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L'uomo e le macchine nel cinema del nuovo millennio
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Finalmente ho visto Robocop 2014 di Josè Padilla, regista brasiliano che con i suoi Tropa de Elite 1 e 2 ha spostato più in là le frontiere del cinema di guerriglia metropolitana. Il cyberpoliziotto è molto diverso dall’antieroe del 1987, la sua perentoria quanto disperata lotta per tornare a casa (famiglia= umanità) pregiudica la mirabile riflessione politica dell’opera di Verhoeven.

 

Non intendo esprimere un giudizio definitivo perciò sommario sulla visione, che resta essenziale, mi limito ad alcuni dati macroeconomici: uscito nelle sale USA a febbraio,senza la propulsione di alcun periodo festivo, il film ha incassato 250 milioni di dollari worldwide a fronte di una produzione costata più di 100 milioni di dollari, attestandosi sui livelli di un altro remake meno significativo e atteso, il Total Recall con Colin Farrell, molto sotto nuove produzioni di fantascienza quali Pacific Rim di del Toro, Elysium di Neil Blongkamp o Prometheus di Ridley Scott, che hanno incassato più di 400 milioni di dollari ciascuna.


Occorre tuttavia quantificare il limite soglia che qualifichi un blockbuster: questi sono gli anni del cinema Marvel oriented, di X-men Capitan America Spiderman Reboot Batman Returns Avengers e così via spin-offando, i supereroi sono vere miniere d’oro, basti pensare che un film mediocre come Iron Man 3 ha incassato 1,3 miliardi di dollari al botteghino, al netto dei prevedibilmente copiosi incassi dal mercato home video a venire. Ebbene, questo cinema, che pure ha avuto un’impronta autoriale importante (con le regie di Bryan Singer, Chris Nolan, Sam Raimi, Joss Whedon) e uno sviluppo finalmente distopico più che propagandistico (con disegnatori/sceneggiatori quali Frank Miller e Alan Moore) ha esaurito la fase di crescita e vive la maturità dello sfruttamento commerciale intensivo. Per dirla più semplicemente, è tornato alle sue origini di cinema reazionario. Esattamente come era successo a certa fantascienza all’indomani dell’estenuante trilogia di Matrix, che sembrava aver ultimato ogni discorso possibile sulla relazione uomo-macchina attraverso il sacrificio cristologico di Neo, colui che doveva pacificare per sempre i due mondi. A confronto dell’enciclopedia dei Wachowski tutto diventava maniera, persino A.I. veniva giustamente derubricato a esercizio di stile collodiano sul tema dell’intelligenza artificiale, inutili anche i successivi Terminator 3 - definitivo one man show per Schwarzy the Governor - e I, Robot, soldi sprecati a celebrare il clownesco Will Smith. La tonitruante saga dei Transformers, 3 blockbuster uno dopo l’altro per complessivi 2,6 miliardi di dollari al box office, celebrava la morte anziché il trionfo dello sci-fi, abbassando affabulazione e pretese al target dei preadolescenti. E le domande esistenziali di Blade Runner? E la lezione di Philip Dick ? E il dilemma tra memoria e morale ? Tutto già visto, processato, sepolto, territorio steampunk buono per la psiche glitterata degli anni 80 e 90, non per il nuovo millennio.

 

Nella nuova era seguita al crollo delle torri, il pubblico aveva bisogno di fare gruppo, di sapere da quale parte stare, e tutti contro Sauron e gli orchi nella trilogia dell’Anello e derivati, e tutti a difendere New York con l’Arrampicamuri, e tutti a piangere il defunto tossico Joker che però se l’era cercata.

Da mondo Dick-otomiko a mondo dicotomico.

Il cyborg, la ricomposizione ad unità del dualismo uomo-macchina, non inquietava più, non disturbava, l’uomo e la macchina erano distinti e differenti, al massimo cyborg era un rapporto tra contenitore e contenuto, tra esoscheletro meccanico, vuoto quindi e senza volontà, e eroe umano dentro, sul paradigma di Mr. Tony Stark. Esoscheletro reale o virtuale come un avatar, come Avatar, oltre 3 mld di dollari incassati, il mito del west e della frontiera ridefinito in chiave futuribile grazie all’Internet. Molto epos, molte macchine da guerra, poche domande.

Altrove da Hollywood, nella germinale Corea, un maestro come Park Chan Wook ribaltava, nel 2006 con I'm a cyborg but that's ok,  il percorso concettuale che porta all'umanizzazione dell'androide: le disperate solitudini pur totalmente umane, alla deriva in un ospedale psichiatrico, per smettere di soffire si autoconvincono e reinventano cyborgs, focalizzando i propri bisogni sull'unica preoccupazione della macchina: continuare a funzionare ed alimentarsi.

Locandina Internazionale

I'm a Cyborg, But That's Ok (2006): Locandina Internazionale

Profondamente romantico ed incompreso, Wook è sempre troppo avanti o troppo indietro per essere capito, meglio replicare anziché individualizzare, meglio il dimenticabile Mondo dei Replicanti ad opera di Johnatan Mostow (quello di Terminator 3) o l’ennesimo Terminator (Salvation). Dalle repliche però originava un fecondo filone di cloni, macchine con sensibilità più umane dell’umano, e qui si muoveva qualcosa con Moon di Duncan Jones, che parlava di uomo macchina e spazio come di solitudine nel ciclo eterno dell’infinito, ma l’opera restava in una nicchia dorata lontana dal grande pubblico. Prima di Moon, inaspettatamente, quindi ovviamente, qualcosa è scaturito dalla Pixar, che per i primi 10 anni del nuovo millennio ha rappresentato genio e avanguardia del cinema tutto, prima di essere condannata alla mediocrità dalla dittatura del merchandising e dell’entertainment. Wall-E, macchina sola, unico individuo eco-robot rimasto a funzionare sulla Terra, ad accatastare rifiuti in interminabile loop diuturno, è imprevista espressione di volontà che salva la vita nelle sembianze di una pianta. Il genere umano risorge attraverso la pianta che risorge attraverso la macchina. Un nuovo inizio per la fantascienza, in un nuovo territorio libero dal babau della bomba atomica, oppresso però da macerie sociali, rifiuti, degrado, putrìo, per riesumare il sempiterno Dick. Occorreva però sviluppare alcuni discorsi interrotti, perfezionare innesti neurosensoriali, un nuovo punto di vista. Spielberg ci era andato vicino rileggendo Dick in Minority Report, ma il suo Tom Cruise sostituiva occhi umani con altri umani, fallacemente miopi.

Le sue intuizioni venivano perfezionate, circa un decennio più tardi, da un homo novus per Hollywood, il sudafricano Neill Blomkamp che aveva abbagliato il mondo portando gli alieni nelle terre dell’Apartheid (District 9). Nasceva Elysium, e nasceva bene, con la Terra ridotta ad un immenso ghetto, i ricchi ad orbitare sulla loro gated community, le macchine a curare e a ridare la vita a chi poteva permetterselo. Tutto però naufragava nel superomismo, nell’ansia di individuare un nuovo Neo, stavolta un Matt Damon cibernetico, equipaggiato con esoscheletro meccanico collegato direttamente al suo sistema nervoso e da esso dipendente, mero tramite per un happy ending in palese contraddizione con il no ending tipico del cinema sci-fi. L'errore, ne siamo sicuri, stava nell’intento palesemente didascalico, un film su commissione pro riforma sanitaria di Obama, che privava la visione di Blomkamp di individualità e profondità. Anche se tecnicamente cyborg non era, il giudice Dredd (ovviamente parliamo di quello di Pete Travis, 2012) era cyborg nelle funzioni: trinità ipertecnologica, poliziotto, giudice e boia in un supercorpo unico. Ultraviolenza e ironia a fiumi, satira facile ma efficace di ogni tendenza autoritaria.

E' di certo più aggraziata e affascinante era la visione di Ava, robot con ricordi umani trapiantati protagonista del britannico The Machine, film low cost che però sceglieva di riproporre le tematiche classiche (la riflessione sul potere, i sentimenti artificiali dei robots) senza un reale update, vanificando potenti intuizioni filmiche con una sceneggiatura dilettantesca. Meglio, molto meglio ha fatto Her, riflessione distopica e narcolettica sull’amore e sulla nostalgia, talmente potente da infettare un sistema operativo.

Rooney Mara, Joaquin Phoenix

Lei (2013): Rooney Mara, Joaquin Phoenix

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