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ECHI DAL SILENZIO 1
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QUANDO ERAVAMO RE: I CENT’ANNI DI CABIRIA

Il 18 aprile 1914, nel teatro Vittorio Emanuele di Torino, un'Italia imbaldanzita dalle conquiste tripoline degli anni precedenti assisteva alla prima del più pachidermico dei kolossal nostrani: Cabiria di Piero Fosco, al secolo Giovanni Pastrone.

Cabiria, punto di partenza e di arrivo del cinema italiano, secondo la felice definizione data tra gli altri da Umberto Masetti e Carlo Lizzani. Punto di partenza perché per originalità della trama (il soggetto si ispirava a diversi autori classici e moderni, ma non traeva spunto da un'opera letteraria) e grandiosità della realizzazione assurse presto ad archetipo della cinematografia italiana, contribuendo alla conquista dei mercati e delle platee mondiali. Inoltre, innovazioni artistiche e tecniche come il gigantismo delle scenografie, l'organizzazione delle scene di massa, i movimenti di carrello (brevettato nel 1912 dallo stesso Pastrone) che permettevano di passare senza soluzione di continuità dal mezzo campo lungo ai primi piani, le inquadrature dall'alto a effetto "schiacciante" mostrarono a chi sapesse apprezzarle le inedite duttilità del nuovo strumento cinematografico.

Al tempo stesso Cabiria è un punto di arrivo nel senso che riassume e conclude i tentativi compiuti negli anni precedenti dai pionieri del cinema italiano di appropriarsi di un linguaggio narrativo moderno, staccandosi dall'accademismo statico di opere precedenti come La caduta di Troia (1911), Quo vadis? (1912) e Gli ultimi giorni di Pompei (1913). Come questi titoli, anche Cabiria si ispira a una classicità piena di luoghi comuni e largamente artefatta, collante ideale per una nazione giovane come quella italiana, dalle ambizioni coloniali ma ancora culturalmente e linguisticamente divisa. Entro questa cornice pseudostorica si muove tutta una serie di generi filmici ante litteram: dal melodramma al fantastico, dall'avventuroso allo storico. Senza dimenticare la vena di involontario verismo nelle raffigurazioni dei mercati formicolanti di vita, nella Suburra o nelle osterie, che ha indotto alcuni a prendere Cabiria, a torto e a ragione, per un antesignano del neorealismo assieme a opere coeve, ma di impianto totalmente diverso come Sperduti nel buio (1914) e Assunta Spina (1915). Non solo, ma è in Cabiria che troviamo, credo per la prima volta, l'idea di intrecciare grande Storia e microstorie, la storia dei grandi avvenimenti che determinano e alla peggio travolgono le vite degli esseri umani e le vicende più intime di personaggi che, all'interno di questo macrocosmo, perseguono il loro personale ideale di felicità. Tutti espedienti, questi, che saranno assimilati di lì a poco nei maggiori capolavori griffithiani, ma che si ritroveranno in varia combinazione anche in registi così diversi l'uno dall'altro come DeMille, Lang o Pudovkin.

Al netto dei progressi tecnici, Cabiria esprime forse per la prima volta la consapevolezza che la rappresentazione cinematografica poteva e doveva sottrarsi alla sua immagine di teatro in subordine ed elevarsi una volta per tutte a prodotto d'arte a pieno titolo. Questa consapevolezza traspare nella scelta di trascinare Gabriele D'Annunzio nel progetto. Il nome dell'uomo che più in Italia incarnava i valori culturali accreditati venne in pratica usato come mallevadore della qualità estetica del film e, indirettamente, come traghettatore della neonata settima arte dentro l'ancora superciliosa cultura ufficiale. Un'operazione di proto-marketing, alla quale D'Annunzio si presta di malagrazia e con poca o punta ispirazione, ma che contribuisce ad affermare, agli occhi del pubblico e dell'aristocrazia intellettuale dell'epoca, un'idea del cinema come prodotto artistico, e sì che non erano trascorsi neanche vent'anni dalla sua nascita. "Fu una rivoluzione" – confidò Pastrone anni dopo – "perché Cabiria convinse che si potevano fare film con gli intellettuali, con gli artisti. Fino allora si erano occupati del cinema solo i giornali secondari. Ma con D'Annunzio dovettero occuparsi del cinema anche i giornali più seri. […] Dopo Cabiria non si chiedevano che film d'autore".

Si sa che D'Annunzio accettò di partecipare per motivi alimentari, si direbbe oggi. Anzi, alimentari di riflesso, visto che con le cinquantamila lire guadagnate in tre-quattro ore, "come in una bisca qualunque", avrebbe potuto "provvedere la buona carne rossa che mantiene il coraggio dei miei cani". Insomma, si schermiva, qualificando il proprio contributo come "un saggio ironico d'arte per la folla avida e melensa". Ad onta del rilievo dato al suo nome nei titoli di testa e nel cartellone (per una forma più unica che rara di autoflagellazione, Pastrone accettò di vedere completamente occultato il proprio nome), il Vate si limitò alla creazione dei nomi dei personaggi principali (quelli originali, cioè Cabiria, Croessa, Maciste, Fulvio Axilla, Karthalo, Bodastoret, Batto, gli altri essendo figure storiche) e alla stesura di 4-5 pagine di didascalie, peraltro su un soggetto già scritto dallo stesso Pastrone. Le didascalie dannunziane, definite da Lourcelles "les plus effroyablement littéraires et emberlificotées de histoire du cinéma" ("le più spaventosamente letterarie e arzigogolate della storia del cinema"), trasudano il peggio dell'estetismo decadente fin-de siècle e non è escluso che sapessero di muffa già all'epoca. Chiunque si lasci prendere dall'incanto a ogni rilettura del Poema paradisiaco o della descrizione di Roma sotto la neve nel Piacere farà meglio a prepararsi psicologicamente, o in alternativa a cercarsi una versione del film con legende in inglese. Basti, a dare un'idea, l'intertitolo con cui si apre il primo episodio: "È IL VESPERO. GIÀ SI CHIUDE LA TENZONE DEI CAPRAI, CHE LA MUSA DORICA ISPIRA SU I FLAUTI DISPARI « A CUI LA CERA DIEDE L'ODOR DEL MIELE ». E BATTO RITORNA DAI CAMPI ALLA CITTÀ, AL SUO GIARDINO DI CATANA IN VISTA DELL'ETNA". E via arcaicizzando.

A meno che le cose non stiano diversamente, e qui azzardo un'ipotesi peregrina che non trova riscontro nelle fonti consultate per questo articolo. Se Cabiria era, nelle intenzioni del Vate, "un saggio ironico", ebbene, non è dato sapere dove si celi l'ironia, se non forse proprio in quelle didascalie così auliche e al tempo stesso nazionalpopolari, sgrossate alla bell'e meglio per essere date in pasto a spettatori di bocca buona. Un pubblico, in altre parole, molto diverso dal raffinato stuolo di adepti della sua produzione più autenticamente sentita. Ciò avrebbe comportato da parte di D'Annunzio l'utilizzo consapevole e proprio per questo, ironico, di un registro esasperatamente solenne, tutto maiuscole e anticaglie lessicali, più degne di un imbonitore da fiera che del suo genio. Non c'è da stupirsi che la riscoperta di D'Annunzio intrapresa ad opera di varie scuole critiche, anche di ispirazione marxista, all'indomani dell'ultima guerra, abbia saltato a pie' pari il suo apporto al cinema.

La bibliografia su Cabiria è sterminata, e questo breve pezzo commemorativo non intende ripercorrere tutti i temi salienti rilevati dalla critica negli ultimi cento anni. Vorrei invece concludere con una domanda all'apparenza banale: se, in altri termini, e in quale misura Cabiria sia ancora in grado di parlare alla sensibilità dello spettatore che oggi se ne accosti, al di là delle considerazioni sulla sua indiscussa rilevanza storica. Che il capolavoro di Pastrone si lasci ancora visionare con qualche godimento da uno spettatore non avvertito è questione legata naturalmente alle sensibilità individuali. Se Lourcelles avverte che un tale monumento d'arte filmicarischia di rivelarsi oggi "un monumento di noia" e che neanche la piccola Cabiria con tutte le sue moine riesce a incutere compassione, Nino Frank liquida senza mezze misure l'"esthétisme de pacotille" di tutta l'operazione, anche se i suoi strali si appuntano soprattutto sul clima di dannunzianesimo deteriore. Per non parlare di chi, memore della lettura di Kracauer sul cinema tedesco tra le due guerre, l'adatta alla situazione italiana e vi scorge una prefigurazione del fascismo e delle leggi razziali, con quell'insistere sul primato del mondo occidentale greco-romano rispetto alla barbarie orientale.

Ma sull'altro piatto della bilancia va messa la capacità di fascinazione che ancora oggi Cabiria ispira grazie alla spettacolarità ante litteram delle scenografie, l'imponenza della messinscena, le soluzioni tecniche e lo splendido viraggio dei fotogrammi (basti ricordare per tutte la rutilante eruzione dell'Etna), il susseguirsi concitato, anche se con qualche scucitura, degli eventi, e la caratterizzazione ingenua ma efficace, malgrado i manierismi interpretativi dell'epoca, di alcuni dei personaggi principali, Maciste in testa. Prima opera "totale" della storia della settima arte – un po' opera lirica con tanto di ouverture (la "Sinfonia del fuoco" di Ildebrando Pizzetti) e libretto , un po' teatro – la "visione" di Pastrone e D'Annunzio resta il gioiello di quella fuggevole, ma intensa stagione in cui il cinema italiano dominava il mondo. 

 

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