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ECHI DAL SILENZIO 2
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PERDUTI PER SEMPRE? LA PLAYLIST IMPOSSIBILE

 

 

Verso la fine delle sue fluviali memorie, Gloria Swanson abbandona la baldanza rievocativa per passare al rimpianto. Rimpianto nel veder sfumare la vita attiva, certo (la diva aveva 81 anni al momento della pubblicazione di Swanson on Swanson), ma anche nell'assistere impotente al letterale dissolvimento di tante opere che l'avevano resa grande. Queen Kelly, il film incompiuto di cui si vede un breve ma intenso estratto in Viale del tramonto, era stato fortunosamente rimontato negli anni '60 e presentato in vari festival cinematografici. Targato come capolavoro maledetto da critici in preda allo sdilinquimento, Queen Kelly aveva sdoganato la riscoperta delle pellicole della Swanson, che però adesso bisognava andarsi a cercare col lanternino. E così l'attrice si faceva prendere dallo scoramento: "Ogni volta si ripropongono le stesse tristi domande: qualcuno sa che esiste da qualche parte una copia dell'Età d'amare, il film che io e Rodolfo Valentino girammo nel 1921, o una copia di Madame Saint-Gêne? O una copia completa, inclusa l'ultima bobina, di Tristana e la maschera? Mi piacerebbe rivederli e sapere che non sono perduti per sempre" (G. Swanson, Memorie, Mondadori, Milano, 1981, pag. 484).

I miracoli a volte capitano. Nel 1981, mettendo ordine in un ripostiglio, un impiegato di un istituto norvegese per malattie mentali si imbatteva in alcune scatole contenenti la prima versione del capolavoro di Dreyer La passione di Giovanna d'Arco, siglata dal regista prima dei tagli imposti dalla censura laica e ecclesiastica. Il negativo originale era andato distrutto in un incendio agli stabilimenti UFA di Berlino nel dicembre 1928, a pochi mesi dalla prima, e da allora tutti, compreso lo stesso Dreyer, si erano rassegnati alla perdita. Il fatto che in tempi remoti una copia fosse stata spedita a Oslo non risultava in nessun registro, il che fa del rinvenimento un caso da manuale di serendipità. Non l'unico, beninteso, ché tanti altri film su cui i cineappassionati di tutto il mondo avevano messo una pietra sopra continuano a saltar fuori in posti più o meno probabili. Dagli archivi di cineteche come il Museo del Cine di Buenos Ayres, dove nel 2008 venne reperito un negativo della versione originale di Metropolis di Fritz Lang, a scantinati privati, come quello di un tale William Buffum, che nel 1996 regalò all'American Film Institute una copia del Richard III di André Calmettes e James Keane, niente meno che il più antico film americano sopravvissuto in toto fino ai nostri giorni.

I miracoli a volte non capitano, e ne capiteranno sempre più di rado, data la fragilità delle sostanze di cui si compone una vecchia pellicola. Le copie al nitrato di cellulosa – in uso fino al 1952, quando fu soppiantata dalle meno pericolose pellicole in acetato da 35 mm – possono durare un centinaio di anni se conservate a idonee condizioni di temperatura (dai due ai quattro gradi), umidità (tra il 40 e il 60 per cento) e ventilazione dei locali. Condizioni, queste, che sarebbe vano aspettarsi nella maggior parte delle collezioni private. Come se non bastasse, bastano 41 gradi centigradi perché una pellicola in decomposizione prenda fuoco, e in caso di esposizione prolungata al sole la combustione può essere spontanea. Gli incendi sono pressoché inestinguibili perché l'ossigeno sviluppato dal nitrato attizza ulteriormente le fiamme.

Proprio le frequenti deflagrazioni che hanno fatto strage di interi archivi, senza dimenticare l'incuria di chi ignorava anche solo l'interesse storico di quelle antiche immagini e le mandava al macero senza complimenti per far spazio a film più moderni, avrebbero determinato la scomparsa dell'80-90% dei film dell'era del muto, stima la Deutsche Kinemathek.

Quanto la percentuale sia ragionata è arduo a dirsi. Basta però affiancare le filmografie complete di alcune star del muto assieme all'elenco dei loro film sopravvissuti per ottenere un'immagine più plastica delle perdite. Theda Bara, prima vamp del grande schermo, girò una quarantina di film tra il 1914 e il 1926. Di questi si conservano giusto quattro lungometraggi e due corti, mentre solo una manciata di secondi sopravvive di Cleopatra (1917), il suo exploit più celebre. Grasso che cola, rispetto ad altri idoli del tempo che fu. Di Valeska Suratt, altra diva dall'occhio accalamarato e antagonista della Bara, non abbiamo un fotogramma che sia uno.

Ne consegue che, per alcune delle più celebri star degli anni '10 e '20 del Novecento, della cui carriera poco o niente rimane, siamo semplicemente incapaci di comprendere le cause della loro popolarità: l'intensità dell'interpretazione, la capacità di "bucare" lo schermo, l’incantesimo che sapevano esercitare sul pubblico. Il che di riflesso significa perdere informazioni sul gusto dell'epoca, su cosa muovesse a compassione o rallegrasse la folla di esseri umani che affollava le sale in quegli anni, l'accezione imperante e contingente di fascino, carisma, bellezza.

Ma non solo. L'immagine proiettata dallo schermo va al di là della presenza del primattore e dei comprimari e si allarga all'ambiente circostante, fantasioso o realistico che sia. I passanti che si voltano istintivamente al passaggio della macchina da presa nei film italiani degli anni '10, la sorprendente ambientazione altoborghese delle pellicole prerivoluzionarie di Evgenij Bauer, i mezzi pubblici presi d'assalto da pendolari o villeggianti del week-end in tante opere europee e americane degli anni '20 di ambientazione urbana, tutto questo e molto ancora ci racconta implicitamente le velleità, le aspirazioni, i timori, le angosce dei nostri progenitori, e possono aiutare a capire l'emergere di certi processi e certi drammi della storia. Niente di tutto ciò, viceversa, può esserci restituito quando un film scompare.

E scomparsi sono i dieci titoli inseriti nell'elenco che segue. Una playlist impossibile, per cinefili rigorosamente non allineati, in preda a lontane e confuse nostalgie di cose mai viste, o solo intraviste.

***

1. Il fantasma del castello (London after midnight, 1927 - Tod Browning)

Alla sua perdita non ci si rassegnerà mai. Andato in fumo nel 1967, è forse il film più bramosamente cercato del muto, oggetto di culto crescente per cinefili e/o giovani orrorofili da un lato all'altro dell'Atlantico per la potenza delle atmosfere gotiche e il trucco, da stomaci forti, di Lon Chaney. La ricostruzione forzosa condotta nel 2002 da Rick Schmidlin su circa duecento foto di scena sulle quali si alternano zumate e farlocchi movimenti di macchina da un personaggio all'altro, è un tentativo eroico, ma in sostanza frustrante di salvare il salvabile. Svaniti tutti i tentativi di garantire alla trama un minimo di sequenzialità, complice anche l'orgia di didascalie che aggiunge confusione a confusione, si finisce per avere ancora più nostalgia del real thing. Resta il ghigno raggelante di Chaney, tuba e monocolo di ordinanza, eternato nella fissità delle istantanee, la fascinazione morbosa che questo film esercita sui posteri – caso non unico, certo, ma raro – , assieme alla strana intuizione che prima o poi qualche spezzone finora celato agli sguardi salterà fuori per merito di un benefattore dell'umanità.

 2. Cleopatra (id., 1922 – J. Gordon Edwards)

Ma cosa aveva Theda Bara per imporsi come femme fatale dell'universo proto-hollywoodiano? Faccione gonfio, occhi bovini quando non abbondantemente bistrati ma, a suo credito, la capacità di passare con souplesse dalla tragedia storica alla commedia brillante e autoironica, come mostrano due corti di Hal Roach resistiti alla prova del tempo. A dar retta a Kenneth Anger, non si capirebbe in virtù di quale miracolo una "borghesuccia timorata e perbenino" sia riuscita a trasformarsi nella maliarda succhiasangue e sciupamaschi primo sex symbol del cinema americano. Ma i veleni di Anger sono ingenerosi. Tanto per iniziare, si ricordi che Theda Bara nasce dall'intuizione del produttore-Svengali William Fox, mica uno qualunque, che ne pianificò a tavolino l'immagine cinematografica, il che rende il suo successo tutt’altro che un accidente della storia. I pochi secondi rimasti di Cleopatra (https://www.youtube.com/watch?v=OWn7L2pL5dI), film scomparso ma entrato nel mito, bastano e avanzano a mostrare la carica di sensualità che la Bara, movenze serpentine e succintissimi drappeggi pre-codice Hays, era in grado di dispiegare. E la vocetta squillante di Miss Theda in una sorprendente intervista radiofonica del 1936 , quando la sua carriera era finita da un pezzo, corrobora l’impressione di una decisa consapevolezza attoriale (https://www.youtube.com/watch?v=fVBLHr4iwVM).

 

 3. Sperduti nel buio (1914 – Nino Martoglio)

 Agli antipodi del dannunzianesimo di Cabiria e dei film salottieri della Borelli, Sperduti nel buio è un'opera importante, forse la più significativa dell'altro grande filone del cinema italiano degli anni '10: quello di ispirazione naturalistico-verista. Che poi si trattasse di vera attenzione agli strati più marginali della società, ai limiti del documentaristico, o solo della ricerca di una nuova estetica popolareggiante priva di autentica velleità riformatrice (sospetta Lizzani), forse importa poco, visto il contributo storico che la pellicola di Martoglio darà alla grande stagione del realismo europeo. Se Assunta Spina (1915), l'altro grande titolo della corrente naturalistica nostrana, è letteralmente fagocitato dalla presenza di Francesca Bertini e dei suoi scialli svolazzanti per essere un vero modello di neorealismo ante litteram, gli sconosciuti interpreti di Sperduti nel buio prefigurano l'utilizzo degli attori non professionisti nei capolavori degli anni '40. La ricostruzione tentata sulla base delle foto di scena ci riporta agli occhi "gli abitucci di cotonina quadrigliè" e le "dure e atroci breccole del vicolo malfamato" ricordati da Umberto Barbaro in un intervento del 1939, ma ancora una volta si finisce per rimpiangere ancora più acutamente la perdita dell'originale.

4. I quattro diavoli (The Four Devils, 1929 – Friedrich W. Murnau)

Il secondo film girato da Murnau in America, dopo Aurora (Sunrise) dell'anno prima, è uno dei più ambiti dell'era del muto, per alcuni il più grande in assoluto dei presunti dispersi. La sua scomparsa è un enigma avvolto in un mistero: l'unica copia disponibile sarebbe stata ceduta dalla Fox all'attrice Mary Duncan, già parte del cast (e all'epoca criticata come ennesimo avatar, già allora fuori tempo massimo, di Theda Bara), e da lei bruciata o buttata in piscina. Martin Koerber della Deutsche Kinemathek ipotizza che si tratti di una leggenda metropolitana e non dispera di poter ritrovare la pellicola attraverso gli eredi della Duncan, morta quasi centenaria nel 1993. Sarà. Per il momento, la stessa ricerca della pellicola è oggetto di una vasta bibliografia e filmografia, raro esempio di meta-cinefilia: valga per tutti il documentario a cura di Janet Bergstrom Murnau's 4 Devils: Traces of a Lost Film.

5. L'uomo del miracolo (The miracle man, 1919 – George Loane Tucker)

Ancora un tour de force di Lon Chaney, il vero uomo del miracolo del cinema americano pre-sonoro. Nessuno, più delle creature a cui ha dato vita, rappresenta con pari plasticità l'agghiacciante simmetria tra mostruosità fisica e psicologica (Adolf Hitler, col suo volto non disumano, era ancora di là da venire) e dolente umanità, tra infamia degli atti e segreta pena che rode il cuore. Guardate la breve sequenza restante dell'Uomo del miracolo: Chaney, stampelle e movenze esacerbate di dolore, finge di essere uno storpio guarito dal misticismo del Patriarca. Ma resta a bocca aperta quando, subito dopo, un bambino paralitico perde a sua volta le grucce e corre verso il sant'uomo. Inutile dire che la simulazione del farabutto Chaney risulta molto più credibile di quella del bambino vero-paralitico-toccato-dalla-grazia. Tornano alla mente i versi di Fernando Pessoa: "Il poeta è un fingitore / Finge tanto intensamente / Che finge che è dolore / Il dolore che davvero sente". Il rictus di Chaney, con tutta la sua morbosità, punta ancora oggi al cuore della nostra ambivalenza emotiva.

6. Luna di miele (The Honeymoon, 1928 – Erich von Stroheim)

Ennesimo opus maledetto nella filmografia di von Stroheim, la seconda parte di Marcia nuziale (The Wedding March, 1928) non si fa mancare nessuno degli stereotipi cui è associata la produzione del "porco unno": dall'estetica ipertrofica al profluvio di dettagli visivi inseriti nel solito contesto di decadenza mitteleuropea. A ciò si aggiungano i costi vertiginosi per realizzare lo strabordante materiale girato, tra cui le immancabili sequenze di baccanali e orge in postriboli di alto bordo, le leggende che tali orge non fossero poi tutte finte, e gli inevitabili problemi con la censura. Non c'è da stupirsi se la Paramount chiese a un suo uomo di fiducia – non uno a caso, Josef von Sternberg – di tagliare la pellicola. Si passò così dagli originali 6853 metri a 3288 (riduzione – questa – approvata, o almeno così racconta Sternberg, da Stroheim), fino alla definitiva falcidie che, incolpevole Sternberg, portò Luna di miele a 2133 metri, provocando le ire del regista e la sconfessione del film. Poco prima della morte, forse ringalluzzito dalla resurrezione di Queen Kelly (1929), Stroheim ricucì le due parti per avvicinarsi quanto possibile alla sua concezione originale di un'opera senza soluzione di continuità. Ma il fuoco – purificatore? – fece strage, solo pochi anni dopo, dell'unica copia esistente. Come per altre pellicole di Stroheim, la versione del 1957, più che un risultato compiuto in sé, era la testimonianza di un'ambizione, di un film in potenza. Il che ci porta a chiederci che cosa si sia veramente perso con la sua scomparsa, e quanto del suo genio artistico saremo mai in grado di recuperare.

7. Lo zar folle (The Patriot, 1928 – E. Lubitsch)

Ancora impiantato nel periodo muto, ma munito di colonna sonora sincronizzata e qualche dialogo, sintomo di una ibrida fase di transizione verso il cinema parlato, Lo zar folle è uno dei due lost films vincitori di un Oscar (per la sceneggiatura), oltre a una nomination per il miglior film e la miglior regia. Ma è soprattutto il più importante dei film perduti di un Lubitsch che nel 1928 aveva già mostrato tutto il suo tocco magico in almeno due capolavori come Matrimonio a quattro (The Marriage Circle, 1924) e Il ventaglio di Lady Windermere (Lady Windermere's Fan, 1925). Ma sono le due megaproduzioni storiche del periodo tedesco, Madame Dubarry (id., 1919) e Anna Bolena (Anna Boleyn, 1920), a cui Lo zar folle sembra strizzare l'occhiolino. Al netto, va da sé, delle intemperanze recitative di Pola Negri. Fu vera gloria? Agli storici l'ardua sentenza. Emil Jannings, indotto da Lubitsch a una recitazione più realistica di quanto non fosse nelle corde dell'attore, lo definì il suo più grande exploit hollywoodiano. E sì che l'anno prima aveva già girato The Way of All Flesh, altro film scomparso, grazie al quale aveva ottenuto l'Oscar per la migliore interpretazione maschile. La critica fu per lo più benigna: il recensore del New York Times lo trovò "praticamente impeccabile", ma altri non mancarono di sottoilinearne la ripetitività rispetto ai già citati polpettoni degli esordi lubitschiani. Vero o non vero che sia, ragion di più per non abbandonare le ricerche.

 

8. La donna divina (The Divine Woman, 1928 – Victor Sjöström)

I nove minuti – una bobina appena – che restano de La donna divina sembrano inserirsi senza soluzione di continuità nel mainstream dei melodrammi gretagarbeggianti del periodo muto. Se detto così non sembrerebbe una gran perdita, si ricordi che, nomen omen, il film valse alla Garbo l'epiteto "La divina", appannaggio fino ad allora di Sarah Bernhardt (adombrata nella trama). Riveste quindi un carattere antonomastico nella non lunga filmografia della gran svedese. La crema degli émigrés svedesi a Hollywood vi è ottimamente rappresentata. Manca il mentore Mauritz Stiller, morto proprio nel 1928, ma c'è Victor Sjöström – o Seastrom come veniva etimologicamente anglicizzato – che in quell'anno girerà il suo capolavoro Il vento (The Wind). C'è Lars Hanson, attore di vaglia già al fianco della Garbo nella Saga di Gösta Berling e nella Carne e il diavolo, uno dei suoi rari comprimari degni di questo nome. E poi c'è lei, mentre prepara garrula la tavola in attesa del suo uomo, tralalì tralalà, improbabile in vestitino a fiori e grembiule tenuto stretto da un gran fioccone. Ma è felice, ride ed è al culmine della bellezza. Secondo la pagina francese che Wikipedia dedica al film, circa l'80% della pellicola sarebbe stata scovata in un non meglio precisato archivio russo (anche la bobina sopravvissuta, con intertitoli in cirillico, proviene dal moscovita Gosfilmofond), e in via di restauro. La notizia, di fonte non meglio identificata, pare una bufala, ma avremo pure il diritto di sognare…

9. L'aquila delle montagne (The Mountain Eagle, 1926 – di Alfred Hitchcock)

Del secondo lungometraggio di Hitchcock, l'unico perduto della sua nutrita carriera, sopravvivono sei fotogrammi pubblicati nel volume di Truffaut. Una ventina di foto di scena reperite pochi anni fa con gran clangore e squilli di tromba per essere subito rivendute all'asta (figuriamoci!) raffigurano il set del film, anziché il film stesso. Definito con qualche enfasi "il Santo Graal degli storici del cinema", il fondato sospetto è che si attesti ai primi posti delle classifiche dei film più cercati di sempre (ad esempio, quella del British Film Institute) più per l'aura di leggenda di cui è ammantato il suo autore che per l'effettiva validità dell'opera. O almeno, così parrebbe stando alle testimonianze dei recensori del tempo. Lo stesso Hitchcock, parlandone con Truffaut, lo stroncò: "un brutto film". E, riferendosi alla protagonista Nita Naldi, una diva "alla Theda Bara" imposta dalla produzione per impersonare una maestrina di un villaggio tirolese, aggiunse: "una cosa assolutamente ridicola" . Più sintomatica, quando si pensa ai futuri traguardi del regista inglese, la scelta di valersi di uno studio cinematografico tedesco. Come Hitch confidò a Truffaut, la sua prima grande esperienza da cinefilo era stata la visione di Destino (Der müde Tod, 1921) di Murnau. Le ombre espressioniste che ancora aleggiavano sugli stabilimenti filmici tedeschi avrebbero così costituito il nutrimento per lo sviluppo dell'estetica hitchcockiana. Il successivo Il pensionante (The Lodger, 1927), suo primo capolavoro, sembra confermare questa ipotesi, il che conferisce un nuovo senso all'esperienza dell'Aquila delle montagne.

10. Il romanzo di un giovane povero (1920 - Amleto Palermi)

Il divismo nell'Italia degli anni '10 fu un fenomeno prevalentemente femminile. Gli uomini – salvo rare, qualificate eccezioni – si limitavano per lo più a subire le convulsioni della femme fatale di turno. Oltre ai due nomi che ancora resistono in strati sempre più sottili della nostra coscienza, Francesca Bertini e Lyda Borelli, le nostre prime donne dell'epoca si chiamarono Pina Menichelli, Italia Almirante Manzini, Hesperia (Olga Mambelli), Diana Karenne, Helena Makowska, Rina De Liguoro, Maria Jacobini, Leda Gys, Gianna Terribili-Gonzales, e sicuramente ne dimentico altre. Prime donne non per finta, ché una Pina Menichelli guadagnava 2 milioni e mezzo di lire a film, rispetto ai 3 milioni della Bertini, e le altre seguivano a ruota. Dopo un centinaio di anni o giù di lì, della fecondissima produzione di melodrammi, spesso in appena due bobine, realizzati per valorizzare i nostri talenti femminili resta poca cosa. Di Pina Menichelli, riconoscibile dalla chioma gorgonica e per la gestualità e la mimica incontinenti che le valsero il nomignolo di Nostra Signora degli Spasimi, si conserva sì e no una manciata di film sugli oltre 40 da lei girati tra il 1913 al 1925. Il romanzo di un giovane povero non è né il più celebre né il più significativo di essi. Appena uno dei tanti titoli distrutti, scientemente o incoscientemente, dall'uomo, dal tempo o da altri accidenti, complice il cambiamento di gusti legato al passaggio dal muto al sonoro. Se esso chiude questa playlist, come emblema di quel cinema dimenticato, è per un ricordo preciso: una sequenza di cinque minuti appena, incastonata come una sacra reliquia nel film di Comencini La valigia dei sogni (1953). Squilibrata tra afflato didattico e racconto a tesi, ma mossa da autentica emozione, la pellicola di Comencini è un'antologia di pezzi d'epoca inserita in una cornice diegetica sfilacciata, ma non insignificante. L'ex attore Omero salva i vecchi film dal macero a cui erano destinati in nome di una modernità che, per affermare se stessa, non trova di meglio che abdicare al passato. La lezione di Comencini consiste nell'aver reinserito la gloriosa stagione del cinema muto italiano nel contesto storico e sociale che le è proprio: il solo entro il quale possa e debba essere valutata come forma d'arte.

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