Andò “in onda” su Rai 1 nel 1977, questo raro capolavoro televisivo. Me lo ricordo bene e come flashback mi tornano alla memoria le vicende narrate e la mia famiglia, come tante, davanti alla televisione. Undici anni sono pochi per comprendere a fondo questa biografia corretta e realista ma certo resta ancora oggi memoria del disagio provato nell’osservare circostanze nuove e anomale. Una televisione audace, che sporadicamente produsse e propose opere di pari qualità, anche perché, solo qualche anno dopo cedette a una programmazione che, nella competizione con le televisioni private, scese di qualità.
“Ligabue” è diretto da Salvatore Nocita e il protagonista è interpretato da un indimenticabileFlavio Bucci; recitano altri bravi attori come Andréa Ferréol, Giuseppe Pambieri, Pamela Villoresi, Alessandro Haber e Renzo Palmer. La sceneggiatura è di Cesare Zavattini, che tanto fece per la cultura italiana, in particolare per innovare il cinema e renderlo strumento artistico e sociale, un mezzo d’integrazione culturale. Zavattini, instancabile autore del Neorealismo, incontrò Antonio Ligabue, scrisse un poemetto su di lui (Toni Ligabue - 1967) e con sensibilità approfondì la vicenda di quell’uomo sventurato. Con rigore, senza pietismi in tre puntate di un’ora ci fece conoscere uno dei maggiori pittori contemporanei italiani. Perché Antonio Ligabue non stava sui libri di storia dell’arte, non era andato a fare discorsi, né comizi: Ligabue era matto.
Nato a Zurigo da madre bellunese e padre ignoto, viene cresciuto da Bonfiglio Laccabue, emigrato in Svizzera da Gualtieri, comune a nord di Reggio Emilia, che si dimostra inadatto al proprio ruolo al punto di provocare (pare) la morte della madre e tre fratelli per una intossicazione alimentare. Antonio vacilla tra l’odio per il padre e l’amore per la madre e vive in seguito con una famiglia adottiva, spostandosi in continuazione nella misera ricerca di una situazione economica accettabile. Già si presentano problemi di una personalità complessa: docile e violenta. In seguito ad una crisi subisce il primo internamento nel 1917 e due anni dopo è espulso dal suo paese, passa la dogana di Chiasso e in treno giunge al paese natale del patrigno.
Lo sceneggiato di Nocita inizia a questo punto e con toni sobri ripercorre le vicende salienti del futuro pittore. Sopra tutto c’è Flavio Bucci, che dà origine ad un personaggio amabile per il pubblico della televisione in contrasto con quella che fu probabilmente l’idea di gran parte della popolazione di Gualtieri. Trovato impiego come carriolante sugli argini del Po è preda dello scherno dei compagni di lavoro e risolve di ritirarsi solitario nei boschi nebbiosi e umidi. Ama da sempre gli animali e inizia a dipingere; avvicinato dallo scultore Marino Mazzacurati trova un po’ d’umanità e l’aiuto per accrescere le proprie doti artistiche.
Tralasciando il resto della vicenda – e lasciandolo alla visione – pare utile concentrarci su due aspetti: la “malattia mentale” che chiameremo sragione e la fortuna della sua pittura. Ligabue non segue la ragione ed è un emarginato: sulle sponde del fiume vive la povertà con la follia e non ha difficoltà finché resta isolato con la natura e le bestie. Il contatto con gli altri lo precipita nel baratro della razionalità lucida e impietosa. Pare di percepire l’evoluzione che la follia ha avuto in rapporto alla società: prima, un’accettabile allegoria dell’insensatezza umana, poi un confine neutro estraneo alla società ed infine l’operazione poliziesca della reclusione.
Il mondo della sragione è percepito come l’insensato che c’è in ciascuno ed è parte del mondo. Oppure: la sragione è malattia ed è individuata, studiata al punto di incorporarla alla società nello spazio della patologia che ha già confini e questi termini si stringono spesso nelle mura della segregazione. Ligabue poteva occupare ogni interstizio, solo quando era riconosciuto un visionario, un allucinato sognatore ma individuato nel contesto sociale è preda dell’obiettività che punisce. La follia non è che il Male e va condannata e sanata.
Per un crudele paradosso, il tramite è la pittura: Ligabue crea interesse con la propria opera, vende i quadri ma non è, lui, accettato. Al contrario, più circola l’opera e più si crea distanza e salgono alte le pareti del manicomio. Mai ricevuto nei salotti l’uomo e viceversa appesi alle pareti i quadri: Ligabue è di troppo e alla sua morte – doloroso ma doveroso affermarlo – il suo lavoro perderà contatto con l’autore, sparpagliato nelle collezioni private. A nulla valgono le numerose retrospettive, perché individuano il pittore naïf: isolato in una “maniera” quando invece dovrebbe stare di diritto con gli altri soliti noti. Proprio così: non è difficile concepire che l’esperienza dell’angoscia e del dolore è un fatto comune e non una presunta inadattabilità sociale.
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