L’Isotta Fraschini, con il suo carico di speranze frustrate, arrancava sbuffando verso gli studios. Là c’era il grande DeMille ad attenderla…
L’utopia dell’illusione, ecco dove stava il conquibus, la radice profonda delle sue distorsioni mentali: fuori c’era la vita che continuava a scorrere implacabile perchè il mondo non si era fermato come lei aveva cercato di immaginare restando rintanata nel suo mausoleo quasi tombale agganciata al passato, lontana da sguardi indiscreti. Il panorama inquietante delle trasformazioni che il tempo aveva prodotto modificando i contorni delle cose, le si parava davanti inesorabile creandole uno sconquassante scombussolamento visivo che era in effetti soltanto il riflesso del suo disagio interiore per non essere stata in grado di accettare di invecchiare. Erano dunque il suo vissuto, il suo corpo, il suo volto a risultare inesorabilmente segnati dagli anni trascorsi, anche se lei si ostinava a non ammetterlo per poter almeno continuare a coltivare la segreta chimera di una possibile rinascita, con l’incauta, sottaciuta speranza che fosse sufficiente avere il coraggio di oltrepassare un cancello per ritrovare il suo mondo e la sua gente, per essere di nuovo la star, la diva acclamata e desiderata di una volta e poter riassaporare così il successo che in anni lontani l’aveva resa un’icona superba da venerare. La favola bella se la raccontava ogni sera, nella sala di proiezione della sua villa, quando tentava di identificare il presente nelle effimere immagini della sua gloria ormai tramontata che lo schermo le rimandava implacabile, labili larve un po’ tremolanti, sembianze impalpabili che il telone bianco rianimava per pochi, fuggevoli attimi incapaci di rinfocolare davvero il sogno impossibile, perché era solo il momentaneo fascio di luce del proiettore a illuderla di aver conservato la seducente fisicità esteriore di una giovinezza ormai dissipata, a ricreare il temporaneo “miracolo” di un ingannevole miraggio.
Si era convinta per troppo tempo che tutto questo potesse bastare per annullare le rughe pateticamente celate dietro la spessa coltre di un trucco tanto pesante e innaturale, da far diventare la sua faccia simile a un disumanizzante simulacro di porcellana incrostata. I tratti del volto sbiancati e sfumati da cipria e cerone, lo rendevano infatti una specie di maschera Nõ nella sua fissità inamovibile quasi senza storia con gli occhi perennemente sbarrati, quasi attoniti, appesantiti da ciglia troppo cariche di nerissimo rimmel che dilatavano ulteriormente l’allucinato stupore del suo sguardo e le sottili, stizzose labbra troppo accese e veementi sotto il colore vermiglio del rossetto che faceva somigliare ogni accennato sorriso a una smorfia ringhiosa e un po’ oscena.
All’improvviso si stava rendendo conto che tutto era invece molto più complicato e difficile proprio per quel suo non essere stata capace di confrontarsi con ciò che il tempo l’aveva fatta diventare, per non essersi voluta abituare, né tantomeno adattare, al cambiamento… Non lo voleva ammettere, ma si sentiva perduta, perché ormai non si poteva più tirare indietro e soprattutto non voleva farlo. Erano ormai nel vasto piazzale antistante gli stabilimenti e gli uffici, e avvertiva di nuovo lo stordimento rabbioso dell’impotenza e del “possibile” fallimento. Cecil B. DeMille la stava attendendo per emettere il “verdetto”: dopo nulla avrebbe potuto essere ancora come prima.
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