DOS DISPAROS, ovvero Due spari, ha un inizio davvero promettente che fa sperare, noi ingenui cinefili, desiderosi di emozioni, di convincerci ad aver trovato finalmente il nostro film preferito.
In tal senso la delusione che ci assale quando la storia si attorciglia su vicende estranee a ciò che più ci interessa, ossia a ciò che ci viene raccontato a proposito del gesto inconsulto e suicida di un giovane studente, diviene man mano ancora piu' cocente; soprattutto appena ci accorgiamo che al film manca un filo conduttore o di una staffetta che possa collegare queste storie di contorno che intervengono a deviare in modo fastidioso e fraudolennto un racconto misterioso che era riuscito a convincerci, ad attirarci, se non addirittura ad appassionarci.
Inizio brusco: musica scatenata ed il giovane Mariano che balla in una discoteca mentre il giorno sopravanza sulla notte. Poco dopo il giovane si trova a casa, una bella villa con piscina; si sveglia assonnato e afflitto dai bagordi della sera precedente, propende per una nuotata ristoratrice, poi il taglio del prato; quindi un inconveniente elettrico, il filo del tagliaerbe tranciato, che gli permette di scovare casualmente, nel capanno degli attrezzi, una vecchia pistola. Lo stordimento e la stanchezza, la fascinazione dell'ordigno, la noia: Mariano va in camera sua, si punta alla tempia l'arma, ma il colpo devia e gli procura una ferita di striscio quasi banale; poi, sempre come un automa, il ragazzo ci riprova e si punta la canna in pancia: il secondo proiettile lo perfora, lo ferisce, ma non a morte, e resta nel corpo, tanto che nella stanza nessuno trova traccia alcuna, ma i dottori non riescono nemmeno a capire dove possa nascondersi all'interno dello stomaco della vittima.
Mariano suona il flauto e questo incidente gli modifica la respirazione, condizionandone la purezza del suono, che appare da quel momento spurio, quasi sdoppiato, stridulo.
Questo suo gesto inconsulto e senza apparente spiegazione, vosto che il ragazzo non appare depresso ne afflitto da manie suicide, modifica a poco a poco le abitudini di vita del fratello e della madre di Mariano, ma pure di tutta una serie di conoscenze e persone che, in qualche modo incrociano la strada di quel malinconico e taciturno ragazzo.
Martin Rejtman, argentino di Buenos Aires ed habitue' di Locarno, come dicevo poco innanzi convince con il suo racconto di base, intriso di mistero e fascino per un'azione inconsulta e grave che nasconde chissa' quali segreti o misteri dell'animo. Ma poi la strada imbocca molteplici altre vie intricate in cui subentrano personaggi poco utili o addirittura superflui a far perdere le tracce o distogliere l'attenzione da un racconto che regalava grandi, forse eccessive aspettative: tutte sprecate, buttate al vento, perse malamente senza che un filo rosso riesca minimamente a far da collettore a piccole grandi tragedie esistenziali di gente sola in cerca di un significato.
VOTO **1/2
VOTO **1/2
Se le aspettative del film argentino erano alte, figurarsi quelle nei riguardi del film greco che vede come protagonista la bella e bionda, energica e grintosa Angeliki Papoulia di Kynodontas ed Alpes del fenomeno Yorgos Lantimos.
Ma, se possibile, la delusione qui e' ancora piu' cocente.
Un incendio boschivo, ma pure uno che scoppia furente nell'intimità di una famiglia di commercianti afflitti, come quasi tutti i greci (e non solo) di oggi, da una crisi che piega senza distinzione alcuna esistenze e destini a compromessi che rimettono in discussione anche traguardi affettivi ritenuti assodati e saldi. Ma la crisi economica non e' la sola emergenza, visto che questa emergenza appicca solo combustioni di vecchi rancori e vendette sopite malamente da una ragionevolezza ora non più a portata di ragione e lucidità.
In A BLAST, la giovane e bella madre Maria sfreccia a velocita' folle sulla jeep di famiglia dopo aver appiccato quel fuoco di cui sopra, avendo con se' una valigia piena di soldi, ed essendosi lasciata addietro una vita familiare potenzialmente perfetta, con un marito bellissimo ed affettuoso, amante focoso ricambiato appena può far rientro a casa, dato che naviga e per tale motivo rientra dalla moglie troppo poco; la fuga della bionda ed energica donna la costringe a lasciare i figli ad una sorella un pò sopra le righe (se non folle), che vive con un individuo dalle sporche ed irrefrenabili tendenze pedofile, che riversa ovviamente sui figli adolescenti o bambini della bionda in fuga. Costei, come se non bastasse, ha tagliato i ponti con una madre inferma, commerciante imbrogliona col fisco ed con un padre che non ha il carattere per tenere le redini di una famiglia sull'orlo del burrone.
Tutto quello che c'e' stato prima e' rivissuto dal regista Syllas Tzoumerkas con confusi e (probabilmente volutamente) disturbanti flash-bach che documentano uno stress ed un' isteria che non fanno che riscaldare la miccia e prepararla allo scoppio fragoroso. Ma il film proprio per questo infastidisce ed appare inutilmente o superficialmente provocatorio, fastidioso e petulante, colmo di scene ripetute di sesso patinato che riescono persino ad annoiare, nonostante l'avvenenza non comune di una coppia di attori davvero bellissima e ad alto tasso erotico.
VOTO **
Primo a sinistra Dario Argento alla presentazione del suo "L'uccello dalle piume di cristallo"
Meno male che c'e' Dario allora! Di Argento stiamo parlando, naturalmente, e Port Cros ed io non riusciamo a rinunciare alla nostra prima visione al cinema del suo ancora innovativo e folgorante esordio alla regia datato 1970, col celeberrimo film cult L'Uccello dalle piume di cristallo. Un giallo innovativo e precursore di uno stile, un film quasi quarantacinquenne che pare oggi più che mai fresco e giovane, moderno, molto architettato nei dettagli, sofisticato con i suoi multipli finali (una costante argentiana che impareremo ad aspettarci ogni volta), tipici di un thriller in grado di aprire o riaprire mode e tendenze che in effetti attirò dietro di sé da inizio anni '70.
L'odissea sadica e tesa, assurda ed improbabile, ma irresistibile che coglie un mediocre scrittore statunitense in bolletta, che cerca (e pare alla fine aver trovato) l'America in Italia, proprio a Roma, ci tuffa sadicamente in una vicenda noir concitata: una caccia, spietata e crudele, fine a sé stessa e maligna come quella tra gatto e topo, che occupa un abile e misterioso maniaco assassino e le sue vittime, tutte donne giovani ed avvenenti; ma pure del maniaco con il nostro protagonista, testimone oculare di un tentato truculento ulteriore omicidio ai danni di una avvenente gallerista romana, salvata in estremis da quest'ultimo.
Argento costruisce un complotto intricatissimo improbabile, ma avvincente, che alla fine quadra come un teorema, e lo fa sceneggiando una formula modernissima, complicata e costruita come un castello di carte che è necessario progettare dalla fine, sfidando la gravità e le leggi più elementari, per imbrigliare ed ingannare lo spettatore con il suo duplice finale necessario, furbo, che riesce anche a prendersi poco sul serio finendo quasi come una barzelletta ("e dire che mi dicevano che a Roma mi sarei annoiato!" è la frase ironica e divertente con cui si congeda Tony Musante).
Dario Argento, accolto con calore nella sala affollata del cinema Ex Rex (chissa' la ragione di quell'enfatico "ex") ci racconta la tormentata genesi del suo primo film da regista, non certo da sceneggiatore; dei dissidi improvvisi creatisi con l'amico Goffredo Lombardi, patron della Titanus con cui fino ad allora regnava una complicità quasi idilliaca. Del successo tardivo e ormai insperato che riscontrò la pellicola nelle piazze minori dopo un esordio deludente sia a Milano che a Roma. Fino ad un successo oltreoceano senza precedenti.
Il regista romano si concentra sui visi contorti di soggetti quasi da circo tanto paiono bizzarri: sugli sguardi della follia, sulle smorfie suggerite dal terrore cieco e dalla consapevolezza della fine, su personaggi scientemente sopra le righe e manierati che sembrano creare solo divagazioni, ma che poi finiscono per costituire tasselli preziosi necessari a sbrogliare l'insanguinata matassa. Mario Adorf nel ruolo del pittore "mangiagatti" rappresenta l'esempio più validamente calzante ed uno dei ruoli cult indimenticabili di questo celebre film.
Il sangue schizza del suo rosso vermiglio esagerato, preparandoci e quasi anticipandoci i fiumi incontenibili di Profondo rosso. Questo che costituisce, oltre che il film d'esordio come regista da parte di Argento, anche il primo episodio della "trilogia animale", (seguirono Il gatto a nove code e Quattromosche di velluto grigio), ottenuto finalmente il già citato successo di pubblico che inizialmente sembrava un miraggio (il film divenne campione di incassi negli Usa per due settimane, cosa mai vista per un film italiano), divenne ancor più capostipite di uno stile che negli anni '70 trovo' seguaci ed emuli, non tutti adeguati e capaci di sostenere questi stili e ritmi, e discepoli illustri dagli '80 in avanti, nonche' cultori nelle nuove lodate e cinefile leve dai '90 ad oggi, Tarantino in testa.
VOTO ****
La giornata, iniziata con le accennate premesse deludenti, scalfite nettamente dal celebre esordio argentiano, si conclude con una conferma: il cinema italiano, almeno quello presente sino ad ora a Locarno, e' in forma e guida la piccola schiera di opere interessanti o belle viste con parsimonia fino ad ora: stanotte e' toccato a LA CREAZIONE DI SIGNIFICATO, secondo lungometraggio di Simone Rapisarda Casanova, docu-fiction ambientata ai giorni nostri sulle Alpi Apuane, nelle terre coltivate ed abitate lungo tutta una vita da Pacifico, un contadino ed allevatore che vive ormai come un eremita a stretto contatto con la natura, quasi completamente indipendente grazie alle fatiche del lavoro e ai risultati prodotti dalla coltura della terra e dall'allevamento di poco bestiame.
Un vecchio neanche tanto vecchio anagraficamente, energico e scattante, infaticabile e convinto, nella semplicita' testarda che lo rende autentico e genuino come pochi ormai, che per poterci salvare da questo degrado economico e di valori, sia indispensabile adoperarsi per un ritorno alle origini: alla terra, a produrre qualcosa di concreto, allontanandoci dal fumo di questi decenni consacrati ad un progresso fasullo e fatuo. Un documentario che presenta la sceneggiatura dei dialoghi della vita di tutti i giorni, del contatto tra due culture, due nazioni (la Germania potente che si pone delle domande sotto forma di un giovane padre affascinato dalla vita "libera" e quasi trasgressiva del nostro paese, ad anteporsi alla inflessibile osservanza delle regole che premia ma anche limita il popolo tedesco. La fascinazione del commettere il peccato, di una Italia che piange da sempre, da quando chi la abita ha capito che chi non "piange non puppa", come cita Pacifico).
E il bel film di Rapisarda contrappone la volgarità della politica urlata, che si fa forte di insulti ed improperi, con la naturalezza sfrontata e candida di un pollaio, di un volo di insetto, di un viso equino. Rischiando in accostamenti arditi che tuttavia mai diventano tendenziosi o scolastici. Fino ad arrivare a domandarsi se sia davvero necessario creare questo significato, formulandolo come un concetto scolastico; oppure no, tornando semplicemente e candidamente alle origini, alla autenticita' dei gesti e delle azioni concrete. Pacifico vive nei ricordi di bambino che non ha vissuto la guerra e le sue stragi sanguinose, se non nel ricordo della mamma che le ha trascorse sulla propria pelle; ma proprio per la genuinita' delle storie che gli sono state raccontare, egli riesce a farle rivivere come testimonianze ai giovani che vanno ad intervistarlo, al già citato padre tedesco con infante a cui egli vuole cedere la nuda proprieta' del suo "regno", rendendosi conto che ormai ha bisogno di pensare a mettersi in sicurezza per l'imminente vecchiaia dell'ultimo capitolo.
"La creazione di significato" vive della genuinita' della vita vera ed agreste che poco ancora si trova nei territori di montagna, e gioca ad un certo punto a contrappuntarsi con la finzione quasi ostentata di un film-nel-film che ripercorre episodi salienti della rivolta partigiana al nemico sanguinario in ritirata, e per questo micidiale piu' di una belva ferita.
La creazione di significato e' un film che avrebbe entusiasmato, appropriatamente e a ragion veduta, una rassegna come la Quinzaine des Realisateurs di Cannes, quella stessa dove trionfo' qualche anno fa il lodatissimo e non dimenticato "Le quattro stagioni", di uno straordinario Frammartino, nei confronti del quale questo riuscito documentario ha molte complicita' di stili e contenuti.
VOTO ****
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta