“Non aprite quella porta”, titolo accattivante ma del tutto fuorviante del celebre fiilm cult di Tobe Hooper, compie 40 anni quest'anno: la Quinzaine omaggia il suo celebre autore proiettando la versione restaurata, perfetta e sempre tesissima ed emozionante di quel piccolo gioiello horror destinato a generare filoni e personaggi paralleli o affini, non sempre memorabili come in questo caso.
Ma i “fumi di porpora” che incendiano la serata al Palais Croisette, colorando di rosso persino le scritte (per l'occasione gocciolanti) che campeggiano sul grande schermo della sala, mentre in sottofondo il rumore sinistro e sadico di una sega elettrica diventa una costante irresistibilmente opportuna, pertinente ed intrigante, iniziano almeno due ore prima: con la proiezione di ALLELUIA, atteso film del regista di Calvaire Fabrice Du Welz, con protagonista nuovamente Laurent Lucas, coadiuvato dalla simpativa e versatile Lola Duenas, attrice amodovariana molto nota in Francia per Le donne del 6° piano.
iL CAST DI ALLELUIA: il regista Fabrice Du Welz, Laurent Lucas e Lola Duenas
Un thriller che vira all'horror più sanguigno, costellato da momenti ironici e divertenti che suscitano gradimento e grasse risate tra il pubblico. La vicenda è quella di Gloria, quarantenne spagnola fuggita in Belgio con la figlia per tenersi lontana da un marito troppo geloso ed ossessivo. Lavora in ospedale, ma nell'obitorio, incaricata di preparare le salme per l'inumazione, come del resto il regista ci fa capire tramite le esplicite e dure immagini iniziali. Un po' restia, la donna accetta un invito a cena da parte di un affascinante sconosciuto, agganciato su una chat: da quel momento Gloria non riuscirà più a staccarsi da quell'individuo “strano”, tenebroso ed affascinante, che si scoprirà un raggiratore di vedove anche attempate, allo scopo di frode e furto. Con Glora tuttavia è diverso, anche perché la donna, complici le pozioni magico/esoteriche che l'uomo le somministra, diventa completamente succube dell'individuo: ma anche estremamente gelosa e suscettibile, violenta ed irascibile, impegnata con tutta se stessa e con tutte le sue forze (non poche in verità) a tenersi stretto il suo nuovo uomo.
Suddiviso in quattro capitoli che portano i nomi delle vittime di quello che diverrà un vero e proprio massacro, Alleluia vive di momenti tesi e di spunti ironici o piuttosto divertenti (la messa in scena della missione africana per spillare soldi alla vecchiazza mentre Gloria ride come una matta ma dissimulando un pianto sofferto), ma ha un grande, imperdonabile difetto: la mdp si appiccica alla pelle dei protagonisti aderendo esageratamente ai corpi e alle situazioni, in modo disturbante e tale da non rendere mai o quasi mai visibile un corpo per intero, cancellando o quasi i campi lunghi, a mio avviso necessari per una adeguata descrizione del paesaggio circostante, e risultando davvero fastidiosa nelle pur abili scene d'azione o di lotta, contornate da spruzzi di sangue e splatter altrimenti di grande effetto.
Un film che si castra con le proprie mani ed in modo non certo involontario, ma a mio avviso ingiustificabile. Abbiamo imparato ad adattarci a tutto, anche a regole cinematografiche vincolanti e mortificanti come il Dogma, creato per essere subito ripudiato dal suo stesso inventore Lars Von Trier. Ma questo horror cinefilo e citazionista (La regina d'Africa diviene il film cult della coppia, che mima i suoi leggendari due protagonisti, Bogey+Katharine, e permette loro di rispecchiarvisi nell'ambito della propria storia di coppia), così ossessivamente riflesso sui volti dei due “amanti criminali”, così da non riuscirli mai a contenere per intero in una singola ripresa in tutta la pellicola, parte da ottimi spunti per svilirsi in una messa in scena presuntuosa e confusionaria, elemento che contribuisce più di ogni altra cosa a far perdere smalto ad una trama di fatto interessante.
VOTO **1/2
Tornati in sala, il regista danese ormai famosissimo per la trilogia del “Pusher”, per il folle Bronson, lo storico Valhalla rising e Drive, e membro della giuria del concorso, ci introduce, non senza emozioni e dichiarazioni di ammirazione senza precedenti, il regista-simbolo dell'horror spesso indipendente: uno dei principali autori del genere assieme a Romero, Carpenter, Craven e il nostro Argento (quello fino a metà anni '80 però): ecco che da lontano scorgiamo un omino arzillo e canuto, l'altrimenti schivo e raro a concedersi Tobe Hooper; che sale sul palco e commosso si gode una standing ovation con pubblico tutto in piedi ed applauso ininterrotto di almeno 10 lunghi minuti.
Nicolas Winding Refn presenta emozionato Tobe Hooper, a sua volta commosso dall'ovazione di applausi del pubblico in piedi per lui.
Emozionati dall'evento, ci apprestiamo ad affrontare il suo capolavoro d'esordio, quel THE TEXAS CHAIN SAW MASSACRE ormai cult assoluto: ed è subito tensione, emozione, disgusto e frizzante ironia in un mix travolgente che non si arresta un attimo.
La vicenda inizia col viaggio di cinque ragazzi in furgone in una zona di allevamenti e macelli di bestiame, balzata alla cronaca per alcuni macabri episodi di profanazione di tombe con esposizione dei cadaveri in posizioni plastiche ed innaturali di cattivissimo gusto. Dopo aver accolto tra loro un bizzarro e violento autostoppista di cui si liberano in estremis, i giovani imprudenti e poco organizzati, rimasti senza benzina, cercano soccorso prima dal ristoratore del distributore, poi in una casa poco distante: fino a scoprire che si tratta in tutti i tre i casi di folli membri della stessa famiglia di macellai, resi completamente pazzi da una vita trascorsa a scannare animali, ed ora dediti a cucinare carne umana, Tra questi maniaci, il più pittoresco e caratteriale si dimostrerà Leatherface, un grassone impacciato e così sfigurato da dovers coprire con la pelle facciale delle sue vittime; un essere fortissimo che, armato di sega elettrica perennemente in funzione, darà il benvenuto a tutti i cinque protagonisti, rimpinguando le scorte della dispensa.
Un horror perfetto nel dosaggio dei tempi, nella capacità di giostrarsi sulle inquadrature dei volti devastati dall'orrore, dei particolari più malati e macabri di una solo apparentemente tranquilla periferia americana che nasconde le proprie tragedie tra le mura incrostate di ossa umane e pelle messa a seccare. Marylin Burns urla e scalcia per metà film, ma la capiamo e comprendiamo: dai suoi occhi incredibili di un verde smeraldo irraggiungibile e mai visto, scorgiamo il vero orrore, l'incredulità per una situazione così assurda da sembrare surreale, non fosse che i suoi amici sono morti tutti uno dopo l'altro e si trovano già tutti in dispensa pronti per una nuova appetitosa ricetta.
Hooper non riuscirà più ad eguagliare tale maestria e perizia, pur girando molti altri horror, alcuni dei quali rimasti tra i capisaldi di questo genere così amato ed insieme detestato senza mezze misure.
VOTO *****
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