Il ritorno, Il segreto di Vera Drake, I segreti di Broukeback Mountain, Still Life, Lussuria, The Wrestler, Lebanon, Somewhere, Faust, Pietà. I titoli delle ultime dieci edizioni della Mostra Cinematografica di Venezia sono sconosciuti ai più, tranne un paio. Ma se proviamo a disporre in ordine sparso, senza logica e conseguenzialità, i nomi dei registi che li hanno diretti, scopriamo che si fa fatica (eccetto per “I segreti di Broukeback Mountain”) a collocare l'autore dietro al titolo: Aronofsky, Sokurov, Kim-ki Duk, Coppola, Zviagintsev, Leigh, Jia Zhangke, Lee, Maoz.
E non è un caso: per effetto della necessità “mercantile”, il Leone d'oro ha fatto tappa quasi sempre negli Stati Uniti (o in aggiunta, nei paesi di lingua inglese, se consideriamo anche il britannico “Vera Drake”), oltre che in Oriente, dove ha cercato soprattutto il consenso cinese.
Due anni fa, l'inversione di rotta: Alberto Barbera, nuovo direttore, ferma il leone orientale, stoppa la cinematografia anglofona, impone un titolo italiano, infine conferma quest'anno, con un ambiguo premio ad un film svedese - e qui qualcuno che alza la mano per dire “so chi è il regista” è certamente in malafede – la propria forza e soprattutto immette una distanza siderale dal cinema effettivamente consumato in sala.
Chiaramente, la tendenza al riconoscimento del titolo ignoto è rimasta: ci si può chiedere, allora, a chi giova un siffatto Festival ? Non allo spettatore; non certo al cinefilo (vedere le recensioni deludenti in linea generale), neppure al distributore, giacché ben pochi dei film vedranno la luce in sala regolarmente (ciò non significa che, a macchia di leopardo non li si possa trovare disponibili, anche perché ci saranno le rassegne “Venezia a...” nelle metropoli abbinate al cartellone).
Tuttavia, è indubitabile che questo “sistema” premia il Festival stesso: il Direttore, in qualche modo, impedisce che ci sia un “vero” riconoscimento, e non è certo un caso che molte carriere siano finite alla presentazione lagunare del film. Come a dire: “io, noi siamo la Mostra d'arte Cinematografica, voi, autori o meno, siete qui perché l'abbiamo voluto noi”. Un sistema, in fondo, non lontano da quello mafioso: ed è mafioso, perché non dirlo, il reclutamento cinematografico.
Va da sé che lo si può ignorare, tanto più che rassegne quali Roma, Toronto, Torino, Sundance, Berlino, Locarno cominciano ad avere un certo peso, che prima non si sarebbero neppure sognate! Ma il punto è : Venezia riceve più contributi in assoluto di qualsiasi altra manifestazione nel mondo! E non fa onore al denaro speso. Prima o poi, e me lo auguro, lo spettatore scenderà in piazza: come un metalmeccanico, come un arrabbiato con il sistema. Come fecero i nostri padri, in fondo. (Ma mi chiedo se c'è ancora qualcuno che ricordi figure di protesta cinematografica come Elio Petri: "Non si andava a ritirare i premi. Perché il nostro era un cinema d'arte, un cinema popolare, un cinema di riflessione. Un cinema contro la censura. Eravamo tutti arrabbiati, tutti contro un sistema").
Un'ultima considerazione: l'unico film italiano premiato in questi anni (“Sacro GRA”) ha definitivamente rimesso in discussione la serietà degli esponenti del Lido. E' come se il prestigio, l'indiscusso fascino della manifestazione passasse in secondo piano, tanto è stata palese la vittoria a “priori”, poiché resta improponibile immaginare davvero che un film di tal tipo nutra consensi, siano o meno unanimi, tra i giurati. E d'altra parte si trattava di un “non-film”, neppure un vero documentario. Il “sottotono” evidente quest'anno, allora, è anche frutto di una irreversibile caduta. Non possiamo che augurarcelo: solo con la fine di quest'epoca di raccomandazioni evidenti, possiamo ricostruire il cinema, come accadde nella seconda metà degli anni '70, quando il Festival non si tenne, per poi ritornare più grande, almeno per un po'.
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