Dopo il dittico di Tim Burton dedicato a Batman, il franchise viene ripreso da Joel Schumacher, che da dark trasforma l’uomo pipistrello in un eroe pop, ricolorando in modo sgargiante costumi e scenografie e aggiungendo una vena comica grossolana, nonché stridente per gran parte del pubblico e per quasi tutta la critica; i due film, specie il secondo, furono talmente un flop da rischiare di affossare definitivamente il connubio cinema-fumetti, al punto che ancora oggi sia “Batman forever” (Joel Schumacher, 1995) che “Batman & Robin” (Joel Schumacher, 1997) sono ascrivibili nel novero dei peggiori cinecomics di sempre (tra i progetti ad alto budget, ovviamente).
In seguito al deludente risultato dei film di Schumacher (nonché allo scarso successo di prodotti men che mediocri come “Spawn” e soprattutto “Steel” - quest’ultimo nemmeno distribuito nelle sale -, entrambi datati 1997) in molti erano pronti a scommettere che i fumetti non si sarebbero mai affermati definitivamente sul grande schermo.
Non fu di questo avviso l’altro colosso dei comics mondiali, la Marvel , che uscì finalmente allo scoperto, provandoci sì, ma buttando tuttavia nella mischia non un suo eroe di punta, bensì un antagonista di una serie che non portava nemmeno il suo nome: con “Blade” (Stephen Norrington, 1998) la casa di fumetti statunitense ridiede respiro al genere, tanto che gli incassi (circa 100 milioni di dollari in tutto il mondo) suggeriranno i sequel “Blade II” (Guillermo Del Toro, 2002) e “Blade. Trinity” (David S. Goyer, 2004). Per quanto ugualmente dispendiosa in termini economici, la trilogia dedicata al personaggio di The tomb of Dracula si avvale di scelte differenti, risparmiando sul casting (con l’unico nome di rilievo Khris Kristofferson) e costruendo un horror filogotico che frulla assieme le atmosfere di Hong Kong e le ambientazioni tipiche di Gotham city.
E mentre i talentuosi fratelli Wachowski, ex sceneggiatori Marvel, dirottano sul grande schermo il loro supereroe (Neo) che era nato per le tavole a fumetti, dando vita al celeberrimo “Matrix” (Andy e Larry Wachowski, 1999), è Bryan Singer con i suoi X-men a rinvigorire il filone, mettendo forse definitivamente la parola “fine” su tutti i dubbi in merito alla sua capacità di attrarre pubblico (mentre vi scrivo è in programma l’uscita del settimo capitolo della prolifica saga). Nel 2000 il talentuoso regista de “I soliti sospetti” adatta per il grande schermo una materia complessa e ricca di suggestioni, affrontando con piglio autoriale la moltitudine di sfaccettature proprie del fumetto: “X-men” (Bryan Singer, 2000) si avvale di effetti visivi e make-up sbalorditivi, nonché di figure emblematiche interpretate da future star del cinema (Hugh Jackman, Halle Berry), anche se a onor del vero lo stile del film poco si avvicina a quello classico del fumetto.
Dopo il successo clamoroso del film di Bryan Singer ormai la strada è spianata: l’attenzione sempre più alta nei riguardi del fenomeno “cinecomics” si evince non soltanto dall’accelerazione da parte delle case di produzione ad accaparrarsi questo o quel personaggio, ma è tangibile anche dalla realizzazione di un film, “Unbreakable – Il predestinato” (M. Night Shyamalan, 2000), che pur non essendo la trasposizione di un fumetto, accentrò e non poco l’attenzione sul medium e confermò il buon rapporto con il mezzo cinematografico. Il film esperisce un doppio rapporto con i fumetti ed il loro mondo: da un lato David Dunn, il personaggio interpretato da Bruce Willis, è un novello supereroe indistruttibile, dall’altro Elijah (Samuel L. Jackson, il futuro Nick Fury) è un uomo fisicamente fragile che affoga nella passione per i fumetti le preoccupazioni dovute alla sua disabilità.
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