L'ANNO CHE VERRÀ: VISIONI DEL FUTURO REMOTO
Le prefigurazioni del futuro abbondano nel cinema, di rado rassicuranti. Da Metropolis (1927) a Elysium (2013), l'ammirazione per i prodigi della scienza e della tecnica mostra in controluce uno strisciante sospetto sulle "magnifiche sorti e progressive" che attenderebbero l'uomo. Non si tratta di pessimismo o scetticismo immotivato. Quando ci sforziamo di immaginare il mondo che verrà, in realtà partiamo sempre da quello in cui viviamo e dalle sue tribolazioni. E così, dai classici della fantascienza realizzati in clima di Guerra fredda, dove l'incontro con l'altro – mostro o alieno che sia – non è mai un'esperienza particolarmente gradevole, alle raffigurazioni di distopie legate ai motivi più disparati (la paura di una guerra atomica, il rapporto malsano dell'uomo con l'ambiente), l'inquietudine che pervade gran parte della letteratura e del cinema di fantascienza è il riverbero immediato dell'ansia per le dinamiche storiche, politiche e culturali entro cui il romanzo o il film vedono la luce.
Il periodo d'oro delle descrizioni avveniristiche in letteratura va da fine Ottocento agli anni '20 del Novecento, soprattutto grazie ai lavori di Jules Verne o H. G. Wells. Nonostante l'entusiasmo generale per i progressi tecnico-scientifici e la meccanizzazione, testimoniato dall'affermarsi dell'arte futurista e costruttivista in Italia e Russia, o dal flusso di visitatori alle Esposizioni universali, furono relativamente poche in quegli anni le narrazioni cinematografiche dei mondi di là da venire. In principio furono i divertissement di George Méliès e del suo epigono catalano Segundo de Chomón. In opere come Hotel elettrico (El hotel eléctrico, 1908) di Chomón, la messa in scena di portenti avveniristici è l'occasione per far sfoggio di perizia registica attraverso tecniche come il passo uno e la sovraimpressione, ma non presenta nessun tipo di riflessione sociologica su un ipotetico futuro.
Un'immagine più articolata della nostra vita, così come se la figuravano i nostri antenati, si coglie in Les progrès de la science en l'an 2000, un film del 1909 di Gérard Bourgeois, forse il primo del genere di cui resti qualche traccia. Non è facile cogliere l'idea vintage di modernità nei pochi frammenti conservati alla George Eastman House (e inventariati dalla Cineteca del Friuli nell'ambito del Progetto Turconi).
L'arredo della camera da letto in cui ha inizio la vicenda, dal catafalco vittoriano alle sedie impagliate alle tendine di pizzo alla finestra, non sembra presentare alcun elemento vagamente futuribile. Ma il nuovo è nell'aria ed è rappresentato dall'automatizzazione di ogni più insignificante elemento della quotidianità. Ambientato nel 2010, Les progrès de la science en l'an 2000 racconta un universo in cui gli esseri umani non avrebbero avuto che da premere una sfilza di pulsanti per vedersi portare colazione e vestiti a letto, e in cui si sarebbe potuto fare a meno di camminare anche solo per brevi distanze, grazie ad appositi piedi a motore. Quanto la fiducia cieca nelle macchine costituisse un'idea distorta di progresso e, soprattutto, quanto una tale evoluzione suscitasse inquietudine nei candidi spiriti del tempo lo dimostra l'esito della vicenda. Il protagonista finisce per ripudiare in blocco tutto ciò che questo nuovo paese dei balocchi meccanici gli offre, e scaglia in aria tutte le sue apparecchiature elettriche "con aria di tedio e disgusto", racconta il recensore di Bioscope. Le resistenze al cambiamento trovano espressione in una vicenda che, criticando un ipotetico futuro, finisce per corroborare l'esistente come il migliore dei mondi possibili.
Del resto, ritrarre l'avvenire è spesso un pretesto per decretare il trionfo dello status quo e demonizzare le ansie latenti di rinnovamento nella società. Questa funzione retrograda delle pellicole utopistiche risalta con grande evidenza in un sottogenere esplorato sin dai primi anni '10, quello del mondo dominato dalle donne. Decine di titoli come Looking Forward (1910), In the Year 2000 (1912), In the Year 2014 (1914), Percy Pimpernickle, Soubrette (1914), fino a L'ultimo uomo sulla terra (The Last Man on Earth, 1924) associano l'idea del salto in avanti nel tempo alla visione di società dove terrificanti virago condannano gli uomini a vivere come cittadini di serie B (Keith M. Johnston, Science Fiction Film: A Critical Introduction, p. 68).
Sono gli anni delle battaglie combattute da Emmeline Panckhurst e le Suffragette in Inghilterra, e movimenti analoghi nel resto del mondo occidentale, per garantire all'altra metà del cielo diritti civili pari a quelli degli uomini. I cineasti prendono posizione, ma spesso lo fanno confermando le paure dilaganti negli ambienti maschilisti su un eventuale allentamento dei vincoli imposti alle donne. I cliché adottati per far leva sul pubblico tradizionalista dell'epoca sono vari e facilmente immaginabili: l'incapacità delle donne di governare razionalmente il mondo, il loro eccessivo attaccamento per i futili dettami della moda e dell'estetica, e di conseguenza la loro inadeguatezza a esercitare allo stesso tempo il ruolo tradizionalmente maschile di chi esercita il potere e femminile di chi lo subisce. Per non parlare della dipendenza psicologica delle donne nei confronti del genere maschile, come ne L'ultimo uomo sulla terra, ambientato nel 1950. Qui le donne sono classe dominante non tanto perché abbiano deciso scientemente di estromettere gli uomini e dar vita a una società autarchica in chiave femminista. È successo loro malgrado, in quanto tutti i maschi dai 14 anni in su sono stati fatti fuori da un'epidemia. Figuriamoci, quindi, l'entusiasmo generale quando un gruppetto di esploratrici scova l'eremita Elmer, letteralmente l'ultimo uomo sulla Terra. I manifesti del film sono eloquenti: Elmer, che non solo masculo è, ma pure giovane, belloccio e azzimato, viene assediato da una turba smaniosa di rappresentanti del gentil sesso, tutte discintamente vestite e acconciate da maschiette alla Scott Fitzgerald nonostante il salto temporale di quasi trent'anni. E lui, sguardo da conquistatore, e per giunta con qualche decennio di astinenza sessuale sul groppone, se la gode una cifra! Ancora una volta la morale della favola futuristica spegne – singolare paradosso – ogni aspettativa progressista. Chi pensava che nel mondo di domani le donne potessero governare impunemente al pari dei maschietti resta con un pugno di mosche. Non solo: anche là dove le donne comandano con pugno di ferro dopo essersi sbarazzate del secolare predominio maschile, basta poco per fare marcia indietro. Come in One Hundred Years After (1911), dove il protagonista riesce a sedurre nientemeno che la grande mammasantissima – nella fattispecie la sindachessa di New York – e a far concedere agli uomini il sospirato suffragio universale. Con grande giubilo dei suddetti, si suppone.
Residui di ginecocrazia, sia pure soggetta al controllo di un'arcigna casta sacerdotale, sussistono anche in Aelita (id., 1924), di Jakob Protazanov. Tra i più celebri film fantascientifici del muto, Aelita è un guazzabuglio non totalmente riuscito, ma tuttora affascinante, di propaganda comunista, melodramma e scoperta di mondi lontanissimi. Come in altre narrazioni cinematografiche di viaggi interstellari, guerre planetarie e visitatori da altre galassie, dal Viaggio nella luna (Voyage dans la Lune, 1902) di Méliès a Una donna nella luna (Frau im Mond, 1929) di Lang, le vicende non si svolgono nel futuro ma in un imprecisato presente, grazie agli sviluppi tecnologici contemporanei. In stridente contrasto con le vedute di una Mosca triste e impoverita dalla NEP, dove una stecca di cioccolata basta a conquistare una donna, la voglia di evasione è qui rappresentata dalle immagini dello sfavillante palazzo reale di Marte, sacrario dell'infida Aelita.
Le scenografie costruttiviste di Rabinovic, Koslovskij e Simov colpiscono per nitore. Mostrano ampi interni (la superficie esterna di Marte appare in un'unica inquadratura) dall'estetica minimalista, dove il luccichio di cristalli acuminati e dei metalli sono funzionali, assieme al geometrismo dei costumi firmati Aleksandra Ekster, alla descrizione di una società sofisticata e avanzata, lontana anni luce – è il caso di dirlo – dalle ristrettezze moscovite. Come se gli strati più alti della società marziana, con il loro portamento da bramini, fossero riusciti a fare a meno del superfluo per soffermarsi (finalmente!) sull'essenziale. Gli esponenti dell'oligarchia marziana sono rigidi come ciocchi e si limitano a pochi ieratici movimenti che conferiscono loro un'aura di carisma e sintomatico mistero, direbbe Battiato. Una certa analogia li lega agli anziani marziani biancovestiti, più simili a druidi celtici che a sapienti extraterrestri, che accolgono gli esploratori terrestri nel danese Himmelskibet (1918).
Ma le analogie finiscono qua. In Himmelskibet la vita nell'iperspazio è immersa in un'atmosfera di idillica serenità, come in una nuova età dell'oro. Come dire che un futuro di speranza sarebbe possibile anche per noi, se solo sapessimo cogliere il messaggio di sobrietà che ci proviene dalle società più evolute. Al contrario, pur nell'inarrivabile superiorità tecnologica, il mondo su cui regna Aelita si rivela essere l'ultimo avamposto del dispotismo. Tanto che saranno i lavoratori marziani a mostrarsi sensibili al fascino della rivoluzione d'ottobre e produrne una versione casareccia, con la doppiogiochista Aelita che cercherà invano di saltare sul carro dei vincitori e riciclarsi politicamente.
Il mondo di Aelita è tutto tranne che idilliaco, ma pur sempre passabile rispetto alla grande utopia negativa degli anni '20, e una delle più intensamente tratteggiate dell'intera storia del cinema: Metropolis (id., 1928) di Fritz Lang. Diciamolo subito, e con tutto l'amore sviscerato che ogni cinefilo non può non nutrire per questo film geniale: la trama è una solenne baggianata, e Lang se ne rendeva perfettamente conto. L'idea che il conflitto tra capitale (simboleggiato da Joh Fredersen, oligarca di Metropolis) e lavoro (il capo della sala macchine Grot) possa essere risolto con una pacca sulla schiena e una stretta di mano, alé op!, attraverso la mediazione del cuore (Freder, figlio di Fredersen), colpisce per faciloneria ed è a distanza siderale dalle riflessioni sul tema che pure imperversavano in quegli anni.
Ma che importa? La riflessione politica serve solo a dare un'impalcatura narrativa al film, a riproporre in chiave futuristica la contrapposizione tra gli eterni archetipi del bene e del male, della luce e delle tenebre, del vero e del falso, anziché descrivere elementi concreti come appunto il capitale e il lavoro. La forza di Metropolis sta tutta nella straordinaria carica emotiva delle sue immagini. Metropolis è cinema nella sua forma più pura, è l'immagine stessa della forza creatrice che il cinema incarna, e porta in sé – oggi come allora, e forse più che mai – tutta l'evocatività e la suggestione di cui la settima arte sia mai stata capace.
Anche Metropolis, come tante altre fantasticherie sul futuro, nasce dalla rielaborazione di un'immagine reale: la skyline notturna di Manhattan osservata dalla nave che nel 1924 portava Fritz Lang in America per la prima dei Nibelunghi. "Immergevo lo sguardo nelle strade – le luci abbaglianti e gli alti edifici – e fu allora che immaginai Metropolis", confessò più tardi al collega Peter Bogdanovich (P. Bogdanovich, Fritz Lang in America, p. 15). Quello che non disse era che New York esercitava su di lui un effetto ambivalente, e che l'attrazione e la fascinazione per lo splendore e l'energia della città si accompagnavano a un vibrante senso di angoscia per i suoi lati più segreti e bui. La città "era il crocevia di forze umane molteplici e confuse" in lotta "per sfruttarsi reciprocamente e vivere così in un costante stato d'ansia" (Frederick W. Otts, The Films of Fritz Lang, p. 27). La città simbolo della modernità, con i suoi grattacieli, le monorotaie e gli aeroplani, presentava un contraltare nascosto e inquietante, un sottobosco umano dove l'esistenza si identificava con la sopravvivenza. Il lato oscuro della forza vitale di New York diventa, trasfigurato, lo strato sotterraneo di Metropolis.
Nella visione avveniristica veicolata da Metropolis ogni luce ha la sua ombra. Le possibilità spettacolari offerte dalla scienza e dalla cibernetica, rappresentate dalla meticolosa quanto – secondo Kracauer – inutile descrizione del laboratorio di Rotwang nell'episodio della creazione dalla donna-robot, sono negate dai loro stessi effetti disastrosi. L'automa, inconsapevole e servile, si trasforma in un essere che sfrutta subdolamente e in piena coscienza il suo appeal sessuale per distruggere l'umanità di cui nel frattempo è diventato antagonista.
Solo quella stretta di mano finale sembrerebbe portatrice di un messaggio di speranza e capace, finalmente, di convertire l'incubo in sogno. Ma la speranza è illusoria e, nonostante il carattere messianico che alcuni hanno voluto ravvisare in Maria e Freder, il finale è amaro. Joh Fredersen riesce, con una sola fava, a prendere più piccioni: sottrae il figlio dalle sue rêveries di paladino del proletariato straccione e lo riporta nella sua sfera d'influenza, sopisce la rivolta dei dannati degli inferi senza fare nessuna concessione sulle loro condizioni di vita e di lavoro, e in generale torna a imporre un controllo di stampo più paternalistico sui lavoratori attraverso il nuovo patto con il capo operaio, che implicitamente diventa suo complice e sodale. Tutto continuerà come prima, forse peggio di prima. E neanche il robot-Maria muore del tutto. La sua figura statuaria, tornata alle sembianze di un automa, resta indifferente e come altezzosa tra le fiamme che la circondano. Il suo destino, ignoto, è l'emblema di un finale che forse non poteva che rimanere aperto. Come fatalmente aperto è il nostro futuro.
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