Spunti per qualche riflessione
In questi giorni “caldi” pieni di minacce nucleari, belliche e confusioni di vario tipo, forse è il caso, per stemperare certi toni troppo accesi, di tentare di fare qualche riflessione sull’America e sul cinema americano, soprattutto in riferimento a possibili parallelismi tra politica USA e il genere americano per eccellenza e cioè il western. Se proviamo a classificare i sottogeneri del western (in modo molto schematico) scopriamo che, grosso modo, le trame viaggiano soprattutto lungo tre percorsi: il primo è quello che contrappone due civiltà: quella indigena (i pellerossa) e quella occidentale. In questo filone si inserisce tutta la cinematografia relativa al pionierismo, alla ricerca di nuovi territori da popolare, alla conquista di luoghi appetibili per ricchezze minerarie, materie prime, luoghi fertili da sfruttare. Qui avvengono gli scontri con gli indigeni, la stipula di trattati che poi fanno la fine della carta straccia ed infine la definitiva conquista dell’Ovest. (L’ULTIMO APACHE, di R.Aldrich, IL GRANDE SENTIERO, di J.Ford). E’, in ordine cronologico, la prima tappa dell’odissea dell’Ovest americana.
Il secondo filone è poi quello della progressiva civilizzazione: a fronte di una graduale “normalizzazione” dei rapporti socio-economici (nascita delle città, dei primi traffici commerciali, del latifondismo, l’arrivo della ferrovia, della banca, i primordi dell’insediamento del ceto impiegatizio, dei tribunali ecc.), si assiste al difficile e mai riuscito tentativo di sradicamento della mentalità di frontiera, quella cioè della legittimità “de facto” della conquista, della legge arbitraria, mutevole a seconda dei soggetti, del dispotismo violento dei primi grandi proprietari fondiari.Il terzo filone è quello, più recente, del conflitto fra latifondisti e allevatori e cow boys, tra latifondo e parcellizzazione, tra i fautori degli spazi aperti e quelli del filo spinato. Il progresso porta allo scontro frontale tra opposti interessi. Qui si inseriscono gli episodi che tante volte sono stati di ispirazione per i western più famosi (basterebbe pensare a SFIDA INFERNALE. Spesso la legge è rappresentata da sceriffi al soldo di potenti o cittadinanza legata ad interessi particolari (IO SONO LA LEGGE, ULTIMA NOTTE A WARLOCK ecc.), oppure da figure scialbe nominate al solo scopo di permettere l’arbitrio da parte dei potenti.
Queste premesse sono necessarie per affrontare il tema che mi interessa mettere in evidenza in questo articolo e cioè la figura dell’eroe western. Schematicamente, direi che sono essenzialmente due le tematiche che normalmente questo genere utilizza per illustrarne le gesta. La prima è quella dell’atto di forza che reagisce a una violenza diretta. La seconda è quella che interviene per eliminare una violenza indiretta. In pratica, direi che il primo caso potremmo chiamarlo del “COSTRETTO AD UCCIDERE” (titolo tratto dal film di Tom Gries il cui titolo originale è WILL PENNY(1968). In questo filone troviamo gran parte della filmografia di Anthony Mann, il cui esempio forse più lampante è L’UOMO DI LARAMIE. In sostanza, il protagonista di questi film è un uomo pacifico. Egli è di solito un cow boy, un piccolo coltivatore od allevatore o un uomo senza una particolare attività. Senza motivo apparente, viene fatto segno di un attentato a cui scampa a stento. Nonostante la sua naturale ritrosia a prendere le armi, si vede costretto a rispondere alla violenza. Il secondo filone è quello dell’eroe che interviene in appoggio a una o più persone minacciate e aggredite da personaggi a volte rappresentati da puri e semplici fuorilegge oppure da personaggi arroganti e potenti che agiscono in nome di una giustizia a senso unico, fatta per difendere i loro privilegi e soprusi. E’ il classico esempio di IL CAVALIERE DELLA VALLE SOLITARIA. Scrivevo prima che la legge della frontiera è, in certa misura, ancora presente nella legislazione americana e soprattutto in certi Stati del Sud. Una delle tracce più evidenti è la legittimità a difendere la proprietà privata con l’uso della violenza. Memorabile è, a questo proposito, il film documentario di Michael Moore BOWLING A COLUMBINE (2002).Tracce di questi due filoni è possibile ritrovarli nella politica americana del secolo scorso e di questo inizio di terzo millennio. Le due guerre mondiali, ad esempio, sono un chiaro esempio della sconfitta politica anti-interventista che sembrava essere uno dei punti chiave della politica estera americana. L’intervento a favore dell’Inghilterra assomiglia più all’atteggiamento ascrivibile al secondo filone e cioè a quello dell’appoggio a chi è minacciato dal “cattivo” di turno. L’intervento in Afghanistan parrebbe invece inserirsi più nel primo filone e cioè a quello della reazione alla violenza diretta. L’attentato dell’11 settembre 2001 rappresenta un chiaro attacco alla sicurezza nazionale e l’America qui risponde direttamente alla violenza subita intervenendo pesantemente nei luoghi dove pare esistano le cellule che hanno progettato e realizzato l’attacco alle Torri gemelle. Come conciliare però, a questo punto, due elementi opposti quali, da un lato il ruolo di guardiano armato dello scacchiere internazionale (e di conseguenza e per forza di cose, imperialista) e quello di legittima risposta ad una violenza subita? Se il ruolo di guardiano armato raffigura quello dei personaggi del West, potenti e arroganti, contro cui era lecito far valere la legge, anche usando la violenza, come non vedere un curioso contrasto con il ruolo di vittima che gli Stati Uniti rivendicano per giustificare il loro intervento in Iraq e Afghanistan?Sembra lontana anni luce, vista in quest’ottica, la figura dell’eroe del film di Mann L’UOMO DI LARAMIE: il personaggio rappresentato da James Stewart è un uomo pacifico, legato da profonda amicizia con il suo vecchio compagno e socio. Egli è in pace con il mondo e detesta ogni violenza. Reagisce solo quando tutto sembra ormai perduto e la sua vita veramente in pericolo. Legittima difesa da parte di un americano innocente e dalla coscienza a posto.
Quando, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti si scoprono superpotenza, appare chiaro che la nobile politica della lotta al Male (rappresentato da Hitler, Mussolini e il Giappone) acquista un valore diverso. La dottrina Truman del contenimento del comunismo non è più l’intervento in appoggio a chi contrastava il totalitarismo, ma diventa consapevolezza di un ruolo da svolgere e di un sistema da difendere e diffondere. Il mondo diventa così un gigantesco mercato che ha come centro del potere New York e la sua Borsa.
Prendendo ad esempio un film, per certi aspetti, illuminante e che spesso cito e cioè IO SONO LA LEGGE (LAWMAN) di Michael Winner, notiamo che in una cittadina dell’Ovest regna ed impera Vincent Bronson (Lee J.Cobb): E’ un ricco proprietario terriero, possiede allevamenti e, in pratica, possiede anche la città. In passato, Bronson è diventato quel che è ora con l’arbitrio e la violenza. Ora, ristabilita la pace, amministra i suoi beni e dà lavoro a una quantità di abitanti. La gente lo rispetta e lo difende, perché pur conoscendo l’origine del suo potere, gli deve il proprio benessere e la propria sicurezza. In effetti, Bronson si circonda di un certo numero di scagnozzi che, se da un lato lo proteggono, dall’altro mantengono l’ordine nella città. Accade che alcuni di loro, in preda ai fumi dell’alcol, sparando all’impazzata, uccidano, in un villaggio vicino, una persona. Lo sceriffo del villaggio, Jered Maddox (Burt Lancaster): dopo brevi indagini scopre chi sono gli assassini e si avvia a catturarli. In tutti i modi si cerca di farlo recedere dalla sua intenzione, ma egli non cede. Cattura o uccide diversi tirapiedi di Bronson fino allo scontro finale. Il film pone un interessante interrogativo. Chi è che ha ragione: è Maddox o Bronson? L’omicidio è avvenuto in circostanze fortuite. Ciò depotenzia l’azione di Maddox di cui appare evidente la sproporzione fra il fatto in questione e la risposta legale. Ma Bronson è un ex-bandito che ha costruito sul crimine una città. Ora la legge lo rispetta e lo riverisce. Egli stesso nomina e paga lo sceriffo che, in realtà dovrebbe arrestarlo. E allora? I confini tra ciò che è giusto e ciò che non lo è, come si vede, spesso sono quasi invisibili e a volte si sovrappongono. Ma allora chi è Bronson? L’Ovest è stato costruito da gente come lui. La frontiera americana è stata creazione di uno spirito di conquista ai danni di altri. Sconfitti i nativi, si è creata l’America. Ma non c’è innocenza. Si è perduta a Sand Creek (1864), a Wounded Knee (1890) e non è giusto ricordare solo Alamo. E’ giusto ricordare Pearl Harbor, ma non va dimenticata Mi Lay (Vietnam 1968).George W.Bush ha scatenato l’inferno, in Iraq e non solo, con il pretesto che occorreva distruggere armi di distruzione di massa, salvo poi scoprire che non era vero niente (Notevole, al riguardo, GREEN ZONE). Poi, reagendo all’attentato del’11 settembre, ha portato l’inferno in Afghanistan. I risultati non sono stati quelli sperati. L’Iraq è ancora lontano dall’essere pacificato e l’Afghanistan si sta rivelando una palude da cui non sembra possa scaturire qualcosa di risolutivo. Allora chi è Maddox? E’ lui George W.Bush? Oppure lo è Bronson? Di sicuro a Bronson non sarebbe venuto in mente di scatenare una guerra per un omicidio fortuito. L’impero di Bronson, fondato sul peccato originale dell’arbitrio e del sopruso, si è trasformato poco a poco in una pax in cui tutti vivono sapendo di avere un padrone che pensa a loro, in cambio della loro sottomissione (non è forse il caso della Libia di Gheddafi?). Se Maddox fosse Bush allora i contri potrebbero tornare. La pretesa giustizia diventa motivo di accanimento. Summum jus summa iniuria.L’America ha scelto Obama perché crede nella sua diversa visione della politica internazionale, contro l’avventurismo scriteriato del suo predecessore.Ora Obama, decide di intervenire in Libia così come la cosiddetta “comunità internazionale”. Se la ragione dell’intervento è il massacro di popolazioni inermi, perché non si è intervenuti nel Darfur? Le migliaia di sudanesi massacrate non hanno forse la stessa dignità di quelle libiche? Un uomo dichiaratamente democratico, di fronte al primo grave problema di politica internazionale, sembra rispondere con la tipica irresolutezza di chi, abituato a muoversi tra la ricerca democratica del consenso e il dialogo, non sa prendere in mano energicamente le redini per affrontare una crisi internazionale. L’inedito bellicismo di Paesi notoriamente poco inclini a gettarsi nella mischia come Francia e Inghilterra, fanno pensare che, dietro a nobili dichiarazioni a favore di popolazioni a rischio di massacro, si celino aspirazioni ben poco commendevoli. Di sicuro Laramie è molto lontana.
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