Ancora un film francese (se ne sono visti parecchi in questa Mostra del Cinema, e non tutti all'altezza) e un film turco sono i protagonisti odierni del concorso.
Partiamo dal turco. Si intitola Sivas ed è di un esordiente, Kaan Mujdeci. La cosa è importante perché è abbastanza raro che venga selezionato per il concorso veneziano un film d'esordio anche se in passato ci sono state vistose e fortunate eccezioni (basti pensare a Il ritorno, del russo Zvyagintsev, che nel 2003 vinse il Leone d'oro, o al film di Emma Dante, anch'esso premiato lo scorso anno per la recitazione di Elena Cotta).
Se il film di Saverio Costanzo si attirerà gli strali di vegani e vegetaliani, quello di Mujdeci potrebbe tirarsi addosso le ire degli animalisti. Sivas ruota infatti intorno ai combattimenti tra cani, combattimenti che non oseremmo chiamare clandestini visto che il luogo dove si svolgono è la più remota steppa anatolica (Sivas è l'antica Sebaste, a nord ovest dalla Cappadocia). Protagonista della vicenda è un ragazzino, che riesce a farsi affidare un cane dato per morto proprio in uno di questi feroci combattimenti (tanto feroci da aver suscitato molte reazioni durante la proiezione alla stampa) e che poi sotto le sue cure si riprenderà e finirà per tornare proprio ai combattimenti, diventando un conteso campione.
Regista e produzione si sono affannati in conferenza stampa a spiegare che gli scontri tra animali erano fittizi e le ferite e il sangue fasulli. Ma questo non è bastato a convincere della qualità dell'opera che - nelle parole di Alan Smithee che lo ha visto e recensito per noi - mostra soprattutto difetti di scrittura: Il film, dice Alan è "lodevole per creare le basi di un racconto che è lecito prenda pure diverse direzioni, ma poi si dedica unicamente alla più prevedibile e rischiosa tra queste, tralasciando le altre, abbandonate a loro stesse."
Considerato il prosieguo della recensione, piuttosto allineata a quanto si legge in giro, è difficile pensare che il film di Mujdeci possa aspirare a emulare i successi di altri eosrdienti del passato.
Da Oltralpe arriva invece Le dernier coup de marteau (il cui titolo internazionale è The Last Hammer Blow). Alla regia è una donna: Alix Delaporte, al suo secondo lungometraggio (il primo era Angèle e Tony, del 2010). Arrivata alla regia con un percorso anomalo (era giornalista e si è appassionata di cinema quando ha diretto un documentario su Zidane), la Delaporte è già stata a Venezia, nel 2006, quando il suo cortometraggio Comme on freine dans une descente vinse il Leone d'Oro dedicato appunto ai corti).
Angéle e Tony fu "catalogato" alla sua uscita come un film del filone neorealista sentimentale francese e anche questo suo secondo film non si discosta dal genere. Ma mentre là si narrava la storia di un incontro non facile tra un uomo e una donna, qui si racconta invece di un ragazzino di quattordici anni, Victor, che vive con la madre senza aver mai conosciuto il padre, direttore d'orchestra. Quando scopre che l'uomo dirigerà presto un concerto non lontano da dove abita, decide che è venuto il momento di incontrarlo e si mette all'opera per farlo (tra l'altro i due interpreti adulti sono gli stessi attori del precedente film, Clotilde Hesme e Grégory Gadebois). Se si aggiunge che un'altra delle motivazioni è riuscire a ottenere dal padre del denaro con cui aiutare la madre malata di cancro, si capirà che il versante melodrammatico del film non è affatto debole.
Tuttavia è sempre Alan Smithee a raccontarci di come il film, ottimamente recitato, non spinga mai sul pedale del dolore ma riesca a mantenersi misurato e credibile, ottenendo nel suo giudizio un'ottima valutazione.
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