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Cineasti invisibili (5) - Antoine d'Agata
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  • Da oggi, noi utenti myHusky e EightAndHalf, con la collaborazione di lorebalda, pubblicheremo dei resoconti biografici e filmografici di alcuni "cineasti invisibili" poco "di moda" che si distaccano dai gusti predominanti e vanno a nutrire un cinema di nicchia che meriterebbe ben altra estensione. Un approccio semplice a grandi registi poco conosciuti: altro che salotti, il cinema è di tutti.

 

 

  • «Non ho mai visto la fotografia come un modo per guardare il mondo, non mi importa dell'estetica o di essere testimone, io credo che la fotografia sia un'interfaccia con il mondo, un modo di confrontarsi con esso, di farne parte, di prendervi posizione. La fotografia permette di creare, di costruire visioni del mondo in cui vivi, ma allo stesso tempo tu devi essere lì, devi esservi presente, devi essere parte della situazione, qualche volta la situazione devi provocarla, qualche volta devi accettare di seguire come una strada una situazione...di solito la gente guarda le fotografie per vedere le cose, ed è per questo che ho cercato di rompere con questa vecchia abitudine».

 

 

  • Antoine d'Agata, nato a Marsiglia nel 1963, lascia presto la Francia per viaggiare e studiare fotografia, fino ad approdare a New York all'inizio degli anni '90 (dove si ritrova a lavorare, tra gli altri, anche con Larry Clark) e ritornare finalmente in Francia nel 1993, subito prima di un periodo di stasi artistica in cui smette di fotografare. Riprenderà nel 1996, fino ad assumere sempre più prestigio e notorietà in Europa e negli Stati Uniti. Dopo il primo esperimento  Le ventre du monde, realizza il suo primo lungometraggio durante un viaggio a Tokyo, Aka Ana, e infine l'esperienza lo porta a realizzare Atlas, ad oggi il suo ultimo film (e il più riuscito).

 

 

  • L'arte di Antoine d'Agata è lo specchio di una soggettività contrita e distrutta, coinvolta visceralmente con il mondo rappresentato e spesso dubbiosa e incerta sull'atto stesso della rappresentazione, sull'atto creativo. L'elaborazione delle immagini (disturbanti come in Aka Ana, fastidiosamente belle come in Atlas) è un processo, per d'Agata, che non nasce dalla necessità del "mettere in scena", o del "costruire" un messaggio o qualcosa che possa assomigliargli: cercando sempre di mettere da parte qualsivoglia intento didascalico, il fotografo marsigliese tenta di irrompere in situazioni piccole e asfissianti, in labirinti passionali in cui il dramma della carne svela impudicamente le sue fiere e nauseabonde interiora, causando nella mente dello spettatore o dell'osservatore gravosi momenti di disturbo emotivo, se vogliamo morale, ma soprattutto estetico.  Però lo stesso d'Agata tiene a dire:

     

  •  

    «Le mie immagini non vogliono essere violente. Mostrano il dolore, la paura, il desiderio; parlano di cose note a tutti. Sono meno violente ed esplicite di quello che normalmente si vede in tv», ed è una simile prospettiva spesso a sconcertare, di fronte alle opere di d'Agata.

 

 

  • D'Agata non ha interesse a scandalizzare, vuole coinvolgere e sfidare l'ostico che può riscontrarsi nell'affrontare le sue immagini, perché, dopotutto, si tratta di reinterpretazioni in prima persona di mondi derelitti e mai dimenticati come quelli della droga e del sesso, del fumo e dell'alcool, di molti di quei vizi umani che distruggono il corpo e lo macerano quasi come fosse l'ultimo frammento sopravvissuto di anima. La poesia e la leggiadria dell'osceno costituiscono una ricerca formale, nel cinema di d'Agata, che non si ferma davanti a nulla, e nel frequente inserimento di voci fuori campo, il regista-fotografo sembra quasi voler condannare l'immagine e la corporeità in una loro dimensione, e porre il pensiero in qualcosa di altro (e spesso risulta programmatico, vittimistico, patetico) che rivela la profonda emotività di corpi contemplati in amplessi disperati e deformanti (in molti hanno notato i frequenti riferimenti alla pittura di Francis Bacon).

  • «Le mie immagini sono innanzitutto e soprattutto intenzionate a "contaminare" la fotografia come la intendiamo ed assumiamo normalmente, "pervertendo" e deformando gli assunti precostituiti che circondano e supportano l'insidiosa ideologia di una cultura fatta di convenzioni».

 

  • (Tre studi di figure a letto, 1972, Francis Bacon)

 

  • (da The Cambodian Room, 2009)

 

  • Simile accostamento di carnalità ed esplicita riflessività rivela la grande originalità della produzione artistica di Antoine d'Agata, ed è particolarmente evidente a partire già dal semplice titolo del suo primo cortometraggio del 2004, Le ventre du monde, esperimento cinematografico che l'ha ben presto portato al suo primo lungometraggio, Aka Ana, in cui penetra nel mondo buio e notturno di un gruppo di prostitute giapponesi che, colte in immagini ai limiti del pornografico, raccontano a parole il loro desiderio, la loro solitudine e la loro paura.

  •  

    «La paura viene coinvolta quando contempliamo il nulla, e ci avviciniamo alla nostra stessa morte. La paura è ciò che ci fa tirare indietro e trattiene la maggior parte di noi dal prendere necessari ma inammissibili rischi; ciò che costringe molti uomini a rinunciare al loro scetticismo, alla loro dignità, al loro coraggio nel momento in cui si scoprono di una vita di illusione, di abnegazione, di oblio. Non è mai un problema del capire la morte; riguarda la consapevolezza di vivere costantemente accanto ad essa ogni giorno della propria vita. E' aprirsi all'esperienza della vita come a qualcosa di prossimo alla morte».

 

  • (Antoine d'Agata in Aka Ana, 2008)

 

  • Ed è proprio un senso di morte incombente che regna per tutta la durata di Aka Ana, un vuoto mortuario che si chiude nel buio più assoluto, e nella fin troppo evidente conclusione in cui la voce di una donna dichiara che «ogni giorno lei muore».

    Sfiorando spesso il documentarismo, ma negando alle proprie immagini e alle proprie ricerche visive l'appellativo di reportage (El cielo del muerto, 2005), d'Agata arriva nel 2013 a realizzare il suo film più apprezzato dalla critica, Atlas, un vero e proprio atlante della natura umana e delle sue miserie. Partecipando egli stesso come attore (d'Agata condivide la vita di perdizione dei suoi personaggi, la constata sulla sua pelle, vuole comprenderla con il corpo, prima ancora che con l'occhio), il regista francese costruisce dei quadri di attonita bellezza, senza voyeurismo – immagini sincere, commosse.

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    «La morte è un elemento che mi appartiene, nonostante lo si veda qui in ragazze che hanno avuto certamente esperienze molto più drammatiche della mia. Anzi, le ragazze mi hanno accusato di aver dato un'immagine troppo oscura e mortifera delle loro esperienze. Il passaggio dalle foto al cinema, in qualche modo, mi ha dato la possibilità di dare loro direttamente la parola».

 

 

  • Atlas è un libro di appunti, una sequela di immagini e di suggestioni "fotografate" durante numerosi viaggi, in cui la concretezza dell'esperienza fa il paio con l'astrazione delle emozioni. Il corpo filmico di Atlas sembra evolvere e costruirsi sui sentimenti del regista e dell'occhio che guarda, in un continuo e significante contrasto fra buio e luce. Il finale, contraltare di quello di Aka Ana, è eloquente al riguardo: costruito un dialogo con una misteriosa donna, personalità incontrata e vissuta dallo stesso d'Agata (a quanto sembra), essa diventa come l'orizzonte regolativo delle tensioni espressive di tutto il film. Quando finalmente l'immagine, in Atlas, si priva delle luci del fuoco e delle fredde e asettiche luci artificiali degli interni, e si apre a un'illuminazione nebbiosa che sa molto di morte e di riconsiderazione definitiva delle proprie certezze, ecco che tutto va sparendo, dissolvendosi nell'indefinitezza. L'occhio smette di vedere, ma l'immagine riesce ad evocare con la semplice tensione, con il vibrare delle emozioni. Si passa dal Cinema alla vita, in Atlas.

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    «Io ti aspetto. Ho bisogno che tu venga da me. La pazienza è infinita. Non ci sono più parole, non ci sono più emozioni. Gli uomini mi attraversano. Io sento attraverso il loro desiderio, che va e viene. Non mi aiuta se non per un momento di estasi. E' talmente luminoso, qui. Cosa fare di tutta questa luce? » (monologo da Atlas, 2012)

 

  • (Immagine da Atlas, 2012)

 

  • Interessante e in qualche modo fondamentale ai fini di una comprensione più profonda dei dilemmi esistenziali che affliggono l'arte e la persona di Antoine d'Agata è The Cambodian Room, documentario di Tommaso Lusena de Sarmiento e Giuseppe Schillaci sul soggiorno che il fotografo francese ha realizzato in Cambogia nel 2007. Alla ricerca disperata di un'ispirazione, d'Agata passa le giornate sempre allo stesso modo, e l'unica possibilità di confronto intellettuale è il dialogo con un giornalista francese che lo raggiunge in visita. Ne fuoriesce un ritratto intimo e pudico di Antoine d'Agata: sembra che la fotografia non gli basti più e che sia la vita, in qualche modo, la candidata principale a prendere il posto dell'arte. 

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    «Il mio inferno sono io. L'unica via di uscita, l'unica mia speranza, è l'altro. »

 

 

  • In tempi recenti Antoine d'Agata ha presentato Atlas a Palermo, per un'anteprima del Sicilia Queer Filmfest che si terrà nel maggio 2015. Qui la lunga intervista prima e dopo la proiezione.

 

 

 

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