Nel settimo giorno del suo cammino, durante "un tranquillo pomeriggio di tarda primavera", una variegata ma autorevole “Band à part” caratterizza l’invitante menù della manifestazione: una “carte” che comprende un vecchio leone affaticato ma ancora ruggente (il grande John Boorman), un jazzista sadico e violento (un mefistofelico J.K. Simmons) e una giovane moretta canadese di nome Nicole, insonne, annoiata, delusa, surreale, ma anche molto vendicativa.
Ecco gli ingredienti ghiotti, imperdibili, e che si riveleranno spesso emozionanti, presenti oggi alla Quinzaine des Réalisateurs. Una rassegna, continuo a ricordarlo, nata per protestare contro il conformismo e contro le regole preimpostate di un sistema, più che di un festival; tramutatasi col tempo nel trampolino di lancio dei migliori registi attualmente in attività (nella carrellata bellissima che ogni sera accompagna l'apertura della manifestazione, accanto a diapositive e coriandoli dei film più noti che hanno caratterizzato la Quinzaine dal suo inizio, si leggono nomi altisonanti degli autori che hanno contribuito e renderla gloriosa: nomi fondamentali come Fassbinder, Kitano, Loach, Leigh, Kawase, Bong Joon-ho, Kaurismaki, Penn, Ming Liang e molti ancora); ma la Quinzaine è pure sempre più spesso il luogo di rifugio e sicurezza per grandi registi affermati, che vi trovano rifugio quando non vogliono o non possono presentare nello sfarzo dei riflettori mondani la loro opera, magari intimista o piccola, personale, quasi privata, e preferendo in suo luogo la cinefilia pura e riservata al tappeto rosso vermiglio, impudico e sfacciati: la sostanza intrinseca alla forma e alla maniera, l’aprirsi agli estimatori veri, per negarsi al mondo degli scoop e dello sfarzo fine a sé stesso.
Coppola con lo splendido Tetro, Friedkin con l’inquietante Bugs, ma ancora Jodorowski, Ruiz, e dopodomani persino Tobe Hooper con una visione scintillante e restauratissima del suo indimenticabile “Non prite quella porta”, sono ripartiti o ripartiranno dalla Quinzaine senza pentirsene, mostrando coraggio e voglia di farsi apprezzare per quello che si ha da raccontare o da comunicare. Fra questo folto gruppo di gloriosi cineasti, quest'anno possiamo contare sul nome altisonante, solido come un macigno, ma che sa anche mostrare quando occorre il suo lato più intimo e sincero, di John Boorman (Duello nel Pacifico, Un tranquillo weekend di paura, Zardoz, Excalibur, La foresta di smeraldo, Anni '40, per citare i titoli più noti).
I protagonisti di Queen and Country: da sinistra Callum Turner, Vanessa Kirby, Caleb Landry Jones
John Boorman ed il cast dei protagonisti di Queen and Country
John Boorman in sala al Palais Croisette
Una doverosa, inevitabile ovazione in sala accoglie il gran regista che sale, non senza una certa fatica, sul palco illuminato a giorno: i flash e i fotografi sono tutti per lui e per i suoi tre freschi interpreti: l’esordiente fascinoso Callum Turner, il semi-divo Caleb Landry Jones (Antiviral, Byzantium) e la bellissima e statuaria Vanessa Kirby. Io per l’occasione guadagno finalmente un posto favorevole in prima fila e da questo riesco a farci uscire pure un paio di foto decenti.
Con QUEEN AND COUNTRY Boorman riprende il racconto, altamente autobiografico, di una giovinezza che passa dall’infanzia ed adolescenza del lodato e arguto “Anni 40”, agli ardori delle soglie del traguardo del primo ventennio di vita vissuto con trasognata spensieratezza dal diciannovenne Bill Rohan; un ragazzotto della buona borghesia inglese che passa i suoi giorni tra la noia, le nuotate nel lago, la passione cinefila e l’attesa snervante della chiamata alle armi.
Quando finalmente viene reclutato, stringe amicizia col bizzarro e simpatico Percy, complice di tante smargiassate e scherzi irriverenti e a volte pesanti rivolti contro una dirigenza ottusa e mentalmente rigida e conformista. Ma quando i sogni di gloria ed onore per la partenza in missione nella guerra di Corea tramontano, essendo i due giovani destinati più banalmente a prendere parte ad una scuola di istruzione per reclute in qualità di insegnanti, ecco che scatta nei due giovani la scintilla per organizzare una complice e organizzata ribellione contro i rigidi e anacronistici sistemi organizzativi della vita militare, mentre al fronte i loro coetanei arruolati a forza tornano a casa mutilati o in una bara. Amicizia virile, complice e costellata di mille bizzarrie, quella che nasce quando l’energia e l’esuberanza della giovinezza sconfiggono le tenebre di una violenza ed una aridità mentale che la guerra sempre alimenta e spinge alle sue forme più aberranti.
Queen and Country si nasconde e trova riparo dietro l’energia e la spigliatezza dei suoi interpreti, effervescenti sino all’impudenza e guidati dall’istinto irriverente proprio della giovane età verso la scoperta dei primi amori, e per questo indotti a vivere con impeto incosciente e ottimista anche le storie d’amore più impossibili (quella del protagonista con una “ancella” della regina, così in incognito da farsi chiamare Ophelia, o quella dell’amico Percy verso la sorella libertina del suo migliore amico e protagonista), e ha la sensatezza di fermarsi sempre un attimo prima di arrischiarsi verso il macchiettismo puro e semplice che ne affievolirebbe il valore. Ne esce un film vitale, ironico e assai sentito, che riflette il contrasto tra la scellerata ma vitale sconsideratezza dell’istinto giovanile che si batte ed affronta orgogliosamente le vuote formalità di un esercito burocratico e farraginoso, le vuote prese di posizione dei suoi più autorevoli e capricciosi volubili rappresentanti, i voltafaccia sconcertanti dei falsi amici che sono pronti a tradire le confidenze più intime pur di salvarsi dalla trincea e dai suoi massacri.
Un cast eccezionale di grandi attori britannici (Sinead Cusak, Richard E. Grant, David Thewlis e molti altri) fanno da perfetto e robusto corollario ad un trio di giovani freschi interpreti motivati e brillanti. Un caloroso applauso di una sala gremita congeda il grande maestro, indubbiamente il personaggio di spicco e più autorevole di questa edizione.
VOTO ***1/2
Rientro a fatica in sala, accontentandomi delle retrovie della galleria (e dalle foto noterete purtroppo solo indistinte figure in lontananza…ahh ci fosse l’amico Port Cros munito del suo efficace zoom integrato al cellulare!!!) perché la coda e l’attesa per WHIPLASH, fresco vincitore di due premi al Sundance, è lunga e fremente. E non senza un motivo preciso perché il film di Damien Chazelle incendia letteralmente la sala, impegnata a fine proiezione a risarcire il regista e il fantastico interprete J.K. Simmons - intento con tutto se stesso ad impersonare un esaltato e sadico direttore d’orchestra di un complesso jazz in via di definizione - del suo più lungo ed entusiastico applauso da parte del folto pubblico fino ad ora registrato.
Andrew è al primo anno di college ed è un grande appassionato di jazz, desideroso di sfondare come batterista e divenire un musicista famoso. Sulla sua strada capita per caso Terence Fisher, uno dei più apprezzati e temuti jazzisti, noto per i suoi metodi brutali e per le devastanti conseguenze psicologiche sugli allievi, frutto deviato del suo stravagante metodo valutativo, ai danni sulle menti più fragili degli aspiranti musicisti suoi allievi. In poco tempo Andrew ne diventa succube in quanto il maestro, intravedendo in lui doti notevoli e fuori del comune, (egli cerca invano di trovare il nuovo Charlie Parker, il nuovo “Bird”) lo assoggetta ad un training massacrante sia fisicamente che psicologicamente. Fino alla resa dei conti che riequilibrerà rapporti tra il cacciatore e la sua vittima.
Forte di due interpreti davvero eccezionali, un Miles Terrer giovane e sempre più in ascesa che alterna con saggezza produzioni indipendenti come questa (dopo un esordio quasi bambino con lo scabroso Rabbit Hole e la Kidman, e forte di interpretazioni intense come in The Spectacular now), a blockbuster roboanti alla Divergent, e che qui eccelle sino quasi a rischiare di gigioneggiare nel tratteggiare il complesso calvario del suo determinato e dotato protagonista. A fargli da perfetto contraltare quel J.K. Simmons caratterista ottimo in mille altri film, e attore feticcio dei Coen. In una sala fremente fino alla esaltazione le ovazioni sono tutte per lui e tutte davvero meritate.
VOTO ****
Al calar delle tenebre una coda più discreta attende paziente ed un po’ affaticata, in riga come soldati sbocconcellando il panino gelido e precocemente invecchiato prudentemente acquistato la mattina al momento della frugale colazione, l’ultima proiezione della serata, che vede protagonista il piccolo film canadese in bianco e nero “TU DORS NICOLE”.
Filmino, certo, ma pur sempre una gradevole opera prima, come sospesa in una bolla di sapone che tutto racchiude ed ovatta lungo il corso di una tranquilla e calda estate. Nicole è sola nella bella casa dei genitori, in quel momento vacanza. Decide di invitare nella villa di famiglia la ragazza che frequenta, Veronique, per trascorrere con lei intensi momenti di relax e per chiarire gli sviluppi di una relazione non ancora molto messa a fuoco. Peccato che proprio in quel frangente si presenti in casa il fratello di Nicole con la sua ingombrante band di musicisti, con il proposito né pianificato né tantomeno condiviso con la sorella di fermarsi qualche giorno per esercitarsi indisturbati per un concerto imminente. I piani della laconica Nicole, che soffre di insonnia e vaga tra il giardino e la casa come un automa, mutano completamente.
E quando le attenzioni di un affascinante amico musicista del fratello sembrano rivolte verso di lei tanto da farle in parte rimettere in discussione scelte e identità sessuali ormai credute come definite, il sonno a lungo rimandato impedirà a Nicole di evitare di perdere entrambi gli epicentri della propria attrazione sessuale; ma non di reagire con una inaspettata irruenza a lei fino ad ora poco consona o difficilmente preventivabile, come reazione d’impulso a quel devastante tradimento. Piccolo, piccolissimo film curioso più che bello, laconico e poetico, sospeso e riflessivo, opera d’esordio che mette in risalto il debuttante Stephan Lafleur, di cui è probabile che sentiremo parlare negli anni avvenire.
VOTO ***
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