiva.

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Ludovico Caldarera

 

Il prossimo anno tagli un traguardo molto importante: saranno trascorsi esattamente trent’anni da quando ti sei diplomato in recitazione presso la scuola Teatès di quel grande regista teatrale che era Michele Perriera.

Ma sai che ho iniziato molto prima? I mei erano di Bisaquino ma emigrarono in Germania quando io avevo sei mesi. Ho vissuto là fino ai sei anni, i miei lavoravano entrambi e mi lasciavano da quella che oggi si chiamerebbe “babysitter”: la vicina di casa, che si prendeva cura di me. Fino ai sei anni, dunque, parlavo solo tedesco ma capivo il siciliano, che parlavo la sera a casa con i miei prima che mi mandassero a letto dopo cena già alle 8. Il Natale precedente alla mia iscrizione a scuola vennero a trovarci i miei nonni, con i quali si decise che sarei ritornato in Sicilia. Per certi versi, fu la mia fortuna: i miei mi avevano iscritto a una scuola francese. Immagina la confusione: io che parlavo tedesco e che capivo il siciliano avrei dovuto studiare in un istituto francese! Tornando in Sicilia, sono stato fino ai 12 anni a casa di mia nonna, che abitava vicino a una chiesa. E proprio in quella chiesa ho preso parte a un primo spettacolo, scritto da noi ragazzi. Si chiamava Gli emigranti delusi. La rappresentazione si tenne nella canonica ma, visto il successo riscontrato in paese per il tema trattato (chi in quegli anni non aveva un parente lontano da casa?), ci venne richiesto di replicarlo durante la festa patronale, in un palco montato in piazza. Come accadeva allora, la piazza era stracolma tanto che l’anno successivo ci ripresentammo con un altro spettacolo: Visita militare, incentrato su un ragazzo siciliano che passava la visita militare a Milano. Da quel momento, il gruppo di cui facevo parte venne considerato da tutti come quello che organizzava gli spettacoli. Di conseguenza, creammo una prima associazione culturale vera e propria, con cui producevamo spettacoli e a cui il Comune concedeva dei contributi. Ricordo che con i 2 milioni dati dall’amministrazione comunale comprammo l’amplificazione e il ponteggio (nemmeno le scene, il ponteggio!). Questo ci permise di diventare anche itineranti e di proporre spettacoli nei paesi vicini, arrivando persino nella grande città, a Palermo.

Nel frattempo, però, papà e mamma tornano dalla Germania e la situazione per certi versi cambia.

Finito il liceo, avrei voluto iscrivermi all’accademia a Roma. Ma mio padre era contrario al fatto che facessi teatro: mi voleva notaio. Mi ripeteva sempre: “Devi essere tu a ridere degli altri e non gli altri a ridere di te”. Andare a Roma, però, costava e dunque misi l’aspirazione da parte per iscrivermi all’università e trasferirmi a Palermo. I miei mi passavano ventimila lira la settimana ma il lunedì ero già senza soldi. Fu allora che sentii parlare della scuola Teatès e mi presentai al provino per essere ammesso. Il provino si teneva direttamente con Perriera: un mondo totalmente diverso da quello a cui ero abituato con i miei “spettacolini”. Nella sala d’aspetto della scuola si sentivano persone abbaiare, miagolare, urlare… In pratica, a tutti veniva richiesto a tutti di fare l’animale ed io, anche per timidezza mista a furbizia, proposi di fare il pesce, imitandone la mimica facciale. Fui preso ma da subito sorse un problema: la scuola costava ottantamila lire al mese: una cifra improponibile per me. Era tanto quanto mi dava mio padre. L’interessamento dell’attrice Gloria Liberati, ai tempi nella scuola, portò la cifra a quarantamila lire ma anche quelle erano troppe. Quando già me ne stavo andando, Perriera mi fermò offrendomi di fare la scuola gratis. Non avrei mai potuto chiedere la “retta” a casa: mio padre mi avrebbe ammazzato.

E tuo padre non scoprì mai che studiavi recitazione?

Per un certo tempo, no. Le lezioni erano giornaliere ma, per evitare che mi scoprissero, mi impegnavo maggiormente anche a livello universitario, studiando più di prima. Alla fine del primo anno di recitazione, però, Gigi Borruso mi ha chiamato per uno spettacolo all’università: La politica degli avanzi di Adamov. È stato il primo spettacolo “professionale” in cui recitavo da protagonista. L’importanza del progetto portò anche all’uscita di un articolo sul giornale, accompagnato da una mia foto in primo piano. Capirai che in paese la notizia e la foto arrivarono subito agli occhi di mio padre, che lavorava come fabbro. Minchia, cazziata… “Io le cose le devo sapere dal giornale”. Sebbene continuasse a non sostenermi, io proseguii per la mia strada facendo al secondo anno due diversi spettacoli: uno sempre con Borruso (Le Peintre di Vitrac), uno invece con la regia di Perriera (Vita di Galileo di Brecht, in cui stavo sempre in scena con il personaggio – creatomi apposta – di un monaco muto, ombra di Galileo).

Nel 1985, finita la scuola, mi ha chiamato il grande Filippo Arista (oggi monaco), reduce da una rappresentazione di Esercizi di stile di Queneau. Nacque così dalla nostra frequentazione lo spettacolo Ben Hur, una rivisitazione in chiave moderna – da spettacolo di strada - con al centro una mitica “Ape”.

Quindi, passi con tranquillità dal teatro dialettale a quello di strada passando per la rigidità di Perriera.

Già. Per Ben Hur eravamo solo tre in scena: io, Filippo Arista e Luciano Cicala. Con sul palco un’Ape appositamente costruita e suddivisa a metà, in modo da ospitare uno spettacolo di pupi per La macchina dei sogni di Mimmo Cuticchio. L’Ape per il palermitano rappresentava il tutto: ci andavi a lavorare, ci andavi al mare, la usavi per i trasporti… Poiché alla Macchina dei sogni partecipavano oltre 80 gruppi provenienti da tutta Europa, Ben Hur ha avuto echi persino in Gran Bretagna, con una recensione entusiasta da parte di una giornalista inglese.

L’occasione segna anche il tuo sodalizio con Mimmo Cuticchio.

Un’altra sfera professionale, ancora un altro universo. Abbiamo lavorato insieme per tre/quattro rassegne della Macchina dei sogni e diversi spettacoli. Grazie anche agli spettacoli con Cuticchio, mi ha chiamato il Teatro Vagante, che faceva spettacoli di marionette ma anche spettacoli per bambini. Sciogliendosi la compagnia, cominciai a tutti gli effetti a interessarmi al teatro per ragazzi. E poi venne la collaborazione per l’Agricantus prima di entrare a far parte della compagnia del Teatro Biondo, con cui ho lavorato a quasi tutti gli spettacoli sotto la gestione di Guicciardini.

E l’università in tutto ciò che fine ha fatto?

Per evitare di partire per il servizio di leva ancora obbligatorio dovevo almeno sostenere due esami all’anno. E, mentre ai miei fratelli arrivava il congedo per sovrannumero, a me no. A ventisette anni è arrivata la fatidica chiamata.

Nel frattempo però arriva anche il cinema con Mery per sempre di Marco Risi.

In realtà, avrei dovuto interpretare un altro ruolo e non quello che poi feci. La proposta per il provino mi è arrivata da Cuticchio: era la mia prima esperienza su un set. Girai ma l’incontro con la cinepresa non è stato facile, anzi. Nella scena, dico solo una battuta ma prima di riuscirci ho dovuto ripetere il ciak almeno un paio di volte. Era l’ultima sequenza che si girava quel giorno ma non riuscivo a pronunciare la battuta, ero intimorito dalla presenza della macchina. Tanto che alla fine si è optato per la battuta sbagliata (“Cercatelo sulle pagine gialle” piuttosto che “Cercatelo sull’elenco telefonico”). Anche se, come prima volta su un set cinematografico, mi piace ricordare l’esperienza con Salvo Cuccia, che mi ha voluto per quattro suoi cortometraggi. L’approccio è stato più leggero e uno dei corti ha vinto anche un premio al Festival di Torino. Proprio subito dopo partii per il servizio militare.

Il servizio militare non ti ha però impedito di prendere parte alle riprese di Il Padrino – Parte III di Francis Ford Coppola.

Mentre ero militare, mi ha chiamato Roberto Andò, con cui qualche anno prima avevo fatto uno spettacolo alla Biennale di Venezia. Mi voleva per la parte del giovane prete che si vede nella sequenza girata davanti al Teatro Massimo (sono quello che spinge la mano dell’assassino, che anziché uccidere il Padrino uccide la giovane ragazza). Ho sostenuto una specie di provino e fui subito preso: mi ritrovai in un’atmosfera che definire fantastica è poco. Nei giorni in cui la troupe era ospite di Villa Malfitano, si stava in compagnia di tutto il cast: Al Pacino, Talia Shire, Andy Garcia, John Savage, Carmine Coppola (padre del regista) e Sofia Coppola (con cui stava anche per nascere qualcosa). Da militare, ottenni il permesso del capitano sia per i 4 giorni di riprese diurne a Villa Malfitano sia per quelle notturne al Teatro Massimo (sfruttai, con un espediente, i “permessini” che mi facevano rientrare alle sei del mattino in caserma).

Qualche tempo dopo arriva invece il turno di Tu ridi dei fratelli Taviani.

Ho sostenuto un primo provino prima di essere richiamato (allora ero ancora senza agente) per un secondo provino a Roma, alla presenza dei fratelli. Cosa mai successa fino ad allora nella mia vita, la produzione mi pagava il biglietto aereo e la permanenza nella Capitale. Per tre ruoli, eravamo in quattro candidati. Nello stesso periodo ero in scena al Teatro Biondo nel Coriolano, con tra gli interpreti Giulio Brogi. Brogi aveva già lavorato con i Taviani e sono convinto che, nonostante non me l’abbia mai voluto dire, abbia giocato un ruolo decisivo nella mia scelta.

Con i Taviani l’esperienza deve essere stata particolarmente felice, dato che ti hanno rivoluto nella fiction Rai Luisa Sanfelice.

Quello è stato un regalo. Non era preventivata la mia partecipazione ma mi hanno chiamato perché volevano appositamente me. Era un piccolo ruolo ma sul set a Caserta ero trattato al pari dei protagonisti, avevo persino una mia roulotte personale. Con i Taviani ho instaurato un bel rapporto ma particolarmente intensa è l’amicizia che è nata con la moglie di Paolo, Lina Nerli Taviani, apprezzata costumista.  Ricordo con piacere la sera del mio arrivo e la cena organizzata dai due registi, le rispettive consorti e la figlia Valentina.

La fiction Rai ti vede per ben due volte nel cast di due episodi differenti della serie Montalbano, cosa rarissima considerando che a parte il cast fisso nessuno degli attori ha mai avuto più di una partecipazione.

E non volevo nemmeno andare al primo provino, sostenuto a Catania. E invece vennero il personaggio di Giacomo Pagnozzi in Gli arancini di Montalbano e di Angelo Pardo in La luna di carta. Ma prima di Montalbano mi era accaduta una cosa che possiamo definire “assurda”: ho girato un film (trasformato poi in miniserie) in Germania. Si chiamava Die grüne Wolke, La luna verde, e il regista era un certo Claus Strigel. Era l’adattamento di una storia per bambini, in cui interpretavo la parte di un mafioso siciliano. Ero l’unico italiano nel cast e, a dispetto di quello che si potrebbe pensare vista la mia infanzia germanica, non capivo una parola di tedesco. Fortunatamente, le mie battute erano in siciliano e il copione che prevedeva che avessi accanto una guardia del corpo che mi faceva da interprete tedesco-siciliano. Il caso volle che il film paradossalmente venisse vietato ai minori di 16 anni e ciò ne causò l’insuccesso cinematografico. La serie che ne trassero invece era composta da 10/12 puntate e il successo fu clamoroso. Certo, l’accoglienza iniziale sul set non fu il massimo: il produttore israeliano aveva un certo pregiudizio nei confronti dei siciliani, pregiudizio che con il tempo e la conoscenza è andato via via scemando.

 

Ludovico Caldarera in La grande bellezza

 

A proposito di grandi set, sei uno degli interpreti del premio Oscar La grande bellezza di Paolo Sorrentino, dove dai vita a Basilicata, il padre della bambina prodigio nonché il marito del personaggio di Maria Laura Rondanini. Che ricordi hai dell’esperienza?

Anche quella è stata un’esperienza strana. Ho avuto sin da subito un approccio diretto con Paolo Sorrentino. Il primo provino, non su parte, si tenne a Roma in sua presenza. Per prima cosa, mi ha chiesto se fossi siciliano e come mai non ci eravamo incontrati prima. In un clima gioviale e di scherzo, mi ha fatto provare (senza girare) la scena che avrei dopo effettivamente girato: lo schiaffo alla bambina. All’uscita del provino, mi ha anche presentato Valeria Golino, ai tempi impegnati con la regia di Miele, e mi ha lasciato a chiacchierare con lei. Sorrentino mi ha richiamato un paio di settimane dopo per un altro provino perché voleva vedermi insieme alla Rondanini, nella vita moglie di Silvio Orlando, per capire come eravamo come coppia. Quello è stato anche il momento in cui mi ha detto che ero stato preso.

Sul set, per la scena dello schiaffo alla bimba, abbiamo avuto anche un maestro d’armi che ci ha consigliato come fare. Avrei dovuto dare lo schiaffo da accovacciato ma sin dalla sera prima ero titubante sulla posizione. Nonostante sapessi che Sorrentino non amava i suggerimenti, girai la scena come previsto ma non contento mi presi di coraggio e lo avvicinai, manifestandogli i miei dubbi sulla naturalezza del gesto. Al suo “così va bene”, la rigirammo ancora un paio di volte fino a quando Paolo mi è venuto vicino chiedendomi come avrei voluto farla io. Glielo spiegai e l’ha effettivamente cambiata. È stata una grande soddisfazione professionale per me.

Andiamo a quel paese, invece, ti riporta a girare in Sicilia al fianco di Ficarra e Picone. Interpreti Carmelo, il nipote di zia Lucia che ancor prima del duo di amici Salvo e Valentino ha scoperto i benefici della pensione.

Con Ficarra ci conosciamo da tantissimo tempo, da quando io ero un attore del Teatro Biondo e lui un giovane “studente” e ci si è incrociati per Sogno di una notte di mezza estate.

E tuo padre ha fatto pace con il fatto che sei divenuto attore?

Alla fine, sì. Anche se Andiamo a quel paese non l’ha ancora visto, sta male. Ha cominciato a “rassegnarsi” quando ha visto i vari servizi che mi dedicavano e quando mi ha visto a Chi l’ha visto?. Non perché ero scomparso ma perché qualche anno fa, sotto la conduzione di Donatella Raffai, si realizzavano delle ricostruzioni, mini fiction, sui vari casi e io facevo da attore. Per mia nonna, ad esempio, vedermi sulla Rai è stato motivo di orgoglio.

 

Ludovico Caldarera

Andiamo a quel paese (2014): Ludovico Caldarera

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