Prima di essere folgorato sulla via di Damasco da The Raid: Redemption (2011) e The Raid 2: Berandal (2014) dittico action indonesiano del gallese Gareth Evans, delle arti marziali conoscevo solo Bruce Lee, in foto e “ti faccio una mossa che tra tre giorni muori” leggendaria minaccia che alle elementari mi terrorizzava.
Gareth Evans
Due trame poste l’una dopo l’altra è l’unico modo di affrontare The Raid (1), fantastico dittico che in realtà forma un corpo unico di eccezionale potenza visiva. Scritto e diretto da Gareth Evans, regista, sceneggiatore e coreografo gallese trapiantato in Indonesia per seguire il proprio percorso personale di regista. Dopo aver diretto un piccolo film sperimentale, Footsteps, Evans viene assunto come regista freelance per girare un documentario in Indonesia sull’arte marziale Pencak Silat. Viene immediatamente conquistato dal luogo e la sua gente e dalle possibilità che possono concretizzarsi nella realizzazione di film. L’occasione di unire l’amore per l’Indonesia e il sogno di cineasta (indipendente) si concretizza alla conoscenza di Iko Uwais, maestro di Pencak Silat e fattorino per una compagnia telefonica. Buttato nella mischia il giovane maestro, nel 2009 esce Merantau, primo film che diventa immediatamente un cult. A seguire il dittico di The Raid che consacra la coppia Evans-Uwais a livello mondiale.
Il dittico
The Raid: Redemption
Il giovane Rama (Iko Uwais) è un poliziotto appena reclutato tra le teste di cuoio indonesiane per assaltare un palazzo-fortezza dentro il quale si nasconde, poco a dire il vero, il re dello spaccio della città circondato dai suoi sgherri. Purtroppo l’irruzione della squadra SWAT non è altro che una trappola organizzata da poliziotti corrotti che proteggono lo status quo del trafficante di droga. Della mattanza si salvano in pochi tra cui Rama. Impossibilitato a fuggire dal palazzo. l’unica soluzione è salire verso l’alto, l’ultimo piano che ospita il quartier generale del criminale e farlo fuori. Come? A calci e pugni, testate, colpi proibiti mutuati dallo street fight che trasforma qualsiasi oggetto nei dintorni in un’arma letale e grandi dosi di Pencak Silat, l’arte marziale di cui Rama, la burbetta spaventata, all’insaputa di tutti, è maestro.
The Raid 2: Berandal
Appena scampato dall’irruzione nel palazzo e ucciso tutti i criminali Rama, senza soluzione di continuità (la moglie è incinta già dal primo film e deve partorire a breve) viene costretto dai suoi superiori ad infiltrarsi in una famiglia mafiosa per raccogliere le prove della corruzione dei capi supremi della polizia che con i criminali pasteggiano sulle miserie altrui. Per farlo dovrà andare in carcere e fingersi criminale, farsi amico Uco (Arifin Putra) il figlio del boss e una volta entrato tra sue grazie operare dall’interno. Non tutto va come previsto, la detenzione dura due anni, Rama quando esce è cambiato ed è lasciato solo dai suoi superiori. Ancora una volta dovrà fare per conto suo, con le arti marziali che gli appartengono unite ad uno smodato istinto di sopravvivenza per portare a casa la pelle e fare piazza pulita dei criminali.
I due film sono l’uno la prosecuzione del primo ma con un’accelerazione logaritmica nella complessità della trama, nella quantità e qualità dei personaggi e dei combattimenti. Ma se nei sequel della produzione mainstream ci si limita semplicemente a ricalcare le situazioni del primo film aggiungendo solo più “cose”, il coraggio di Evans è quello di cambiare la progressione degli eventi, allargare lo sguardo e aggiungere idee e spunti narrativi che stratificano la visione fino a farla diventare un dramma shakespeariano in versione Silat. The Raid: Redemption e The Raid 2: Berandal sono due film di genere nei quali i personaggi non vengono definiti semplicemente dalle loro azioni ma vanno oltre la bidimensionalità nella quale il genere stesso molto spesso li relega.
Esagerato? Si.
Ma ne ho ben donde perché poche volte un film ha suscitato in chi scrive un tale entusiasmo come solo fu capace di suscitare la comparsa di Tarantino in quel lontano 1994, l’anno in cui il cinema cambiò forma. E di quella forma The Raid è debitore per l’esplosività slapstik della violenza nella quale estasi ed estetica convivono, si rincorrono e riaggiornano la polpa (pulp) del genere che sempre si nutre di altri generi. The Raid è la paella del cinema di genere, un misto di sensazioni e riferimenti riaggiornati in una forma esclusiva e potente, film di arti marziali fatto con la sensibilità di un cineasta europeo che ha metabolizzato la storia del cinema action americano smerigliato nelle sue ataviche caratteristiche politicamente corrette da una sana, affilata, conoscenza dei meccanismi del cinema criminale giapponese e coreano.
The Raid: Redemption nella sua brutale, meccanica semplicità, mutua dai videogiochi la scansione degli eventi mettendo l’eroe in una situazione da platform a scorrimento durante la quale egli è costretto ad affrontare orde di nemici sempre più cattivi, bizzarri e sempre meglio armati. Ad ogni piano del palazzo (livello) un combattimento con il boss di turno lo conduce al livello superiore e così via fino al boss finale che conclude il film. La fantasia dei combattimenti dal ritmo elevatissimo è però frammentata da sospensioni narrative tipiche del cinema autoriale, brevi momenti di riflessione, attese. Dietro una porta del palazzo, raffigurato come un fatiscente labirinto (richiama i survival horror nella meccanica dell’avanzamento della storia) infatti può trovarsi un nemico o un terrorizzato residente vessato dai coinquilini criminali.
The Raid 2: Berandal invece abbandona l’unità di tempo e luogo del film precedente e con esso l’ambientazione claustrofobica del palazzo per aprirsi ad un crime movie di tutto rispetto che si dipana nel corso di un tempo più dilatato, utile a far progredire il protagonista dal punto di vista emotivo tale da giustificarne le azioni in seno alla storia che affronta. Il poliziotto infiltrato che perde di vista o muta la sua natura per abbracciare quella criminale, il padrino e il logorio del potere della famiglia di mafiosi, il padre contro il figlio per la conquista del potere, i poliziotti corrotti, sono tutti stilemi del cinema poliziesco nel quale Evans inserisce le storie parallele di Uco il figlio del boss e di Rama, poliziotto infiltrato, che riassumono a grandi linee la storia del crime movie nelle sue caratteristiche fondanti. L’ampio respiro giova al film per la varietà di location nelle quali i combattimenti avvengono, i 160 minuti di durata volano via come calci volanti, in un ritmo serrato e un divertimento crescente. La durata è funzionale a stratificare le complessità psicologica di tutti i personaggi, da quelli principali fino a quelli secondari, soprattutto i killer scagnozzi dei capi mafia in lotta tra loro, di fatto come nel primo film rivestono ancora il ruolo di boss di livello (meravigliose maschere di morte da Alice “Hammer Girl”, Baseball Bat Man a Prakoso interpretato da Yayan Ruhian e presente anche nel primo film), fino al twist finale che richiama tutti i grandi del cinema da Sergio Leone a Tarantino passando da De Palma.
Come non ricordare nel combattimento di “Hammer Girl” nel vagone della metropolitana contro un manipolo di nemici, lo scontro di Dae-su Oh armato di martello negli scantinati in Old Boy di Park Chan-Wook ? O l’incredibile scena dell’auto dentro la quale l’eroe Rama combatte contro i suoi compagni di viaggio non può non ricordare la disturbante scena omologa di I saw the devil di Kim Je-Woon. Una poderosa lotta nel fango nel cortile del carcere in cui è rinchiuso Rama è trionfo di estetica, violenza e capacità di messa in scena. Mettiamoci anche un‘ ombra di Kitano unita ad una stilla di Infernal Affairs di Andrew Lau e Alan Mark e la miscela esplosiva è servita.
Il trait d’union tra i due film è un uso spregiudicato della macchina da presa capace di usare tutto lo scibile del linguaggio cinematografico per rappresentare il realismo dei combattimenti di Pencak Silat in una forma di grandissimo impatto visivo. La macchina da presa tampina i volti tumefatti, schiva i colpi e colpisce, si abbassa e affonda nel fango, si inzuppa di sangue. Louma, messa a fuoco selettiva, atomizzazione dei particolari, ralenti, il tutto unito all’alternanza di piani sequenza e improvvise accelerazioni di montaggio da videoclip, scandiscono il ritmo e instillano grandi dosi di tensione che esplode nella fisicità plastica dei combattimenti che formano letteralmente il corpo stesso del film. La macchina da presa è un personaggio a tutti gli effetti, fisicamente presente.
Anche l’arte marziale Pencak Silat, insieme alla macchina da presa, è un vero e proprio personaggio. I film ruotano intorno all’ indispensabile conoscenza dei suoi colpi per avanzare nella storia. Il Silat è una disciplina che pesca dalla natura le mosse di difesa e di attacco, mutuandole dagli animali (la mossa della tigre, del coccodrillo, dell’aquila e così via), essa è quindi atavicamente intrisa nella filosofia della lotta per la sopravvivenza che caratterizza tutta l’avventura di Rama. Le mosse sono tanto devastanti nelle conseguenze quanto contorte e complicate nella loro attuazione ma al tempo stesso rivelano una tecnica raffinata e una grande valenza coreografica. Il film gode di queste caratteristiche che sembrano nate per il grande schermo e le restituisce in tutta la loro spettacolarità rendendo merito alla sorprendente capacità dei suoi interpreti, fenomenali per dinamismo, potenza del gesto e plasticità della messa in scena.
Parlando dei due film come un unico corpo pulsante di idee, suggestioni e amore totale per il cinema, si può certamente parlare di capolavoro.
Nota (1) . Con il termine di The Raid ci si riferisce sempre al dittico. Quando il riferimento è su uno dei film è invece indicato il titolo completo.
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