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Maps to the Stars: Intervista a David Cronenberg
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Hollywood brucia. Non importa quello che dicono o che accade: l’apparenza copre l’essenza, l’illusoria felicità del successo cela fantasmi personali, la follia regna sovrana. Ha avuto modo di constatare tutto ciò in prima persona Bruce Wagner, scrittore di successo che da giovane – mentre tentava di sfondare come attore e/o sceneggiatore – ha lavorato come autista di limousine a Los Angeles, incontrando da vicino coloro che dalla fama erano stati baciati. Da quell’esperienza, è nata anni dopo la sceneggiatura di Maps to the Stars, film diretto da David Cronenberg che verrà presentato in concorso al prossimo Festival di Cannes prima di arrivare nelle sale italiane e francesi il 21 maggio. Dramma familiare da un lato e lotta contro i demoni interiori da un lato, Maps to the Stars incrocia i destini della stralunata famiglia dei Weiss con quello della ancor più tormentata attrice non più giovanissima Havana Segrand: ne viene fuori una spietata critica al sistema Hollywood, che David Cronenberg spiega meglio in un’intervista rilasciata a Serge Grünberg, suo intervistatore d’eccellenza, che essendo priva di crediti contrattuali (è allegata a una delle versioni del pressbook francese del film) ho deciso di riadattare e proporvi. Buona lettura. Ma attenzione: CONTIENE SPOILER.

Per chi volesse, inoltre, qui sono presenti le note di produzione: Maps to the Stars: Extra

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Intervista a David Cronenberg

David Cronenberg

Maps to the Stars (2014): David Cronenberg

È da tempo che aveva intenzione di collaborare con Bruce Wagner. Come vi siete trovati?

È noto che Bruce Wagner è uno scrittore di successo, che ha pubblicato dieci romanzi la cui maggior parte è ambientata a Hollywood o, in ogni caso, a Los Angeles. Siamo entrati in contatto quando ha pubblicato il suo primo romanzo nel 1991, un testo che ha provveduto personalmente ad inviarmi. L’ho trovato un libro fantastico e da allora non ci siamo più persi di vista. Per molto tempo, ho anche pensato di adattare quel romanzo al cinema e, cosa che in pochi sanno, abbiamo anche lavorato insieme su una serie televisiva chiamata Firewall. In sostanza, la serie era una sorta di Microsoft contro Apple, di Steve Jobs contro Bill Gates, ma i troppi limiti imposti dalle grandi emittenti interessate al progetto hanno finito per far morire il tutto sul nascere. È sempre la stessa storia: le modifiche e le imposizioni uccidono i soggetti. Avrebbe potuto essere una grande serie, chissà…

Quando poi Bruce ha scritto la sceneggiatura di Maps to the Stars, me l’ha fatta leggere ed ho pensato che fosse meravigliosa e perfetta da portare sul grande schermo. Ci abbiamo lavorato su, abbiamo cambiato alcune cose e abbiamo subito incontrato l’interesse di Julianne Moore. La gestazione del film è però andata avanti per quasi dieci anni: questo è il terzo film, dopo Inseparabili e A Dangerous Method, a cui lavoro così a lungo.

 

Con Maps to the Stars lei si avvicina per la prima volta al fantastico, sfiorando una storia di fantasmi.

Già, il fantasma di James Dean infesta per davvero il mondo… Nella sceneggiatura originale di Bruce c’era più di un fantasma ma ho voluto sbarazzarmene. Come sapete, ho una sorta di avversione filosofica ai fantasmi perché essi presuppongono una vita dopo la morte, un concetto alquanto religioso. Ed io sono contro ogni religione. Non c’è dubbio che io sia ossessionato dai miei genitori. Li vedo, li sento, li percepisco ma non credo che siano ovunque: sono semmai nella mia testa. Si tratta di qualcosa di inquietante e al tempo stesso positivo che nasce dall’amore. Ecco, accetto solo questo tipo di fantasmi: quelli che nascono dall’esperienza e dalla memoria. E i fantasmi di Maps to the Stars appartengono a questa sfera: sono spiriti legati alla memoria. Molte persone hanno conversazioni reali con i morti – io stesso ho avuto tale esperienza – ma ciò non vuol dire che accetti la definizione religiosa e tradizionale dei fantasmi. Avevo sfiorato l’argomento anche in La zona morta, dove il protagonista dovrebbe prevedere il futuro: è semplicemente uno psicotico o ha veramente quel dono?

 

Il fantasma della madre di Havana è del tutto reale: è un’attrice che continua a vivere sullo schermo e che perseguita la figlia, essendo diventata una sorta di icona.

Quel fantasma rappresenta l’insicurezza di Havana. È come se fosse la sua immagine riflessa in uno specchio, che le parla e che le mostra i segni della vecchiaia che avanza. Psicologicamente è molto credibile e funziona anche perfettamente. Bruce Wagner è stato molto comprensivo con le mie scelte: essendo egli stesso un regista, sa quanto importanti siano le scelte dell’autore. Pur essendo stato quotidianamente sul mio set, non ha mai interferito con le mie decisioni. A pensarci, è anche la prima volta che permetto ad uno sceneggiatore di seguire il mio lavoro così da vicino.

 

L’altro grande tema di Maps to the Stars è l’incesto.

Quello mostrato è un tipo particolare di incesto. Quando si parla di incesto, tutti pensano ai rapporti padre/figlia o madre/figlio e in pochi invece a quello fratello/sorella, soprattutto quando questo interessa due ragazzini. Il mondo del cinema per sua natura è abbastanza incestuoso, se mi si passa il paragone: si tratta per lo più di un piccolo gruppo di persone che si incontra in continuazione e che condivide gli stessi problemi. E Hollywood è una comunità ancora più piccola. L’incesto ad Hollywood è nel business, nella sensibilità e nella creatività. I risultati sono poi sotto gli occhi di tutti: i film degli studios più grandi non sono altro che il frutto, spesso deforme e con molti problemi, di un’unione incestuosa. In Maps to the Stars, c’è un dramma familiare ma è dentro una famiglia ben definita, che in qualche modo è la famiglia di Hollywood.

 

In Maps to the Stars c’è anche una riflessione su come Hollywood consideri come dei prodotti i giovani attori: è il caso ad esempio di Benjie, che a tredici anni è già consapevole del suo valore, un po’ come i faraoni d’Egitto.

È interessante il paragone con l’Egitto. I faraoni desideravano diventare divinità immortali, separando la realtà corporea dall’essenza. Quando Benjie incontra i produttori, si ha come l’impressione che questi desiderino che non esista più a causa dei suoi problemi. Loro preferiscono il Benjie star e non il Benjie problematico adolescente. Anche in questo caso rientra in gioco un fenomeno religioso: l’immagine (eterna) viene a poco a poco separata dal corpo (mortale). Un corpo muore ma la sua immagine no: James Dean è morto fisicamente ma la sua immagine è sempre viva. Lo stesso dicasi di Elvis e della sua musica, ad esempio.

 

Le situazioni descritte in Maps to the Stars sono crudeli, così come i suoi personaggi. La sensazione è però che lei non volesse realizzare un film crudele.

È possibile. Ho girato diversi film di paura ma questa volta la crudeltà è a un livello psicologico più realistico. Io ho l’impressione che in questo mondo, la crudeltà sia qualcosa di innato nell’animo umano. Ambizione, crudeltà e ipocrisia fanno parte del nostro dna: le persone si mostrano gentili, dolci e affettuose, ma una volta a contatto con l’ambizione risvegliano i loro lati crudeli e brutali. Agatha, ad esempio, ha tentato di uccidere il fratello ma sono tante le domande sul suo comportamento: è solo attratta dal fratello? O vuole esorcizzare qualcos'altro? Non lo sappiamo.

 

C’è anche una scena orribile in cui, alla morte di un bambino, Havana canta e balla.

Questa sembra essere l’unica scena del film in cui lei è davvero felice. Questa scena è davvero terrificante. Chi oserebbe ammettere una tale reazione? Temo però che sia molto umano. In un certo senso, non è colpa sua. E non prova alcun senso di colpa nel mostrare la sua gioia. Havana ha avuto tutto dalla vita: vive in una bella casa, ha una bella macchina, una carriera ben avviata. Somiglia a tutte quelle attrici di Hollywood che, una volta superata la quarantina, cominciano a chiedersi se saranno in grado di mantenere inalterato il loro stile di vita. Il suo desiderio più grande è quello di diventare una dea immortale, vuole vincere un Oscar ed è disposta a tutto per riuscirci.

 

Il padre di Agatha è invece un terapeuta, un po’ mago e molto cinico.

È il classico ciarlatano televisivo, cinico e avido, che si crede un grande sacerdote/guaritore. Come tutti i maghi televisivi, ha una forma mentis che lo porta a credere nella propria truffa: questo è quello che lo rende anche irresistibile. Non è altro che un grande attore e ho descritto personaggi simili anche in Brood – La covata malefica o Videodrome. In più, egli non sopporta che le persone agiscano contro le sue indicazioni e la più resistente delle “pazienti” è proprio sua figlia Agatha, che aggredisce anche fisicamente. Il comportamento di Agatha è come se fosse una forma di cattiva pubblicità al suo lavoro, mettendone in discussione fondamenta e risultati.

 

 

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Vietata la riproduzione, parziale o totale, della traduzione, salvo previa autorizzazione.

 

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