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Per un pugno di dollari. Mitologie e archetipi. L'origine della rappresentazione dell'irrisolto maschile occidentale moderno.
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Uno straniero arrivato dal nulla, un villaggio sperduto nel deserto, un cattivo da eliminare… e un pugno di dollari da portare a casa. Nonostante questi archetipi classici del western americano, Sergio Leone non solo rivoluziona il genere, ma lo traduce. Ambientando storie di banditi e cowboy in Almería, il regista è come se avesse quintuplicato il valore specifico del western. In quanti hanno giocato ai cowboy nel cortile di casa, sotto il balcone della nonna o sotto un sole accecante? In quanti hanno fatto rivivere scene viste nei film in campagne assolate, in qualche casa abbandonata o in qualche strada deserta? Eppure non eravamo nel Texas e nemmeno in Arizona o nel New Mexico, ma ci riusciva ugualmente di fantasticare e sognare. Sergio Leone ha fatto la stessa cosa: ha preso un gruppo di attori e li ha fatti giocare ai cowboy nel campo dietro casa o sotto il sole dell’Almería. Solo con questa incredibile, sottile e poetica operazione, il grande maestro romano ha saputo risemantizzare il genere western e dargli il ruolo che gli spettava da tempo: non più un’esclusiva americana, ma il paradigma dell’uomo moderno occidentale.

Nella fattispecie il film di Leone non crea solo un genere cinematografico specifico, lo spaghetti-western, ma influenzerà notevolmente il linguaggio cinematografico che dopo di lui non sarà più lo stesso, così come non lo fu più dopo Quarto Potere di Orson Wells (1949), lo stesso Wells che disse a Giulio Questi: “Con un Western puoi dire tutto quello che vuoi”.

Oggi si è tutti pressoché decisi a credere che le fortune del film siano dipese anche dal caso e non dal solo Sergio Leone. Io dico che Leone, il cui precedente Colosso di Rodi (1961) non ha nulla a che vedere con Per Un Pugno di Dollari, sapeva benissimo quello che voleva realizzare e le necessità che poi diventano virtù gli hanno giusto dato una mano. Per esempio, si attribuisce la resa mitizzante dei primissimi piani del film, che fecero poi scuola, all’uso del nuovo formato Techniscope 2P, che per non perdere i dettagli del viso obbligava a stringere sul volto dell’attore come mai prima. Ma è anche vero che i primissimi piani sono così strettamente funzionali alla mitizzazione dei personaggi e degli archetipi che la loro ricerca stilistica non può essere dovuta semplicemente ad una esigenza tecnica. Per non dire di come il risicatissimo budget obbligasse a scelte rudimentali e primitive, portando così il film nella sua direzione archetipale.

Se infatti, come sostengo io, il western trasfigura il popolo nel Mito e il Mito nel popolo, con Per Un Pugno di Dollari si esemplifica l’appartenenza del western alla sfera dei luoghi dell’anima come mai si era riusciti prima. Nonostante il western americano indicasse già nei suoi prodotti migliori lo spirito libero e selvaggio di uomini in fuga dal focolare domestico desiderosi di scoprire l’altro da sé maschile una volta perduti nella wilderness, non era ancora stato in grado di tradurre la frontiera come luogo dell’anima dell’uomo modero occidentale. Fino a Sergio Leone il West è un luogo della storia, dove i banditi vengono puniti e gli eroi applauditi. Anche nei casi più autoriali siamo sempre e comunque davanti all’epica di una nazione. La conquista della terra selvaggia, lo scontro con i nativi, l’ambiguità della legge e della civiltà, la tensione verso la natura, sono tutti elementi che, sintetizzati nella silhouette del pistolero solitario a cavallo, fanno una nazione e anche un immaginario. Un immaginario però naturalistico, verista. Un immaginario che serviva per portare nella vita civile del Paese, in grande spolvero dopo la guerra mondiale, una coscienza nazionale di coesione. Una idealizzazione dei valori americani, con loro conseguente concrezione immaginifica.

Anche nelle più importanti pellicole western americane assistiamo alla creazione di un mito che va al di là della pura pragmatica americana e si fa mito. Come non leggere così i film di Anthony Mann o John Ford? Eppure, in Sergio Leone c’è qualcosa che prima non c’era. Ed è l’iconizzazione del genere. I primi piani, i volti sporchi e barbuti, le battute lapidarie, i dialoghi ridotti all’osso, il paesaggio metanaturale, l’iconografia essenziale, l’intreccio semplice, le caratterizzazioni dei tipi, l’estetica fumettistica, il gusto per l’esasperazione, lo humor nero, il cinismo dell’etica, la sconfessione della liturgia nazionalista americana. Insomma, con Leone il West diventa Western. L’epopea americana diventa un luogo metaspaziale e metastorico, un altrove e un altrieri in cui non c’è nessun operatore storico che incida ideologicamente sulla materia mitica. Non è più la Storia, bensì il Mito, primitivo, archetipale, atavico, istintivo.

Molti, riferendosi al personaggio di Clint Eastwood parlano non tanto di personaggio immorale quanto di personaggio amorale, etichetta per tutti gli stranieri e i Joe a venire. In realtà non si parla nemmeno di amoralità. Se la moralità è il peso eccessivo di regole prefatte che viziano il pensiero e l’azione dell’uomo nella sua società, ed è poi quello che si vede nel western americano di propaganda – il meno conosciuto, ahiloro, perché i capolavori sono di tutt’altro respiro; se l’immoralità è il suo esatto contrario, dove la meschinità e la cattiveria gratuite si sostituiscono alla coscienza dell’uomo; se l’amoralità è invece l’assenza di parametri morali a cui riferirsi per ritrovarsi uomo nel proprio mondo; allora il Joe di Clint Eastwood è semplicemente antimorale. Con l’antimoralità abbiamo la negazione sì della morale, prefatta, precotta, artificiosa ed ingiusta perché imposta, ma abbiamo straordinariamente l’apparizione dell’etica. Clint Eastwood solo in un primo momento fa tutto quello che fa per denaro. Poi, bissando sul perché, libera Marisol col bambino e il marito. Non gli viene in tasca nulla, anzi le prende di santa ragione, rischia la morte e per cosa? Un tozzo di pane? Nemmeno quello. Dopo aver regolato i conti con Ramón Rojo se ne andrà senza una lira, povero – quindi libero – come prima.

Ecco che cade tutta l'impalcatura semplicistica costruita da molta critica recente, che priva l’antieroe eastwoodiano di una sua morale, giustamente, senza riconoscerne però l’etica. In futuro, anche i Django e i Sartana, operando forse più disinvoltamente per il solo mero guadagno del dollaro, avranno comunque un’etica di riferimento. Perché l’uomo è animale etico per sua natura. L’uomo ha un sussulto interno che lo rende compartecipe dell’altro uomo generando una corrispondenza magica che supera leggi governative e dogmi religiosi. Ecco che il nostro Joe sarà, nell’amalgama dei volti e dei tipi che faranno un genere, il primo referente dell’uomo jungeriano, il primitivo, il singolo che non si rifà alle leggi e alle regole imposte ed istituite, ma che risponde ai suoi movimenti più personali che gli impongono il comportamento che poi tutti noi vediamo e apprezziamo.

I Ramon Rojo o gli Indio di turno, invece, sono uomini immorali. L’Uomo Morale e l’Uomo Immorale appartengono entrambi alla cateoria di giudizio della morale. L’Uomo Etico, è fuori da questa dialettica dicotonomica, e non ci sono segni diversi e opposti a al suo. L’Uomo Etico è uno e uno solo. Non ha il suo opposto. Non c’è Bene e Male in lui, ma solo la concezione umanista del mondo. La cooperazione, la tolleranza, l’unione dal basso contro i poteri dall’alto. In lui c’è anche, nei casi più radicali, una tensione autodistruttiva, prometeica, titanica nella sfida al sistema, al “così stanno le cose”. Ecco il Clint Eastwood di Leone, che è poi, per nostra fortuna, il Clint Eastwood di Don Siegel e quello di tutta la sua produzione personale, dai cavalieri solitari di Lo Straniero Senza Nome, Il Texano dagli Occhi di Ghiaccio e Il Cavaliere Pallido fino alle pellicole più recenti come Gli Spietati, Un Mondo Perfetto, Mystic River, Million Dollar Baby, Flags of Our Fathers, Letters From Iwo Jima, Changeling e Gran Torino.

Il western all’italiana è la traduzione mitica di temi e motivi fortemente radicati nella cultura occidentale. C’è il buono, l’Uomo Etico. C’è il cattivo, l’Uomo Immorale. C’è il coro, il Silvanito di Josè Calvo. C’è Cassandra, il campanaro che prevede misteriosamente il futuro dello straniero. C’è l’uomo umiliato, il marito di Marisol. I tangheri maltrattati e abbruttiti dalla vita e i borghesi ipocriti e repressi. C’è molto della nostra sfaccettata e multiforme anima moderna, che trova i suoi corrispettivi sul grande schermo. Molto più legato alla tradizione mitica universale che all’ingerenza dichiarata di Yojimbo di Kurosawa (1961) e a quella indiretta di Red Harvest di Hammett (1927), il film di Leone è un puro prodotto italiano e come tale è radicato in una cultura europea che ha diverse marce in più rispetto a quella americana, molto più recente.

Con il chiaro riferimento culturale all’Arlecchino di Goldoni, servitore di due padroni proprio come Clint Eastwood, Leone segna l’intrusione del concetto alto nella pratica bassa. Gli americani, chiaramente, con i loro western epici s’erano ovviamente già rifatti ai classici mitici, ma credo che l’evidenza maggiore l’abbiano avuta i prodotti italiani nei quali la peculiare italianicità è risultata determinante per ricreare il gioco mitico della celebre proiezione della caverna. Cos’è quindi questo tocco all’italiana che ha cambiato il cinema, non solo western?

Principalmente è la blasfemia del genere, la sconfessione della liturgia classica. Prendere lo stereotipo, l’archetipo, il Mito classico per eccellenza e risemantizzarlo sia nei segni esteriori che in quelli interiori, è il primo chiaro e lampante segnale di appropriazione di un significante e della sua risemantizzazione. Con Leone non ci sono più i cowboy belli, puliti, sbarbati, uomini di legge o padri di famiglia o stranieri che sembrano degli eroi greci gettati sulla Terra per raddrizzare i torti. Il monolite c’è, ma non è il personaggio, non è l’eroe in sé. Perché adesso si parla di antieroi o meglio ancora di eroi antimorali, di eroi non rieducabili, eroi primitivi, jungeriani.

Per Un Pugno di Dollari si evidenzia, in quel corpo cinematografico che è tutta la produzione western di Sergio Leone, anche per lo stile. Uno stile cercato e voluto, aiutato dal caso e dalle necessità contingenti, la cui cifra autoriale è comunque evidente e palese. Pensiamo all’incipit di Per un pugno di dollari. Clint Eastwood entra in scena di spalle. Questa è un’intuizione del regista, non una necessità dovuta ai pochi mezzi. Questo si chiama stile. Immediatamente dopo, Eastwood assiste ad una scena immorale, dove Mario Brega prende a calci un povero peón e il di lui bambino che piange perché rivuole la sua mamma, ora prigioniera dei cattivi. Ma Eastwood non muove un dito. É un processo di accumulazione di frustrazioni, inconsapevole, che sarà poi la miccia che porterà il nostro Joe a mettersi totalmente contro i Rojo. Non prende appunti, non si lega al dito le cose. Tutte torneranno, lo afferreranno prepotenti e snebbieranno la vista dell’Uomo Etico, portandolo alla resa dei conti. Il monolite semmai, è l’intero complesso immaginifico del film, che si staglia monumentale sulla linea dell’orizzonte, grande e grosso, il pezzo unico di unica bellezza mitica.

Ecco poi il tocco più emblematico: l’esasperazione. I duelli sono dilatati, gli sguardi dettagliati e montati con incisiva insistenza. Le pose, le posture, le composizioni delle inquadrature; le violenze, le meschinità, le torture, il sangue, le ferite, il sadismo: mai così rappresentati in un western. Da notare inoltre lo scardinamento dall’interno dei dettami e dei parametri ideologico-estetici imposti dal codice Hays, quell’impalcatura fascista che dettava legge nell’America delle arti e che imponeva nei western americani che il cowboy non potesse stare nella stessa inquadratura con l’uomo che ammazzava: ovvio l’intento di evitare un’associazione di immagini tra l’eroe positivo e il gesto criminale dell’omicidio. Grazie a questo stratagemma si è consolidata l’idea che in America è giusto che ognuno abbia le proprie armi e che se ammazzasse per questioni di pura giustizia non compierebbe reato né dovrebbe sentirsi in colpa con se stesso o nei confronti di dio, perché in fondo in fondo dio lo vuole.

Tutta questa strutturazione della coscienza utilitaristica americana, fondamento del capitalismo degenerativo che oggi impera in tutto il mondo, viene grammaticalmente annullata da Sergio Leone, forse inconsapevolmente, confermando così la totale libertà ideologica con cui impostava e girava scene e inquadrature secondo un gusto personale, seguendo la propria intuizione autoriale. Nasce così un capolavoro arrabbiato, cinico, sovversivo nel linguaggio, nella dichiarazione mitica e nello stile. Questo è il tocco italiano, ovvero il tocco di chi si sente così oppresso dall’istituzione, dal dogma, dall’imposizione accettata che reagisce dissacrando, scardinando, disarticolando linguaggi, stili e immaginari tutti, attraverso registri e modalità creative antagoniste alla pratica tradizionale.

L’esasperazione leoniana, che farà gruppo successivamente con quella corbucciana e paroliniana, fa della violenza un paradigma autoriale e autorevole. La priva di negatività, la impressiona senza la retorica inquisitoria del cinema morale e la restituisce allo spettatore così com’è: dura, cruda, cinica, senza fronzoli. Volti tumefatti, morti ammazzati come se fossero burattini, massacri, violenze che sanno di erotismi, tutto tende a teorizzare la violenza senza cerebralismi, ma come il frutto di un istinto animale che sa di sessuale, di alimentare. I massacri salgariani in cui Leone ci mostra in apnea la morte ritmata e insensata di decine di soldati e poi degli uomini dei Baxter, sono lo sfogo di una repressione sessuale o comunque molto intima e psicologica oltre che risoluzione di un irrisolto. Interiormente, i personaggi di Leone, splendidamente creati da più mani – attori, sceneggiatori, primi ideatori, regista, etc. – hanno un loro conflitto. Sono essi stessi l’incarnazione di un conflitto. Il conflitto è un irrisolto. Il Mito dell’Irrisolto porta all’erraticità, porta all’azione. L’azione crea il film, perché il cinema è azione. E il cinema, lo dice Bazin, è di conseguenza il Western. Ecco che anche il microcosmo di un personaggio, all’interno dei tanti elementi che compongono un film, diventa importante sia per la diegesi che per il concetto ultimo del film, dove l’individuo conta di più della massa. La violenza non resta più solo l’orpello negativo e disgustoso con funzioni catartiche negli eroi, ma è e resterà parte integrante di un linguaggio e di un’estetica. La violenza viene così spostata dal puro piano diegetico a quello linguistico.

Ora, il cinema a quell’epoca non aveva ancora conosciuto il ’68 di Romero e di Peckinpah e gli horror erano semplicemente quelli edulcorati e bellissimi della Universal o quelli o quelli colorati della Hammer. Siamo nel ’64 e in America ci prova solo Herscher Gordon Lewis nel 1963 con Blood Feast a dare una mano di “rosso” al bianco muro dell’edulcorazione cinematografica. Ecco che l’arrivo di Per un pugno di dollari, che in America arriverà nel ’67 sull’ondata del successo dell’ancor più violento Django (1966), anticipando di due mesi circa l’uscita americana di Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo, è l’arrivo più importante e codificante del cinema che da classico finalmente si fa moderno. Una modernità dettata dall’esasperazione dei segni profilmici, da un uso nuovo e più spettacolare di inquadrature, fotografia, set decoration, montaggio, musiche e dialoghi. Il tutto incastonato nella cornice metaspaziale dell’Almeria che ricrea un West che non esiste, ma che lo richiama. Una cornice metanaturale, quella dei brulli deserti, dei villaggi spopolati, delle lunghe ramblas insidiose che richiama l’animo dei personaggi molto meglio della tradizione classica hollywoodiana. Una cornice metastorica che allontana il West dal suo fardello nazionalista per ricrearlo come luogo dell’anima.

In conclusione, un film che porta con sé innovazioni linguistiche come estetiche; un immaginario nuovo, sporcato dalla modernità e dall’inquietudine conosciuta nel dopoguerra fino all’abbaglio spersonalizzante del boom economico. Una modernità che è già postmoderna nel gioco dei volti americani, del citazionismo, del trasferimento semantico, degli pseudonimi e quant’altro. Un film che crea un luogo mitico, situato là dove regna l’insituabilità. La memoria metastorica di un passato mai conosciuto, ma da sempre cercato e che in tutti i modi abbiamo provato a riprodurre nella vita-che-si-vede. Il valore e l’impatto fumettistico della pellicola leoniana, come quelle successive, sono i segni popolari del Mito che si traduce da solo. Scende dall’affresco retorico e si consuma sulla terra bruciata dal sole, tra cavalli bianchi di sudore, muli che non amano chi ride di loro e pistoleri cinici dall’animo umanista.

Inutile dire che Eastwood e Volonté sono entrambi gli archetipi di una polarità per nulla definita, che non ha a che fare né con lo Shane de Il Cavaliere della Valle Solitaria (1953) – a cui tra l’altro tutto il western dei “solitari” si rifà, compreso il film di Leone – né con la sua nemesi oscura interpretata da Jack Palance. In Leone questa definizione delle responsabilità davanti alle brutture del mondo è labile, a volte addirittura manca del tutto. Il gioco duale tra protagonista e antagonista o più volgarmente tra buono e cattivo non è solo la risoluzione di un irrisolto maschile come tradizione classica vuole, ma diventa anche opposizione di caratteri archetipici che si soluzionano virilmente su più piani: quello estetico, quello testuale mutuato da quello linguistico, fino al piano psicoanalitico e a quello sessuale.

Tutto questo carnevale occidentale è partito da Sergio Leone. Punto. Ogni altra revisione storica è solo perfezionismo per pochi. Lo Spaghetti-Western nasce con Per un pugno di dollari. Prima si può solo parlare di tentativi europei di imitazione della tradizione classica americana, senza apporti culturali locali. E se questo non bastasse: come si fa a dimenticare quel bambino che cerca piangendo la sua mamma?

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