Perché non esistono solo le grandi, quelle che “sono meglio del cinema” e avvinghiano gli spettatori a personaggi e situazioni indimenticabili. Perché ci sono anche quelle che, giornalmente, fanno il lavoro sporco di riempire i palinsesti delle tv generaliste (a pagamento e non), mediani di vecchia scuola (ne cantava Ligabue) che non segneranno mai, gregari che non vinceranno mai una gara (mal gliene incoglierebbe !) e sparring partners contiani a vita. Che sgomitano a metà classifica per un posto in una graduatoria Emmy e offrono rifugio ad attori snobbati o bolliti dallo “show business” cinematografico (a torto o a ragione). Che sono mediocri e felici di esserlo, creano dipendenza nel seriofilo accanito, siano esse autoconclusive o lostiane nell’intreccio, procedurali o gialli classici, comedy o fantascientifiche. Che si possono guardare con un occhio solo e pochi neuroni collegati, mentre si prepara o si consuma la cena.
Ma delle quali, spesso, non si può fare a meno.
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Haven, iniziata nel 2010 e attualmente giunta alla 5^ e ultima stagione (di ben 26 episodi), si ispira, molto alla lontana, all’ottimo romanzo breve “Colorado Kid” di Stephen King del 2005.
E’ ambientata in una inesistente cittadina (Haven, appunto) localizzata nel Maine (ma in realtà le location usate sono in Nuova Scozia, Canada) e prende lo spunto dall’arrivo in città dell’Agente dell’F.B.I. Audrey Parker, interpretata dall’attrice Emily Rose. Quest’ultima, praticamente sconosciuta alle cronache cinematografiche e televisive (pur avendo partecipato a numerosi episodi di “Jericho”, “Brothers and Sisters” e addirittura “E.R.”) ha il tipico aspetto da “girl next door” americana, bionda, carina, di quelle che vedresti bene nei panni di una cheerleader fidanzata con il quarterback di una squadra della profonda provincia (prima che entrambi invecchino ed ingrassino, iniziando a vivere di rimpianti e birre consumate in veranda – N.d.A. cioè “Nota dell’Autore-schiavo-dei-cliché-cinetelevisivi”).
Ad Haven si verificano, ad intermittenza di svariati anni, i “Problemi”, con la P maiuscola, non quelli normali tipo pagare il mutuo della casa o il college dei figli, ma fenomeni particolari, sorta di maledizioni, che colpiscono un nutrito numero di abitanti della cittadina, rendendoli pericolosi per se e per gli altri. Manifestazioni di ogni tipo, si va dalla telecinesi alla capacità di provocare terremoti, dal suonare motivetti al pianoforte che fanno rinsavire i pazzi e impazzire i sani al far marcire cibo e frutta solo innervosendosi. Oppure donne che fanno invecchiare gli uomini fino alla morte facendo sesso con loro, ombre assassine, camaleonti umani, pirocinesi, paradossi temporali, uomini che attirano proiettili, cani trasformati in umani cavernicoli and so on.
Qui conosce gli altri due protagonisti principali della serie, l’agente di polizia Nathan Wuornos (interpretato da Lucas Bryant), affetto dai problemi e quindi privo di sensibilità tattile su tutto il corpo, e Duke Crocker, piccolo faccendiere locale interpretato da Eric Balfour (protagonista di “Skyline” dei fratelli Strause del 2010 e comparsa di innumerevoli film e serie tv), con i quali intreccerà rapporti altalenanti di odio-amore nel corso delle puntate.
Lo sfondo scenico è da cartolina del north-est atlantico americano, trame fredde ma non troppo in contrapposizione ai colori vivi delle abitazioni e della natura. Le tematiche trattate pescano a piene mani, ma blandamente, nell’immaginario collettivo della piccola borghesia U.S.A., con i suoi scheletri nell’armadio, pregi e difetti. Nulla di trascendentale nello sviluppo di tematiche principalmente poliziesco-avventurose-gotiche, con continui colpi di scena ed epifanie, ribaltamenti e messe di morti più o meno incredibili, senza soluzione di continuità.
Ogni puntata (di circa una quarantina di minuti) presenta un “problema/caso di giornata da risolvere, inserito nel disegno generale del mistero sul perché della loro esistenza, che procede, il più delle volte, intrecciando i destini di una pletora di personaggi di contorno, quali i due anziani giornalisti detentori di molti dei segreti della cittadina, Vince e Dave Teagues (interpretati dai sardonici Richard Donat e John Dunswort). Il finale di episodio è, di solito, consolatorio nel classico stile seriale “di massa” statunitense (spesso con moralina edificante annessa, tranne quando non è presente un cliffhanger per una puntata doppia o per una nuova stagione).
Se si sta il gioco e si passa sopra i molti difetti ed ad una certa overdose di iperbolicità dell’intreccio con il proseguire delle puntate, spesso ci si diverte grazie ad una sottile vena di ironia che percorre non tutte ma buona parte delle puntate, con picchi scult toccati grazie anche ad effetti speciali non sempre calibratissimi, di questo Twin Peaks/X Files dei poveri…ma, spesso, contenti.
Voto: **½
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