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COS' E' TSAHAL

 

Claude Lanzmann

Le dernier des injustes - L'ultimo degli ingiusti (2013): Claude Lanzmann

 

TSAHAL è un esercito celebre, nato in seguito a circostanze storiche che hanno segnato il secolo scorso con un marchio d’infamia, la SHOAH del popolo Ebraico.

Claude Lanzmann ha dedicato gran parte dei suoi anni e del  lavoro di cineasta alla documentazione della storia ebraica e israeliana, quello che appare nelle quasi cinque ore di questo docu-film è innanzitutto una lezione di metodo e di stile, per l’originalità nel modo di affrontare una materia tanto rovente, l’efficacia nel sottrarla al rischio dell’agiografia e della mistificazione, la forza che induce a guardare e porsi domande.

L’esercito è un’istituzione centrale per lo Stato d’Israele, Lanzmann vuol farcene capire la ragione, non racconta le guerre ma immerge lo sguardo fra gli uomini che le hanno combattute, nelle loro paure e nell’orgoglio, nei ricordi famigliari e nelle storie attuali, nelle condizioni di vita di civili pronti a vestire una divisa ogni volta che sia necessario e di giovani che a 18 anni sanno che prima di ogni altra cosa serviranno la Patria, e spesso anche in guerra.Nel film ci sono le voci dei militari che hanno combattuto in più di una delle cinque grandi guerre che in 46 anni Israele ha affrontato e quelle degli intellettuali del dissenso come Grossmann, Oz, Feldman, che non conoscono mezzi termini nell’esprimere le loro idee.Nessun filmato storico in TSAHAL, come in SHOAH, i tank  che si muovono alzando nuvole di polvere e sabbia appartengono a sezioni di  addestramento.Senza ordine apparente si susseguono uomini a parlare e le riprese si spostano continuamente di location, deserto e mare, città e insediamenti in Cisgiordania, interni di aule di addestramento dell’Air Force e check point di frontiera per il controllo dei visti d’ingresso.Eppure, progressivamente, si delinea un quadro fortemente coeso, nella post-visione l’impressione prevalente è di un affresco di grande maestria, che va molto oltre gli steccati ideologici, mai corrivo, sempre molto problematico, non sempre formalmente impeccabile per qualche lungaggine e per la materia stessa a volte ostica, eppure mai stancante.

Israel Defense Forces, IDF, è l'altra sigla di un film che guarda con cura rigorosa il fenomeno. Prima di addentrarsi nel filmato val la pena ascoltare ancora le parole del regista, che meglio di chiunque rende ragione delle sue scelte:

 “La lezione che ho tratto dalla rivolta di Sobibor ( v. tag Sobibor, 16 heures) è la necessità della riappropriazione della forza da parte degli ebrei. Yehuda Lerner, un uomo non violento, si scoprì violento. L’Olocausto non fu solo un massacro di uomini innocenti, ma di esseri umani indifesi. Non ho mai pensato che gli ebrei si fossero lasciati condurre come pecore al mattatoio. Hanno fatto ciò che hanno potuto. Che una persona come Lerner, che prima di allora non aveva mai pensato di porre mano alle armi, ha molto a che fare con le radici dello Stato ebraico odierno.Credere che i nazisti avrebbero salvato gli ebrei perché non avrebbero potuto fare a meno del loro lavoro e delle loro competenze: avranno bisogno, pensavano, di pellicciai, di odontoiatri… A Vilna tutti gli odontoiatri erano ebrei e tutti furono uccisi fin dal primo giorno. Sono più spaventato dalla debolezza che dalla forza dello Stato d’Israele, perché resta uno Stato circondato da nemici. E i nemici di Israele hanno la possibilità di armarsi fino ai denti e farlo liberamente. Quando i ‘martiri’ si fanno esplodere a Gerusalemme, Tel Aviv, Netanya, Haifa, nelle discoteche, nei mercati, nei bus, nelle sale dei matrimoni e comunioni, nelle Sinagoghe, rapidamente l’evento diventa routine. Gli Israeliani devono pagare con le loro vite per il semplice fatto di vivere in Israele. Prima del 1948 l’Europa era disposta a concedere agli Ebrei solo un fazzoletto di terra per costruirvi un cimitero con le tombe e i cippi assiepati. Gli ebrei se la sono dovuta prendere, una terra. Israele non ha patroni, nessun soldato americano ha versato il suo sangue al posto di un soldato israeliano” (cit. da Il Cannocchiale blog, Viaggio nella notte negazionista)

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Unico trailer reperibile ed esportabile, in tedesco e di scarsa qualità per la fruizione.

Altri repertori filmati di documenti sull'esercito israeliano sono spesso inutilizzabili perchè viziati da interventi impropri che non corrispondono a fini documentaristici di indubbia serietà e correttezza

 

 

Legenda:

Il racconto del film è diviso in tre parti, ognuna suddivisa in paragrafi preceduti da un titolo che ne riassume il contenuto più significativo.

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INDICE dei paragrafi della prima parte:

1. La paura della morte è naturale

2. Sequenze da Yom Kippur

3.La Shoah è l’origine di tutto questo.

4.La guerra del Kippur mi ha dimostrato che era falso…

5.Avevo paura, ho sempre avuto paura. Sono un paracadutista

6.Il sentimento naturale d’impotenza

7.Max Maman

8.Giugno ’67: copertina di LIFE “Israeli soldier cools off in the Suez Canal”

9.La famiglia Goldlast

10.Giovani sui tank

11.I Merkava

12. Uomini-torcia 

13.La seconda fase della guerra del Kippur

14.Ci battiamo per l’esistenza stessa della nazione ebraica

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 La paura della morte è naturale

guerra di Yom Kippur, ottobre 1973

Lanzmann ascolta registrazioni dal campo di battaglia con Avi Yaffe, riserva, sergente:

Aveva paura?

Com’è questo sentimento? Ginocchia deboli? Farfalle nella pancia? Sudore freddo? 

Sono cose che non si spiegano, le mani tremano, ma questo passa, ognuno reagisce a modo suo, per alcuni sono trenta secondi, per altri alcuni minuti, per altri dura tutta la vita.La paura è naturale.

La paura della morte?

La paura della morte, sì. La gente non vuol morire, anche quelli che dicono di non aver paura.

Sequenze da Yom Kippur

Lo schermo, di un buio totale, s’illumina di spari, flash di luce disegnano sagome di carri armati.

Io non pensavo in questo modo alla mia vita. Sopravvivere non era così importante. Tuttavia mi sono ritrovato vivo, ed è stata una sorpresa. L’idea di vivere, non di morire, non ha niente di naturale dopo una guerra come Yom Kippur. Bisogna decidere di vivere, è uno sforzo. Io ho una possibilità perché sono sopravvissuto, ma non è veramente una possibilità, perché la maggior parte dei miei amici, il 90% è stata uccisa.

Chi parla è Yuval Neria, riserva, aiutante colonnello nella guerra di Suez.Ha visto morire quasi tutti i suoi compagni, giovani di venti anni, e allora si chiede:

Tu sei il solo ancora vivo, cosa te ne fai? Sei da condannare? Sei colpevole? Se sono stati uccisi è perché non hai fatto qualcosa?Che fare dei tuoi sensi di colpa? Dei tuoi ricordi? E quando parlo di distruzione, parlo di un’intera generazione”.

Un cimitero di lapidi bianche, Meir Wiesel, maggiore della riserva, legge l’età dei morti: 20, 19, 19, 25, 18, 20… Ancora Yuval Neria:

Nell’ottobre del ’73, in dodici giorni, quasi tutti i miei soldati, i miei amici, sono stati uccisi o gravemente feriti. E’ stato come un grande fuoco che ha bruciato la società israeliana e l’esistenza stessa di Israele nel corso di questa guerra.E’ sempre doloroso, è come un buco, non solo nella mia psiche ma in quella di Israele. E’ come una visita all’Inferno e ritorno. Ritorno a Tel Aviv. Che vuol dire ritorno a Tel Aviv? Era il caos, prendere la decisione di ricominciare a vivere… Potevo restare al buio, in una condizione di lutto, di depressione, di colpa. In qualche modo fare mia l’idea di essere responsabile di quella realtà… ero molto giovane allora, ventun’anni, un bambino…

La Shoah è l’origine di tutto questo

Una nuvola di polvere si alza dall'altura sullo sfondo, un carro armato attraversa veloce il crinale da destra a sinistra, si vede solo la torretta, il resto è il colore del deserto in gamma degradante dalla macchia scura delle montagne all’ocra polverosa in primo piano. Una voce, è Avigdor Kahalani, riserva, brigadiere generale:

Mio padre ha fatto la guerra d’Indipendenza, poi quella del ’56, la guerra del Sinaï. Poi insieme abbiamo fatto la guerra dei 6 Giorni e ancora la guerra del ’73. I suoi tre figli erano con lui, tutti insieme nel ’73.Uno dei miei fratelli si era sposato dieci giorni prima ed è stato ucciso durante la guerra del ’73.Qualche giorno dopo il comandante ha detto a mio padre: “Torna a casa”. Lungo tutto il cammino, dal Sinaï a Ness Ziona, ha pianto.Sapeva che uno di noi era stato ucciso, ma non sapeva chi, pensava fossi io. Lungo tutto il cammino, dal Sinaï a Ness Ziona, non ha mai smesso di piangere. Quando è arrivato a casa ha chiesto “Quale?”. Mio padre è caduto il 9 ottobre. Era un martedì. Quando io combattevo nel Golan, l’ultima battaglia di difesa, mio padre disse al mio comandante di avvertirmi della morte di mio fratello. Il comandante non mi disse niente. Secondo la legge d’Israele, se un membro della famiglia muore tutta la famiglia deve smettere di combattere e rientrare. E’ una legge scritta e viene dalla nostra esperienza. Dei soldati furono uccisi e la famiglia restò senza discendenza.

La Shoah è l’origine di tutto questo. A volte è il sangue che detta le leggi. Sacrifica la tua vita, ma che la famiglia continui!

La guerra del Kippur mi ha dimostrato che era falso…

…dice Zvika Greengold, riserva, aiuto colonnello.

Era falso credere a quello a cui credeva prima della guerra, che Israele fosse “… una realtà indiscutibile, una realtà che nessuno avrebbe potuto distruggere. Le famiglie di mio padre e mia madre erano nel ghetto di Varsavia, e noi non sappiamo come siano morte. Quattordici bambini dalla parte di mia madre e solo tre sopravvissuti alla Shoah. Della famiglia di mio padre, quattro bambini, è sopravvissuto solo lui. Il legame con questo passato è importante per una nazione che ha aperto un nuovo capitolo nella storia ebraica.”

Zvika è nato nel 1952 nel kibboutz più fiorente fra tutti, che ha un nome, Lochamei HaGeta’ot, che significa “dei combattenti di Varsavia”. Con gravità semplice e schietta dice di aver sempre avuto un terribile senso di responsabilità rispetto al suo popolo, sentendo di appartenere come gli altri a famiglie distrutte, rifugiate e molto provate, eppure ancora capaci di costruire.

Sentivo di essere l’ultima barriera tra i Siriani e il territorio d’ Israele. Ricordavo la Shoah e quello che è accaduto al popolo ebraico quando era senza armi, senza alcuna possibilità di difendersi.

 

Avevo paura, ho sempre avuto paura. Sono un paracadutista

Il nastro del registratore gira e tornano voci e schianti da quella guerra. Avi Yaffe non si vergogna di confessarlo:

Erano troppi, troppi  uomini, troppi Egiziani, noi eravamo così pochi… Erano arrivati anche dei non combattenti, non sapevano che fare, gente del “rabbinato militare” per aiutarci a pregare. C’erano dei tecnici, non combattenti, bisognava calmarli. Tutto era perfetto, ma noi eravamo soli.

Una strada tesa come un nastro scorre lungo il Canale di Suez, sabbia e radi cespugli ai lati, cielo e sole del deserto in alto. Una jeep fa strada e Avi parla dei bunker, erano 17, lungo la linea del canale, una ventina di uomini in ognuno alle prese con migliaia di Egiziani.Lui aveva uno studio di registrazione da civile, e così ha registrato tutto anche lì, convinto che nessuno sarebbe sopravvissuto.

Il sentimento naturale d’impotenza

Yuval Neria riprende la parola, fra tutti i testimoni è il più lucido e amaro, parla di come fosse stato fatto crescere in loro un senso di onnipotenza dalla guerra dei 6 Giorni. Ricorda Moshe Dayan che diceva: “Noi possiamo sostenere tutti gli attacchi egiziani o siriani, siamo coriacei, soprattutto nei blindati, nessuno può vincere i tank israeliani”

Il mito dell’invincibilità… e le urla della fanteria dentro i bunker? e i missili anticarro egiziani che distrussero tutti i tank?  Il motto era Tnuah VeEsh, movimento e fuoco, avanti, senza smettere di tirare, fino al Cairo, Damasco, Mosca …Forti come Pegaso, senza arrestarsi … Il trauma, credersi Pegaso e confrontarsi con morte e distruzione … Il sentimento naturale è che siete impotenti.

Max Maman

E’ una voce dall’oltretomba quella di Max Maman. Registrato da Avi, urla dal bunker che gli mandino rinforzi, artiglieria, tank.

Ci hanno accerchiato, ci sono addosso, senza soccorsi è la fine”. Nessuno ha potuto aiutarlo. Ascoltiamo il suo grido tra i fruscìi del vecchio registratore, lo schermo è nero, a destra in alto c’è una luna piena e rossiccia, immobile.

Giugno ’67: copertina di LIFE “Israeli soldier cools off in the Suez Canal”

Un soldato israeliano si rinfresca nel canale…”

“Interpretazioni di foto ce ne sono tante nella nostra storia - dice seduto dietro la scrivania Yossi Ben-Hanan, generale maggiore - ricordo, era sabato, ultimo giorno di guerra, vicino al ponte El Firdan sul Canale di Suez. Quando ho appreso per radio che era stato dato il “cessate il fuoco” verso le 10 del mattino, con un gruppo di soldati abbiamo lasciato carri e jeeps e siamo andati di corsa verso il canale. Dall’altra sponda ci hanno visto gli Egiziani, erano a 120 metri da noi, e subito un gruppo di tre fotografi è spuntato. Avevano una jeep dietro la prima linea di carri. Io e un altro soldato ci siamo tuffati in acqua e un fotografo ha scattato parecchie foto.

Eravamo contenti perché la guerra era finita e ora toccavamo lo scopo finale di questa guerra: il canale. Lasciamo l’interpretazione di questa istantanea a chi vuol interpretarla.”

Facile leggere in quell’immagine la protervia dell’occupante, dell’Ebreo usurpatore. Forse invece era solo la gioia traboccante di vedere che la guerra era finita, “The War is over “ poteva essere un commento più appropriato, e quello della foto “era il sorriso di un giovane soldato che non sapeva nulla di quello che sarebbe accaduto e avrebbe voluto lasciare la vita militare dietro di sé.”

La famiglia Goldlast

Ancora deserto e polvere, sfilano cigolando sette carri in assetto da guerra, ci vengono contro e alzano nuvole, il sole s’intravede perso in fondo, sull’orizzonte incerto. La voce racconta di un’odissea di bambini.I Goldlast, tipico nome ebraico, erano di Lodz, Polonia, famiglia nell’ industria tessile. Famiglia ricca, il padre capì cosa sarebbe accaduto, stretti nella morsa fra nazisti e russi, e partì con moglie e figli piccoli, 3 e 6 anni, per la Siberia, a NovoSibirsk. Qualche anno in campo di lavoro e la madre morì. Il padre, malato, riunì le ultime sostanze per pagare chi aiutasse i figli a lasciare la Siberia. Sconfinate distese bianche attraversano i ricordi di Yanush Ben Gal, mentre racconta la lunga strada che li ha portati in Israele passando per Bombay. Centinaia di bambini ebrei finirono lì, e si salvarono.Tentativo di passaggio in Iran diretti in Palestina nel ’42, fallito, successivo passaggio in Egitto e da lì in treno, verso la Palestina. Bisogna esser bambini per sopravvivere. Torna il colore ocra della terra d’Israele mentre il racconto prosegue. Questi erano “ i bambini di Téhéran” e furono messi in un kibbutz.

“Mi sentivo sradicato, mio padre era in Siberia, non ne sapevo nulla, non parlavo l’ebraico, solo  un po’ di polacco, inglese, russo, indu.”

Fuggirono dal kibbutz, Yanush e la sorella, poco più che bambini, e arrivarono a Tel Aviv.

“Decidemmo di fuggire, la solitudine non ci era sconosciuta, non avevamo paura di essere soli, di decidere per noi stessi e prendere in mano il futuro. Pensavamo come adulti, non come bambini. Entrai nell’esercito nel ’55, era la mia unica casa, ero totalmente solo, nessuno mi aspettava. Non so se sono dotato per i tank, ma so che è come se vi fossi nato.”

Giovani sui tank

E’ il momento dei tank, si muovono agili sulla pietraia del deserto, salgono e scendono superando i dislivelli con elastica  leggerezza cingolata, li seguono fitte cortine fumogene. Quando si fermano vediamo le facce sotto gli elmetti, sono ventenni.

Lanzmann, sornione, al carrista seduto sul cocuzzolo del tank con un bloc notes sulle ginocchia:

Come fai a crogiolarti su quella sedia come un pigro re di una volta?

Il ragazzo ha grossi occhiali e una faccia da studente più che da soldato, è istruttore ufficiali. Un carro spara, non doveva, è un errore, ma si può migliorare. I soldati rispondono alle domande, dicono che è un lavoro faticoso ma sono contenti, si sentono utili. C’è fra loro e i tank un rapporto confidenziale, li considerano parte di sé stessi, come un civile potrebbe pensare alla sua macchina.Nessun dubbio sulla loro supremazia rispetto a quelli americani, questi sono “nutriti”, è la parola che usa, dell’esperienza di guerra.Nessun fanatismo, però:

Deploro che si abbia tanta esperienza di guerra, ma…è così! conclude l’istruttore.

Lanzmann insiste con un soldato che sta facendo esercitazione:

Amate questi mostri?

Sì. Hanno un’anima

Hanno un’anima?

A questo punto Lanzmann lo lascia parlare, come sempre vuole che dalle parole emerga lo spirito profondo delle cose, non dirige mai nessuno verso tesi precostituite. Il giovane si esprime nei riguardi dei tank come si farebbe a proposito di un amico, di una donna amata…quello che dice rasenta l’irreale, ma quando termina dicendo:

Ho passato 5 anni su questo tank. E’ come la mia casa. Da 5 anni ho passato più tempo su questo tank che a casa mia. Ne conosco ogni minimo dettaglio, so dove trovare negli angoli ciò che mi serve…

a questo punto si riesce a non guardarlo come un fanatico della guerra e ci si chiede perché un popolo abbia bisogno di tenere i suoi uomini, giovani e riserve, per anni a vivere su quei mostri.

 I Merkava

Israel Tal, generale maggiore, sguardo deciso, passo elastico, in jeans e polo nera, uomo di mezza età, segue l’addestramento e parla con i suoi uomini. In un enorme capannone si costruiscono i famosi tank Merkava:

Non è mai stato facile per Israele procurarsi armi, quali che siano- dice Tal I moderni tank ci erano rifiutati, sistematicamente, dalle potenze mondiali quando i nostri nemici, gli Arabi, ottenevano e utilizzavano contro di noi tank ultramoderni e fiammanti, sovietici e occidentali. Noi eravamo con le spalle al muro, costretti a costruire i nostri tank e dotare il nostro paese di un’industria di blindati. E’ stata una necessità, non una scelta. I Merkava sono il frutto del genio d’Israele. Dopo la fondazione dello Stato d’Israele compravamo vecchi tank obsoleti della 2° guerra mondiale, i Centurion, che gli Inglesi ritiravano progressivamente. Noi li restauravamo e li miglioravamo, cambiavamo i cannoni, i motori. Tutti i tank della guerra dei 6 Giorni e della guerra del Kippur erano vecchi e restaurati. Quando la Gran Bretagna ci offrì di comprare una serie di vecchi Centurion per avere in cambio il carro dell’avvenire, lo Chieftain, allora in studio, noi abbiamo contribuito all’elaborazione del Chieftain con le lezioni apprese in combattimento.Fu allora che i paesi arabi  attaccarono le ambasciate britanniche, ma la Gran Bretagna non ci disse niente perché voleva che continuassimo a comprare i loro Centurion. Quando il progetto Chieftains fu abbandonato decidemmo di produrre i nostri tank. Nel ’70 il governo israeliano decise di creare un tank israeliano.Ecco com’è nata l’idea di Merkava. Nel 1979 erano pronti.

- Un giorno importante- commenta Lanzmann sorridendo.

-Sì, il Merkava non è solo un’arma, è una componente del potere militare ebraico che  protegge, assicura e garantisce la nostra stessa esistenza. Ora non dipendiamo più da nessuno.

Segue una lunga, dettagliata descrizione delle caratteristiche tecniche del tank  e delle sue straordinarie capacità tattiche.

Uomini-torcia 

Nell’ultima mezz’ora s’intrecciano ancora racconti di pace e di guerra. Torna Avigdor Kahalani, all’ inizio del film aveva interrotto per un attimo il suo racconto, sovrastato dal ricordo e dalla commozione, ora gioca a basket nel cortile di casa con i figli, anche loro futuri ufficiali. Ricorda il giugno del ’67, il suo tank fu il primo a superare il confine egiziano, lui aveva 23 anni:

non sapevo se avevo il diritto di distruggere case, uccidere… Dovevo essere io a decidere, bisognava caricare, caricare, non ci arrestavamo ... Avevo il sole negli occhi, ci fu un’enorme esplosione sul nostro carro, fu come un coltello piantato nella schiena. Tentai di fuggire, tutto l’equipaggio bruciava, urli… tentai di saltare fuori, ricaddi, una seconda volta, non riuscivo, avevo la certezza della fine, capii che non potevo uscire e stavo per morire, il carro era a fuoco… vedevo come pitture davanti agli occhi i miei genitori, i miei fratelli, mia moglie, ero sposato da un anno… ricordo che urlai “mamma, io brucio!” e con tutte le mie forze mi issai e saltai fuori dal carro. Ero come una torcia…

Con i Merkava, i tank di ultima generazione, spiega il generale, oggi questo non è più possibile, i carri resistono anche a temperature di 1000° ed ci sono sicure vie di fuga per gli equipaggi e la raccolta dei feriti. Racconti di uomini bruciati, mesi e mesi di ospedale, chirurgia plastica riparatrice e operazioni per anni e anni. Si chiama profilo 31 e significa “quasi morto”, dice la voce che racconta la sua odissea mentre un deltaplano si lancia libero nell’aria volando verso il mare.

La seconda fase della guerra del Kippur

Fu la più difficile e pericolosa, detta “guerra d’usura”- racconta Yanush Ben-Gal - non quella dell’ottobre ’73 ma i due anni passati sul fronte di Suez. Una guerra statica, senza possibilità di andare avanti, manovrare il nemico, una guerra basata sulla potenza di fuoco…il nemico sapeva tutto di noi e il gioco era resistere un altro giorno, mese, anno…una guerra senza inizio né fine per un esercito abituato a campagne brevi, avanzate e assalti, una guerra senza prospettiva di pace.

Segue la breve storia di un mese di congedo per il suo matrimonio, ben presto interrotto per un precipitoso ritorno sul fronte. Il comandante che l’aveva sostituito era stato ucciso sul Canale, solo lui poteva risollevare il morale alle truppe e dunque da New York tornò in guerra e restò fino al cessate il fuoco. Brevi ritorni a Tel Aviv, ogni due mesi, sensazione di straniamento nel vedere che la vita scorreva normale mentre sul fronte erano in guerra, a trenta minuti di volo, lungo il Canale:

Era qualcosa che non riuscivamo a capire, noi soldati, come potevamo combattere, mangiare la merda, giorno dopo giorno, uccidere gli Egiziani e farci uccidere dagli Egiziani, aiutare i nostri amici feriti, accompagnare al cimitero i nostri morti e là, a Tel Aviv, era come gli ultimi giorni di Pompei. Forse non potevamo capirlo, ma forse è questa la forza della nazione israeliana. Questo forse non è normale, ma è quello che ci dà la forza di vivere in un paese così pazzo”.

Ci battiamo per l’esistenza stessa della nazione ebraica

“Yossi, è formidabile che tu sia arrivato! Parti immediatamente per il Golan”.

Anche Yossi Ben-Hanan ha interrotto il viaggio di nozze, il padre gli ha portato uniforme e armi all’aereoporto all’arrivo da Atene e via di corsa verso il Golan. Lì trova l’inferno, il suo secondo, ferito e fasciato, è fuggito dall’ospedale per tornare sul fronte e gli descrive l’orrore vissuto, la brigata è distrutta:

Li ho riuniti nell’hangar e ho improvvisato un discorso. Sono partito da Abramo per finire a Ben Shoham, capo della brigata ucciso.

Ho detto: “Sono partito dal Nepal ed ora sono qui, andiamo a vincere o a morire. Ricordate che ci battiamo per l’esistenza stessa della nazione ebraica, e per questo paese la situazione è molto difficile, so cosa avete sofferto e io non ero con voi, ma ora ci riorganizzeremo e con l’aiuto di Dio domattina andremo a vincere e a vendicarvi di quello che avete sofferto."

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Filmografia di Claude Lanzmann

 

SHOAH

Shoah parte prima

Shoah parte seconda 

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Shoah esodo

 

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SULLA QUESTIONE ISRAELO/PALESTINESE

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