Passata la calma della prima giornata, contraddistinta da un esiguo numero di pellicole, il Festival di Cannes aumenta i film mostrati e da 7 titoli si passa a 10, grazie anche all’inizio delle proiezioni del Fuori Concorso. La competizione ufficiale schiera, come al solito, due lungometraggi, seguiti a ruota dai 3 del Fuori Concorso, dai 2 della sezione Un certain regard, dai 2 per la Quinzaine e dall’unico titolo della Semaine.
Vediamoli nel dettaglio:
CONCORSO
THE CAPTIVE
Da poco nelle nostre sale con Devil’s Knot, Atom Egoyan ha già pronta la sua nuova fatica, un thriller psicologico che attraverso tre storie intrecciate indaga su temi attuali come la pedopornografia e il crescente uso di sistemi di videosorveglianza. Girato tra gli invernali paesaggi del Canada, secondo Egoyan The Captive è «un thriller incentrato su una giovane ragazza che viene rapita e che otto anni dopo escogita un piano per fuggire. Lei si chiama Cassandra in riferimento alla figura della mitologia greca che si esprime per enigmi ed è in grado di vedere nel futuro. In The Captive, Cass fornisce al padre Matthew un indizio in forma di enigma, che solo lui può decifrare. Questo è l’unico modo che può garantirle la possibilità di fuggire finalmente dalle grinfie del suo rapitore. Ma Cass non è l’unica captive, prigioniera, della storia».
WINTER SLEEP
A tre anni di distanza da C’era una volta in Anatolia, torna in concorso il turco Nuri Bilge Ceylan, che ormai a Cannes ha legato il suo nome, conquistando premi per ognuno dei tre film finora presentati. Ancora una volta sullo sfondo di un Anatolia rurale e remota, Winter Sleep è stato girato nell’arco di 14 settimane d’inverno in Cappadocia con una Sony F35 e ha avuto un lungo processo di post-produzione, che ha portato a 196 minuti complessivi di film per una storia di vecchi rancori familiari con al centro un ex attore divenuto piccolo albergatore.
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FUORI CONCORSO E PROIEZIONI SPECIALI
DRAGON TRAINER 2
Sempre più lontano dal cinema commerciale e dal mondo di Hollywood, il festival quest’anno ha lasciato poco spazio ai blockbuster americani. Particolar attenzione, però, è stata rivolta al lungometraggio d’animazione Dragon Trainer 2 di Dean Deblois, seguito di quel Dragon Trainer che si è rivelato un successo soprattutto in homevideo. Amicizia, famiglia e fratellanza, ne sono ancora una volta i temi fondamentali, anche se in Italia toccherà aspettare la fine dell’estate per vedere sullo schermo le avventure di Hiccup e Sdentato alle prese con vecchi e nuovi personaggi di contorno.
EAU ARGENTÉE
Gran parte delle rivolte e ribellioni in Siria sono state filmate da giovani che hanno caricato i loro video amatoriali su YouTube, trasformandosi loro malgrado in giornalisti e mettendo in pericolo le loro esistenze. Dall’unione di due registi amici ha preso poi forma un documentario che, filmando la distruzione della città di Homs, rende omaggio a tutti coloro che hanno dato la vita per amore della Siria. Racconta il co-regista Ossama Mohammed: «Noi registi siriani abbiamo sempre voluto includere il cinema nelle scuole e nei loro programmi per i bambini. E improvvisamente un giorno Wiam Simav Bedirxan, una donna meravigliosa, mi ha chiesto di mandarle qualcosa che aiuti a salvare le anime del nostro popolo dopo l’uccisione di un bambino. E le ho mandato un film di Chaplin. Tempo dopo, Simav mi ha raccontato di aver mostrato il film ai bambini, che grazie a quella visione hanno vissuto un momento di gioia pura. Verso la fine di Eau argentée, il modo in cui il piccolo Omar passeggia tra le rovine di Homs ricorda Chaplin. Omar è solo ma inventa un dialogo con il padre, rimasto ucciso, e si trasforma nell’incarnazione del futuro della Siria».
RED ARMY
Per capire il presente occorre sempre studiare il passato. Da questa condivisibile massima è partito il regista di origini polacche Gabe Polsky (che ha alle spalle un riuscitissimo The Motel Life, presentato al Festival di Roma) per andare sulle tracce dell’Armata Rossa. Non l’esercito, come tutti possono essere portati a pensare, ma la squadra di hockey sovietica, la cui storia riflette il clima sociale, politico e culturale, che l’ex URSS ha vissuto nel tempo. Grazie all’aiuto di produttori coraggiosi come Wim Wenders, Polsky ha voluto rendere omaggio alle sue origini: «Sono cresciuto negli Stati Uniti ma sono figlio di immigrati sovietici che raramente parlano del loro passato. A sei anni ho avuto il mio primo paio di pattini e ho fatto parte di una squadra di hockey fino al college. Negli Stati Uniti, l’hockey si basa più sulla conquista piuttosto che sulla crescita dei giocatori ma a 13 anni ho avuto la fortuna di far parte di una squadra allenata da un mister proveniente dall’Urss. Filosofia e metodi di allenamento del coach erano rigorosi ed insoliti ma ha incoraggiato la creatività di ogni singolo giocatore e ci ha invitato a pensare come una sola unità. Nessuno a Chicago lo ha preso sul serio».
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UN CERTAIN REGARD
LA CHAMBRE BLEUE
Mathieu Almaric per la sua dodicesima prova – tra corti, documentari, film tv e lungometraggi – da regista ha scelto di adattare un romanzo di Georges Simenon, lo scrittore belga più letto al mondo. Con una struttura a mosaico che ha reso il montaggio particolarmente complicato e con immagini in formato 1:33, La chambre bleue ha un ritmo molto frenetico e costante che però lascia volutamente molte domande senza risposta certa, come ribadisce lo stesso Almaric: «Nel romanzo di Simenon il protagonista è davvero una vittima volontaria. Io ho cercato invece di modificare il più possibile questo aspetto. Ho voluto che il piacere del dubbio fosse sempre costante: si dubita prima di lui e poi sul fatto che anche lei possa non essere colpevole. Anche in Simenon ritorna spesso l’idea che gli amanti potrebbero essere innocenti. Per la sequenza del processo, poi, ho reso nel mio piccolo omaggio a Fritz Lang e al suo L’alibi era perfetto».
AMOUR FOU
Classe 1972, Jessica Hausner è di certo la più talentuosa delle registe europee della sua generazione. Tre film all’attivo (due presentati al Regard e uno in competizione a Venezia), la Hausner porta a Cannes la storia in piena epoca romantica del suicidio del poeta Henrich von Kleist, avvenuto nel 1811. Attenzione, però: non si è di fronte a un dramma in costume ma a quella che la Hausner ama definire come una “commedia romantica”. Sono le sue stesse parole, poi, a spiegarne la genesi: «Inizialmente non pensavo di realizzare un lungometraggio sul suicidio congiunto di Heinreich von Kleist e della cugina Henriette Vogel. Circa dieci anni fa, avevo scritto un soggetto su un doppio suicidio per amore ma mi è da subito apparso per niente realistico e troppo costruito. Cinque anni fa, l’ho ripreso in mano e il caso ha voluto che su un magazine leggessi un articolo dedicato a Kleist e alla Vogel. Mi ha colpito come Kleist avesse cercato qualcuno che volesse morire con lui, individuando questo qualcuno in Henriette, sua migliore amica e cugina. L’ho trovato un po’ grottesco: egli aveva questa idea romantica ed esagerata del doppio suicidio, che da un lato rasentava la banalità e il ridicolo. Questo era ciò che mancava nel mio vecchio soggetto: l’ambivalenza di ciò che noi conosciamo come amore».
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QUINZAINE
CATCH ME DADDY
L’esordio alla regia dell’inglese Daniel Wolfe (con alle spalle una lunga gavetta nel mondo degli spot e dei videoclip musicali) cita Janis Joplin nel titolo per raccontare la storia di Laila, una ragazza in fuga dalla famiglia insieme al fidanzato. Nascosta nei calanchi dello Yorkshire dell’ovest, Laila sarà chiamata a lottare per la sopravvivenza quando il fratello e la sua banda di cacciatori di taglie arriva in città. Con ritmo serrato e sequenze spesso avvolte dalla nebbia, Wolfe confeziona un thriller viscerale e dai richiami western, che si conclude con una violenta resa dei conti che mette faccia a faccia vittime e carnefici e ribalta le convenzioni di genere.
GETT: THE TRIAL OF VIVIANE AMSALEM
Da tempo I fratelli Ronit e Shlomi Elkabetz indagano tra i meandri dell’universo ebraico, di cui sono rappresentanti. Coccolati soprattutto da Venezia, a Cannes ritornano per la seconda volta presentando un’opera che racconta delle difficoltà che una donna incontra nel chiedere la separazione dal marito di fronte al tribunale (maschilista) ebraico. Un’opera dura e allo stesso tempo grottesca, come spiegano gli Elkabetz: «L’essenza di questa storia è tragica ma il suo sviluppo è assurdo e talvolta ridicolo. L’umorismo nasce dal contrasto. L’esistenza della legge ebraica che vincola le unioni è assurda. Noi stessi facciamo fatica a credere che nel 2014 nella nostra democratica società una donna debba essere considerata proprietà del marito. E troviamo che ci sia qualcosa di assurdo anche nell’ostinazione dei giudici rabbinici che, per risparmiare tempo, provano a confondere la protagonista, la denunciante, e ad invitarla a desistere dalle sue volontà per evitare un’ennesima “catastrofe”».
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SEMAINE
SELF MADE
Shira Geffen, regista israeliana vincitrice della Camera d’Or insieme al marito Etgar Keret con il film d’esordio Meduse, presenta la sua opera seconda Self Made ancora una volta alla Semaine. Trattando la storia di due donne intrappolate dal caso l’una nella vita dell’altra, la Geffen torna ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, traendo liberamente spunto da un fatto di cronaca: «Dieci anni fa, ho letto la storia di una donna palestinese di Betlemme mandata a compiere una missione kamikaze, dopo che l’esercito israeliano le aveva ucciso il fidanzato. Quando arrivò sul luogo dell’esplosione, un centro commerciale israeliano, l’aspirante attentatrice vide altre donne intente a far shopping e bambini giocare, decidendo di non portare a termine il suo compito. La sua storia mi ha spinta ad interrogarmi sul come le scelte di morte possano evolversi in scelte di vita influenzando tutto il resto».
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