Šarunas Bartas nasce a Šiauliai, Lituania, nel 1964. Dopo il diploma in cinematografia presso la Scuola Statale Pan-russa di Cinematografia “Gerasimov” di Mosca, intraprende un percorso artistico autonomo, fondando una propria casa di produzione, la Kinema Studija. L’inizio della sua carriera coincide con i primi anni dell’era post-sovietica: una collocazione storica che risulta decisiva nel determinare il contenuto delle sue opere, tutte ispirate al diffuso senso di disorientamento ed al bisogno di ricostruire un’identità nazionale. Questi i suoi film, di cui ha curato anche la sceneggiatura:
Tofolaria (1986) (cortometraggio)
In Memory of the Day Passed By (1990) (cortometraggio)
Tre giorni (1992) (premiato al Festival di Berlino)
Koridorius (1995)
Lontano da Dio e dagli uomini (1996) (in concorso al Festival di Cannes)
The House (1997)
Freedom (2000) (premiato al Festival di Venezia)
Children Lose Nothing (2004) (episodio di Visions of Europe)
Seven Invisible Men (2005) (in concorso al Festival di Cannes)
Indigène d'Eurasie (2010)
La sua filmografia è improntata ad un realismo artistico, che, però, rifiuta la classica estetica della poesia, volendo aderire senza equivoci alla propria missione sociologica. Il cinema di Bartas è come una muta galleria d’immagini, in cui i ritratti si alternano ai paesaggi urbani e naturali. A riempire le inquadrature sono, paradossalmente, il vuoto ed il silenzio, a cui non si aggiunge alcuna forma di bellezza, se non quella derivante dalla pura e semplice presenza della figura umana. Quest’ultima, che, perlopiù, appare sgraziata, segnata dagli anni, deturpata dalla sofferenza, risplende, però, della solennità del ruolo di cui è investita: testimoniare il valore imprescindibile ed incondizionato della vita in quanto tale.
Per questo motivo essa viene presentata nuda, spogliata del decoro della civiltà, mentre trascorre i propri giorni in abitazioni improvvisate, fatiscenti e promiscue, con animali che spesso invadono i suoi spazi. Primitiva è anche la sua espressività, che sostituisce al discorso parlato il linguaggio degli occhi e del corpo: i primi piani, le scene di ballo, le pose pittoriche sono gli elementi che maggiormente contraddistinguono l’estetica di Bartas, il cui stile, sia pure crudo, sembra, a tratti, volersi richiamare a Vermeer, Caravaggio, Manet e Schiele.
La solitudine e l’incomunicabilità sono come bolle d’aria che isolano i personaggi da un mondo distante, eppure vitale e presente, da cui giungono suoni indistinti, mescolati a musiche e parole. L’universo è là fuori, vasto, sconosciuto e irraggiungibile, e forse anche minaccioso, mentre l’umanità rimane, fremente, al di qua del confine: è la visione di Tarkovskij, che Bartas trasferisce dal piano metafisico a quello antropologico, sostituendo al sogno l’istinto, e all’ascesi introspettiva la banale deriva innescata dall’emarginazione.
Il fuoco è, come in Sacrificio, l'unica, apocalittica via di uscita dallo stallo di un'esistenza in cui il tempo si è bloccato in una insensata eternità. La vita umana è congelata in uno spazio che conosce solo le dimensioni estreme: la vastità illimitata della steppa (Few of Us) o del deserto (Freedom), in cui l'individuo è prigioniero di un vuoto informe e ingovernabile, e i locali angusti e sovraffollati delle case popolari (Koridorius, The House) in cui la persona si fonde con la massa, nella disperazione come nell'euforia, in un caos in cui fermenta il germe dell'alienazione.
Il linguaggio filmico asseconda questo lasciarsi andare, chiudendosi in un isolamento criptico, che si lascia scivolare i significati tra le dita ed afferra i simboli solo per un breve istante, abbandonandoli subito dopo, prima che questi sviluppino una propria identità semantica ed una precisa funzione nel contesto del racconto: un po' come la rana e la barchetta che, nel corto Children Lose Nothing, i bambini consegnano, infine, all'acqua del fiume.
La precedente puntata de Il cinema degli altri:
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