The Cut di Fatih Akin sarà presentato in concorso al Festival di Venezia 2014 la mattina di domenica 1 settembre. Ambientato sullo sfondo del genocidio armeno, il film ha avuto una lunga lavorazione ed è considerato il capitolo finale della trilogia che il cineasta tedesco di origine turca a voluto dedicare all'amore, alla morte e al diavolo. Abbiamo approfittato del festival, per porre qualche domanda al regista mentre chi volesse saperne di più sul film può consultare la pagina extra che gli abbiamo già da tempo dedicato, nell'attesa che arrivi nelle sale per BIM Distribuzione.
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Ci sono molti eventi su cui occorrerebbe girare un film. Il genocidio degli armeni è uno di questi. Considerato argomento tabù nella sua Turchia, lei ha deciso di trattarlo in The Cut. Come mai?
Non sono stato io a scegliere il tema ma è stato il tema a scegliere me. I miei genitori sono turchi e di conseguenza quello del genocidio è un argomento che mi interessa da vicino, specialmente considerando che si tratta di un tabù. Qualcosa che è vietato finisce sempre per catturare la mia attenzione e per spingermi a volerne sapere di più. Ho scoperto così molte cose che non sono state mai affrontate e con cui dover ancora fare i conti.
Quanto è ancora tabù l’argomento nell’odierna Turchia?
Se avessimo parlato di genocidio in un pub di Istanbul quando sette anni fa Hrant Dink è stato assassinato, probabilmente la gente al tavolo vicino si sarebbe alzata per chiederci di che diavolo parlassimo. Oggi, si può discuterne senza necessariamente nascondersi. Nessun’altra parola turca è però carica di connotazioni politiche come “soykirim”, genocidio.
È un termine che usa quando si trova in Turchia?
Si. Un libro molto famoso del giornalista turco Hasan Cemal, che si intitola 1915: Ermeni soykirim (1915: Il genocidio armeno), mi ha incoraggiato a usarla. Del resto, se il nipote di Cemal Pasa – uno dei leader militari ottomani responsabili delle uccisioni durante la Prima guerra mondiale – ha dato quel titolo al libro, anch’io posso usare la parola. Ogni libreria ha venduto quel volume e tutte le vetrine lo hanno messo in bella mostra.
Perché, secondo lei, per la popolazione turca è così difficile fare i conti con quella parte della loro storia?
Se all’intera popolazione di una Nazione storici e politici raccontano sistematicamente, generazione dopo generazione, delle bugie, è chiaro che questa si convince che gli stai propinando una falsità o che stai alterando la realtà quando parli di genocidio. Genitori, libri di scuola e giornali, hanno sempre fornito una versione differente degli eventi occorsi allora e non posso biasimare nessuno di coloro che non conosce la storia. Semmai, non sono d’accordo con il politici che invitano a lasciare la Storia agli storici: la Storia è la nostra, è della gente, è di ognuno di noi.
Come si è allora documentato sulla vicenda?
Credo di aver letto oltre cento libri sul genocidio, compresi il diario di un armeno emigrato a Cuba, i documenti degli orfanotrofi e le storie sui bordelli di Aleppo. Mi sono anche recato per la prima volta in Armenia e ho visitato il monumento alla memoria di Yerevan, conoscendo anche il direttore della struttura, Hayk Demoyan. Lui mi ha raccontato di come molti armeni emigrarono allora a Cuba per raggiungere il Nord America. Pensi che ancora oggi ci sono molti armeni che non ne sanno nulla di questo.
Nazaret, il protagonista principale di The Cut, vive a Mardin. Come mai ha scelto questa città?
Ho letto il volume dello storico francese Yves Ternon dedicato agli armeni di Mardin. La città non è molto distante dal confine siriano e, quindi, sia geograficamente sia narrativamente era perfetta per iniziare da lì il calvario di Nazaret. Vicinissimo al deserto, Nazaret non fa parte degli armeni che furono invece deportati a Deir Zor.
Deir Zor era una città dell’Impero Ottomano durante la Prima guerra mondiale ed è stata una delle principali destinazioni delle marce della morte.
Si ma io ho deciso che Nazaret sarebbe stato uno degli armeni che finirono in un campo di deportazione minore: Ras al-Ayn, dove arrivarono molti armeni di posti come Mardin, Diyarbakir e Midyat. Del resto, ras al-Ayn era a pochi giorni di cammino da Mardin. Prima di iniziare le riprese del film, abbiamo fatto dei sopralluoghi in zona ma ci siamo resi conto che nessuno degli abitanti di Ras al-Ayn sapeva dove sorgesse il campo, compresi gli armeni. Non c’è nessuna targa commemorativa che lo segnali. Abbiamo deciso di conseguenza di ricorrere a Wolfgang Gust per avere delucidazioni. Autore di libri sul genocidio e sull’impero Ottomano, Gust ha rivelato attraverso registrazioni diplomatiche del German Foreign Office il ruolo giocato dall’impero tedesco nel genocidio. È stato una delle nostre principali fonti. Abbiamo usato vecchie mappe per cercare di individuare approssimativamente il campo. Non so più quante volte ci siamo persi, quante abbiamo dovuto richiedere l’aiuto degli storici e quante altre ancora quello dei servizi segreti siriani (la guerra civile siriana sarebbe scoppiata solo sei mesi dopo).
Era consapevole del ruolo giocato dalla Germania?
L’impero tedesco era a conoscenza delle mosse dell’impero ottomano ma non poteva di certo intervenire e perderne sostegno. L’impero tedesco sapeva tutto sui massacri e sulle atrocità ma non ha fatto nulla. In nessun caso, i tedeschi avrebbero voluto perdersi il sostegno dei ‘fratelli in armi’ e di conseguenza non si sono intromessi e non hanno ostacolato i leader turchi. Sono stati complici silenziosi. Rimane ancora da appurare se siano intervenuti direttamente o se abbiano reso possibile logisticamente il genocidio.
Quindi, The Cut è un’opera sul genocidio degli armeni?
Racconto la storia di un padre che viaggia per tutto il mondo alla ricerca delle due figlie. È un western: l’uomo viaggia verso ovest fino a raggiungere gli Stati Uniti. È una storia di emigrazione e immigrazione. Il tutto si svolge sullo sfondo del genocidio ma non è un film sul genocidio. Non sono un politico e non sto tentando di veicolare un messaggio politico. Ho solo preso dei traumatici eventi, li ho esaminati e li ho integrati al mio racconto. In The Cut, la linea tra il Bene e il Male non è sempre netta. Nazaret, il protagonista, ad esempio passa dall’essere vittima all’essere carnefice. E sopravvive solo grazie alla compassione e alla pietà di un turco.
Come ha trovato Tahar Rahim?
Ho visto Il profeta di Jacques Audiard e Tahar aveva il ruolo del protagonista. Secondo me, è uno dei migliori film europei degli ultimi dieci anni. Tahar è quasi sempre in scena e regge tutto il film, anche se parla pochissimo. Anche in The Cut non proferisce quasi verbo: un turco infatti avrebbe dovuto tagliare la gola di Nazaret ma all’ultimo momento non se la sente di uccidere un uomo innocente. Tuttavia, riesce a danneggiare lo stesso le corde vocali di Nazaret, che rimane muto.
È vero che ha chiesto consigli per il film ad altri registi molto famosi?
Si. Ho consultato Roman Polanski sull’uso della lingua, ad esempio. I personaggi avrebbero dovuto parlare armeno, turco o inglese? Ho seguito il metodo di Roman usato per Il pianista: i personaggi principali parlano inglese con accento armeno mentre tutti gli altri parlano la propria lingua. Ciò aiuterà il pubblico a identificarsi con i personaggi, oltre ad avere aiutato me con i dialoghi e con le scelte di cast.
The Cut è il suo primo film dai tempi di Im Juli a essere girato in diversi Paesi. Come mai così tante location?
Di tutti i miei film, The Cut è stato il più difficile da realizzare, soprattutto in termini fisici. Dopotutto, il tema centrale è un epico viaggio. Ho ritenuto fosse importante catturare l’unicità di ogni ambientazione: i confini tra la città e il deserto, la città e il mare, il mare e la giungla, la giungla e le praterie. Mi piace questo tipo di cinema “fisico” e volevo che la gente si sentisse come presente in ogni posto.
Da un punto di vista visivo, invece, come si è regolato?
Sin dall’inizio, con il mio cameraman Rainer Klausmann abbiamo definito il concetto generale della parola “distanza” e abbiamo voluto seguire le orme di una “narrazione classica”, qualunque cosa ciò significhi, per dare dignità alle immagini. Non abbiamo mai pensato di associare i luoghi a stati d’animo o eventi differenti: le nostre location già erano uniche per vento, clima o latitudine. Se avessimo cercato di metterle in evidenza con qualche espediente, avremmo sovraccaricato le immagini. Abbiamo semmai studiato i film di Terrence Malick – in particolare, I cancelli del cielo – e ci siamo assicurati che il sole fosse sempre dietro di noi. Per girare scene in movimento nella natura selvaggia non puoi usare una Steadycam ma devi ricorrere a tecniche vecchia scuola. Ecco perché sin dall’inizio ho voluto girare in CinemaScope, con lenti anamorfiche e, ovviamente, in 35 mm.
Il film è la conclusione della sua trilogia sull’Amore, sulla Morte e sul Diavolo. Quanto è stato difficile individuare un “diavolo”?
C’è un diavolo in ognuno di noi. The Cut non doveva essere un film horror o un film sul satanismo. In La sposa turca ho raccontato di come gli esseri umani siano capaci di amare. In Ai confini del Paradiso ho mostrato come la morte inneschi una metamorfosi. In The Cut invece tratto della paura che ognuno ha di confrontarsi con la propria storia. Si tratta di un’ansia esistenziale che inizia nel momento in cui si taglia il cordone ombelicale. Inizialmente il pubblico potrà sentirsi disorientato dall’assistere a un’opera che all’apparenza va in direzione opposta rispetto ai due precedenti film ma vi assicuro che ogni film è una continuazione dell’altro. Cahit, Nejat e Nazaret, gli eroi dei tre film, sono come fratelli legati al mondo che li circonda e determinati a raggiungere i loro scopi.
Per The Cut ha anche richiesto l’aiuto di Mardik Martin, lo scrittore armeno-americano che ha lavorato con Martin Scorsese in Toro scatenato e New York, New York. Che ruolo ha avuto?
Dopo aver deciso di girare in inglese, volevo qualcuno che mi aiutasse a trasformare il copione in una sceneggiatura all’americana. È stato Martin Scorsese a mettermi in contatto con Mardik, che adesso insegna alla University of Southern California. Mardik non scriveva una sceneggiatura da oltre trent’anni e, oltre ai dialoghi, ha ridefinito molte sequenze e rivoluzionato il finale.
Quindi, dopo Polanski, Martin Scorsese. Ha visto il film?
Lo ha visto due volte. Alla fine del 2013 eravamo entrambi giurati al Marrakech Film Festival e gli ho fatto vedere una prima versione non ancora ultimata. Oltre a muovere diverse critiche utili, Scorsese ha apprezzato il fatto che la storia finisse per parlare anche degli armeni in North Dakota, rivelando una parte di storia americana di cui pochissimi sono a conoscenza. Ha rivisto poi a New York l’opera ultimata, occasione in cui Martin e Mardik si sono incontrati nuovamente dopo tantissimo tempo. Tutto ciò che mi piace del cinema è in questo film: ho preso in prestito due scene da Il ribelle dell’Anatolia di Elia Kazan, ci sono richiami a Yol di Yilmaz Güney e la composizione drammatica è ispirata a Sentieri selvaggi di John Ford.
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